Foto: Marco Brescia & Rudy Amisano
Massimo Viazzo
Der
Flegende Holländer, secondo appuntamento dell’anno wagneriano al Teatro alla Scala di
Milano, dopo il magnifico Lohengrin
inaugurale, ha avuto un esito interlocutorio. Bryn Terfel realizzava
un Holländer carismatico scenicamente, di debordante presenza, ma un po’ troppo
muscolare, con una emissione vocale che pareva a volte forzata ed un fraseggio poco
incline a morbidezze. Per contro la
Senta di Anja Kampe era calda e appassionata. La voce del
soprano tedesco vibrava e sapeva commuovere, e la sua imperiosa e allucinata Ballata restava uno dei migliori momenti
dello spettacolo. Più ordinario ma comunque incisivo il Daland di Ain Anger,
mentre Klaus Florian Vogt tratteggiava un Erik con buone intenzioni interpretative
e musicalità, ma la sua voce suonava timbricamente un po’ sbiancata e perdeva
un po’ di consistenza nel registro più acuto. Completavano il cast lo
Steuermann di Dominik Wortig, un po’ in difficoltà in alto, mentre Rosalind
Plowright vestiva i panni di una Marie un po’ anonima. Hartmut Haenchen
dirigeva in modo un po’ generico, con qualche disequilibrio tra archi e fiati,
e con passo teatrale in po’ smorto, frutto forse di una concertazione non
precisissima. Detto, infine, dell’ottima prova del Coro del Teatro alla Scala
diretto da Bruno Casoni veniamo alla parte più problematica dello spettacolo:
la regia di Andreas Homoki, regia contestata vivacemente dal pubblico. Il
regista tedesco, infatti, con una ambientazione claustrofobica, nella quale il
mare era solo evocato da qualche quadro e da qualche cartina geografica,
ambientava l’azione negli uffici di una compagnia di navigazione. Niente
marinai, e niente filatrici, dunque, ma tutti impiegati alle dipendenze del
manager Daland, che agivano un po’ monotonamente attorno a una pedana girevole
attorno ad un grande parallelepipedo ligneo, per uno spettacolo poco poetico e,
soprattutto, senza magia né mistero.
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