Friday, November 10, 2023

L' Amore dei Tre Re - Teatro alla Scala


 
Foto: Brescia&Amisano

Massimo Viazzo

Italo Montemezzi (1875-1952) ha legato il proprio nome praticamente ad un solo titolo: L’Amore dei Tre Re. L’opera ebbe la sua prima rappresentazione proprio al Teatro alla Scala nel 1913 e l’idea di riproporla al termine di questa stagione è certamente interessante in quanto il lavoro più importante del compositore veneto è uscito un po’ dappertutto e da tempo dai radar dei teatri, salvo sporadiche riproposte, dopo essere stato amato ed interpretato da fior di cantanti, principalmente negli Stati Uniti, fino agli anni cinquanta del secolo scorso. Alla Scala mancava dal 1953. Tullio Serafin, che diresse la première del 1913, Arturo Toscanini, che diresse quella americana nel 1914, Gino Marinuzzi e Victor De Sabata sono alcuni dei direttori d’orchestra che sostennero la partitura, un dramma a tinte forti, fosco, eroticamente ossessivo, e soprattutto musicalmente stimolante. La vicenda è ambientata nel Medioevo in un remoto castello italiano nel quale si trova reclusa la protagonista Fiora, la donna contesa da tre uomini che la desiderano morbosamente. L’Amore dei Tre Re è un dramma di amore e morte senza via di scampo, e il regista spagnolo Àlex Ollé, uno dei direttori artistici de La Fura dels Baus, imposta uno spettacolo claustrofobico realizzando una scena fissa invasa da una tetra foresta labirintica con, al posto degli alberi, fitte catene calate dall’alto. Con pochi elementi scenici (un letto e una scala), abiti per lo più scuri (salvo la veste bianca di Fiora) e con il palcoscenico spesso al buio, Ollé riesce a trasmettere angoscia, inquietudine, tormento evidenziando la solitudine e la prigionia della protagonista femminile. Purtroppo è mancata una vera regia sui personaggi e il cast, vocalmente discreto, non è stato aiutato in tal senso, con il risultato che gesti stereotipati poco alla volta hanno preso il sopravvento, limitando un coinvolgimento più diretto sugli avvenimenti narrati dal libretto dannunziano di Sem Benelli. I ruoli principali sono stati resi con impegno e dedizione: Chiara Isotton, nei panni di una Fiora volitiva, ha mostrato un bel timbro pastoso seppur con qualche asprezza in alto, Giorgio Berrugi ha dato voce ad un Avito musicale ma non molto incisivo, Roman Burdenko ha tratteggiato un Manfredo virile, vigoroso, con una linea di canto non sempre fluida, e Evgeny Stavinsky impersonava il tenebroso e spietato Archibaldo con una certa autorevolezza, mentre comunicativo è parso il Flaminio di Giorgio Misseri. Lo stile di Montemezzi è variegato e mostra un evidente retaggio verista, ma anche richiami alla timbrica e alle sfumature impressioniste così come all’armonia wagneriana: Pelléas e Tristan appaiono qua e là. Pinchas Steinberg è al giorno d’oggi il massimo esperto di quest’opera e la sua lettura asciutta, lucida, scolpita, mai enfatica ha convinto tutti. L’orchestra del Teatro alla Scala ha suonato in modo impeccabile. E Steinberg è sembrato soprattutto concentrarsi proprio sulla resa delle trame orchestrali. Infine da segnalare l’ottimo contributo del coro (nel terzo atto), guidato con mano sicura da Alberto Malazzi

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