Massimo Viazzo
Boris Godunov ha inaugurato la nuova stagione scaligera, secondo titolo della trilogia del potere pensata da Riccardo Chailly dopo il Macbeth dello scorso anno e prima del Don Carlo del prossimo. Chailly ha scelto la versione originale del capolavoro russo, quella del 1869, il cosiddetto Ur-Boris, versione che venne respinta all’epoca e che invece oggi ha quasi completamente soppiantato la versione definitiva molto più ampia, quella che comprende l’Atto polacco e la scena conclusiva della foresta di Kromy, probabilmente soprattutto per problemi relativi ai costi. Nel Boris del ’69 tutto è incentrato sul personaggio principale, unicamente sullo zar, sulla sua ascesa al trono, sui suoi turbamenti, sui fantasmi e sulla sua morte. Una versione monolitica, cupa, tetra, tragica. E la Scala ha trovato in Ildar Abdrazakov l’interprete ideale per carisma, qualità vocali ed espressive. Abdrazakov ha messo in evidenza una timbrica calda, rotonda, con una proiezione vocale che raggiungeva senza problemi ogni angolo della sala del Piermarini, anche durante l’emozionantissimo finale cantato tutto a fior di labbro. E poi che attore! Il basso russo ha saputo vivere il personaggio con emozione, passione, trasporto, curando ogni dettaglio espressivo e rendendo credibile la vicenda umana di Boris. Una interpretazione storica senza ombra di dubbio. Secondo atout della serata: la direzione di Riccardo Chailly. Il maestro milanese ha lavorato molto sul fraseggio e sugli impasti timbrici trovando una cifra interpretativa molto moderna e personale. Certo, l’afflato russo di certe scene, di certi cori, è venuto forse un po’ a mancare, ma abbiamo apprezzato l'analisi minuziosa della partitura e una sua restituzione drammatica, sincera e comunicativa. E poi il Coro! Che dire di questo straordinario Coro del Teatro alla Scala diretto con precisione, sicurezza e dedizione da Alberto Malazzi. Una prova superba, tenendo conto che nel capolavoro musorgskijano il coro è vero e proprio protagonista. E un plauso anche al Coro di Voci Bianche diretto da Bruno Casoni, il precedente maestro del coro principale. Un po’ di delusione invece è giunta dalla regia. Kasper Holten imposta uno spettacolo tutto sommato didascalico, con sullo sfondo una grande pergamena che si srotola a testimonianza della sequenza di eventi riportati da Pimen nelle sue cronache. Sul fondale appaiono anche suggestive immagini che visualizzano ciò che viene cantato. E una carta geografica enorme accompagna la scena nella seconda parte dello spettacolo, per poi sgretolarsi sottolineando così la precarietà di un impero sempre territorialmente instabile. Un regia commestibile quindi, di facile lettura, adatta all’apertura di stagione, con però una caduta di gusto, abbastanza inspiegabile, nel finale. Holten infatti fa morire Boris pugnalato alle spalle da un sicario. Ma non doveva morire sommerso e stritolato dai sensi di colpa? Mah.... Per tutta l’opera poi, in scena, girava il fantasma insanguinato del piccolo zarevic fatto uccidere da Boris prima della sua salita al trono. Se all’inizio la trovata shakespeariana poteva essere interessante, alla lunga è diventata un po’ fastidiosa e perfino noiosa, anche perché i bambini insanguinati sul palco alla fine si sono moltiplicati. Riuscito invece il quadro di San Basilio vissuto da Boris come un incubo che si abbatteva come un macigno sulla sua psiche già debole. Insomma, da Holten ci si aspettava di più, anche alla luce di sue produzioni eccezionali come il Ring di Copenhagen o il Tannhäuser. Ci si aspettava, io almeno mi aspettavo, uno spettacolo più incisivo, più graffiante. Ma al 7 dicembre, a Milano, evidentemente non si può...Il cast si è mostrato di buon livello. Da segnalare Ain Anger che ha dato voce a Pimen con piglio e comunicativa anche se con qualche forzatura, Di voce tenorile ben timbrata e sicura il Grigorij di Dmitry Golovnin, mentre autorevole sia vocalmente che come presenza scenica Alexey Markov nei panni di Ščelkalov, segretario della Duma. Norbert Ernst è parso un Principe Šujskij intrigante, mellifluo, ma ordinario come colore vocale. Stanislav Trofimov ha tratteggiato un Varlaam meno macchiettistico del solito e Lilly Jørstad ha cantato con musicalità e timbrica gradevole il ruolo del figlio Fëodor. Infine un elogio particolare va a Yaroslav Abaimov che ha interpretato il fondamentale, seppur breve, ruolo dell’Innocente in modo conturbante, inquietante. Prossimo appuntamento con la Salome di Richard Strauss, ripresa dello spettacolo firmato da Damiano Michieletto che era stato visto solo in TV e via streaming durante la pandemia.
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