Monday, June 13, 2022

La Gioconda in Milan

Foto: Brescia & Amisano

Massimo Viazzo 

È una Venezia notturna, buia, livida, quella che Davide Livermore immagina come ambientazione de La Gioconda di Amilcare Ponchielli, nono titolo della presente stagione operistica del Teatro alla Scala di Milano. La Gioconda, una sorta di grand-opéra italiano con una trama tanto  melodrammatica quanto inverosimile (ma è proprio per questo che piace ai melomani!), nella sala del Piermarini non è stata presente con continuità negli ultimi decenni, e dopo le celebri recite avvenute tra il dicembre del 1952 e il gennaio del 1953  con Maria Callas e Giuseppe Di Stefano, solo un controverso allestimento datato 1997 precede la proposta attuale. Livermore si ispira come di consueto al cinema e questa volta è Il Casanova di Fellini a influenzarlo (ma c'è anche la Venezia Celeste del fumettista francese Moebius) per creare un allestimento così cupo e tenebroso ma anche altamente onirico, fatto di ambienti stilizzati spesso girevoli, personaggi svolazzanti e sospesi in aria, e strutture dalle pareti trasparenti attraverso le quali si palesano solo ombre. Magistrale in tal senso la resa del duetto tra Alvise e Laura alla Ca' d'oro ad inizio terzo atto, in cui il regista italiano ci regala un momento thrilling quando ci mostra Badoero incalzare la moglie Laura su e giù per le scale della stanza creando un gioco di ombre davvero inquietante. Purtroppo la bacchetta pesante, grigia e monotona di Frédéric Chaslin non ha mai permesso alla partitura di “mettere le ali”: pochi colori, fraseggio rigido, volume orchestrale spesso soverchiante le voci e anche qualche sfasamento buca-palcoscenico. Insomma una direzione orchestrale davvero poco convincente. Meglio  le cose invece sul versante del cast. La protagonista Saioa Hernández ha impersonato una Gioconda di grande qualità sia vocale che drammatica, sapendosi destreggiare con bravura, alle prese con una tessitura così amplia e pericolosa, con bella timbrica e sicurezza, in crescendo per tutta la recita giungendo a cantare un quarto atto da favola! La sua interpretazione di “Suicidio” è stata da brividi ed è stata giustamente accolta dall'applauso più caloroso e sentito di tutta la serata. Questo ruolo sembra proprio calzarle a pannello. Temperamento e facilità di emissione per Daniela Barcellona, una Laura innamorata e volitiva, molto presente anche come attuazione drammatica, mentre il tenore Stefano la Colla, l'innamorato infedele Enzo, ha tentato di fraseggiare in modo vario (non sempre riuscendoci), cantando con una timbrica giovanile, un certo piglio, ma con  qualche imprecisione nell'intonazione. Era da quasi vent'anni che Roberto Frontali non si esibiva alla Scala. E non se ne capiscono i motivi vista l'esperienza, l'intelligenza e la tempra dello strumento vocale del baritono romano. Il suo Barnaba ha convinto proprio per queste qualità, senza dimenticare il fatto che Frontali non ne ha fatto la solita macchietta bieca e truce, ma ci ha restituito un personaggio a tutto tondo macerato dalla passione. Completavano il cast Erwin Schrott e Anna Maria Chiuri.  Il basso-baritono uruguaiano ha interpretato un Alvise spietato, sprezzante, arrogante, con dizione nitida e voce robusta e ben timbrata. La sua presenza in scena anche se limitata nel libretto di Boito, si è fatta sentire eccome! Mentre la Chiuri ha donato alla Cieca una voce di colore brunito con un fraseggio musicale e comunicativo. Un accenno anche alla coreografia leggiadra e lieve della Danze delle Ore create da Frédéric Olivieri e un plauso al Coro del Teatro alla Scala diretto da Alberto Malazzi sempre ordinato e preciso. Una garanzia. Ricordo infine che per l'occasione si è rivisto Bruno Casoni, ormai pensionato dopo quasi vent'anni di onorato servizio come maestro del coro scaligero ed ora alla guida del Coro delle Voci Bianche.

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