Massimo Viazzo
Per l’inaugurazione della nuova stagione 2023/24 il Teatro Regio di Torino ha proposto un titolo di un’importanza capitale per la storia del grand-opéra francese, e potremmo dire anche per la storia dell’opera tout court, La Juive di Fromental Halévy, un titolo ancora piuttosto raro sui palcoscenici italiani, e direi non così consueto nemmeno su quelli internazionali. Nel primo secolo di vita, dal 1835 (data della première) al 1934, l’opera di Halévy andò in scena a Parigi per ben 600 volte (!) a dimostrazione della sua straordinaria popolarità, venendo apprezzata anche da Liszt, da Wagner e da Gustav Mahler. Poi, più nulla fino alle prime riproposte moderne avvenute poco più di vent’anni fa. Alla prima ripresa moderna parigina del 2006 l’opera fu diretta da Daniel Oren, profondo conoscitore ed estimatore di questo capolavoro, e proprio al maestro israeliano è stata ora affidata la bacchetta nella produzione torinese. Il libretto di Eugène Scribe contestualizza storicamente la vicenda attorno ai fatti avvenuti al Concilio ecumenico della chiesa cattolica tenutosi a Costanza, nella Germania meridionale, nel 1414 e racconta una vicenda fatta di tensioni religiose, passioni violente e colpi di scena. Halévy da parte sua scrive una partitura sontuosa, grandiosa, ricca di pagine memorabili, con una conduzione perfetta delle scene di assieme, una facilità melodica fuori dal comune e un uso sapiente, e all’epoca del tutto nuovo, dell’orchestra come voce intima capace di scandagliare la profondità delle situazioni e l’interiorità dei personaggi. Daniel Oren mostra di trovarsi a proprio agio in questo contesto, dirigendo con bel passo teatrale, slancio e passione. Lo stacco dei tempi è sempre meditato, la cura timbrica attentissima, e i momenti più interiori e reconditi dell’opera vengono sbalzati in primo piano come mai mi era capitato di ascoltare. Oren poi sa accompagnare i cantanti come pochi, e il rapporto buca-palcoscenico è sempre perfetto. Naturalmente sono stati effettuati tagli in una partitura di tale lunghezza, ma stavolta meno del solito. Lo spettacolo di Stefano Poda, che ha curato regia, coreografia, scene, costumi e luci punta decisamente sui tableaux vivants, su una ricca gestualità (a volte però si è notata un po’ troppa iperattività in palco), sulla ritualità, elaborando una messa in scena di impatto visivo in cui i singoli personaggi hanno ragion d’essere in quanto elementi, quasi ingranaggi, inseriti in una più ampia visione rituale, spirituale. Una scritta in latino «Tantum religio potuit suadere malorum» ( trad. «la religione così poté persuadere a compiere grandi mali»), tratta dal De rerum natura di Lucrezio, poeta e filosofo della Roma antica seguace dell’epicureismo, campeggia in alto sul fondale per una visione registica che vuole sottolineare gli errori e gli orrori commessi in ogni epoca in nome della religione. Cosa attualissima purtroppo. Poda come di consueto gioca su due piani differenti, quello prettamente visivo, costruendo installazioni di sicuro effetto, e quello più concettuale, e a volte non sempre comprensibilissimo, avvalendosi di una parte mimica. Venendo al cast non si può che iniziare lodando senza riserve la prova di Gregory Kunde, protagonista straordinario per resa vocale e scenica. Il suo Éléazar, ruolo creato da Alphonse Nourrit nel 1835, uno dei più grandi tenori dell’800, e riportato in auge nelle riprese moderne dell’opera da Neil Shicoff, riesce a coniugare magnificamente le qualità di una voce che nel corso della sua vita professionale ha subito una imprevedibile trasformazione, amalgamando così lo stile del tenore rossiniano della prima parte di carriera, con quello del tenore drammatico. Sbalorditiva in tal senso la sua capacità, ad esempio, di cantare sia l’Otello rossiniano che quello di Verdi. E nel ruolo di Éléazar il suo percorso artistico sembra trovare un esito definitivo. Kunde ne fa un grande personaggio tragico. La sua voce, nonostante il lungo percorso artistico, è ancora saldissima soprattutto nel registro più acuto. Il piglio e una notevole rifinitura del fraseggio hanno fatto il resto decretando così il trionfo del tenore americano. Anche il ruolo principale femminile fu creato da una celebre cantante dell’epoca, Marie-Cornélie Falcon, soprano il cui cognome ha definito poi negli anni proprio quel tipo di soprano drammatico con una timbrica più scura e con un registro medio-basso corposo. Mariangela Sicilia ha tratteggiato una Rachel più lirica, mostrando calore nella linea di canto, purezza timbrica ed emozione nell’accento in un ruolo che vive proprio di passione e contrasti. Disinvolta, agile e sicura in scena è parsa la Principessa Eudoxie interpretata da Martina Russomanno e convincente anche il tenore contraltino rumeno Ioan Hotea che ha dato voce a un Principe Léopold preciso nei sovracuti e garbato, mentre il Cardinale Brogni di Riccardo Zanellato non ha mostrato il peso vocale in zona grave richiesto dalla parte, ma ha ben risolto il suo fondamentale personaggio mostrando morbidezza d’accento e cura nel fraseggio, alla fine più paterno che altero. Ottime le parti di fianco, Albert interpretato da Daniele Terenzi, Ruggiero cantato da Gordon Bintner e l’Araldo di Rocco Lia. Sugli scudi, infine, il Coro del Teatro Regio diretto da Ulisse Trabacchin, oggi impegnatissimo.
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