Massimo Viazzo
Per il nuovo allestimento di Peter
Grimes la Scala ha dato l’incarico a Robert Carsen, uno dei registi più
affezionati al teatro milanese. Carsen è tornato così per la tredicesima volta
a Milano e con l’aiuto dei suoi collaboratori Gideon Davey (scene e costumi),
Peter van Praet (luci), Rebecca Howell (coreografia) e Will Duke (video) ha
predisposto uno spettacolo emotivamente potente, nel quale l’esemplare cura dei
movimenti scenici dei molti personaggi presenti in scena andava di pari passo
con un potente scavo psicologico sul protagonista. Il capolavoro di Benjamin
Britten (1913-1976) ha una discreta tradizione di rappresentazioni al Teatro
alla Scala, con la prima italiana avvenuta nel 1947 (due anni dopo la première
londinese del 1945) diretta da Tullio Serafin e in versione ritmica italiana, e
altre tre riprese in seguito. Da ricordare soprattutto quelle con due «mostri
sacri» quali Jon Vickers nel 1976 e Philip Langridge nel 2000. Il sipario si
apre sull’aula del tribunale in cui Grimes viene accusato (ingiustamente) di
aver ucciso il suo mozzo. Una scena fissa, cupa e spoglia che si trasformerà
nei vari ambienti dell’opera, la taverna, la strada davanti alla chiesa, la
capanna di Grimes, mentre nella parte superiore viene predisposto uno spazio
per effettuare delle video proiezioni in cui si vedranno di volta in volta il
primo ragazzo morto sul fondale della barca tra i pesci, gli occhi allucinati
del protagonista, specchio della sua inesorabile caduta nel baratro, il mare
tempestoso tanto reale quanto metaforico. La lettura del regista canadese ci
porta d’acchito nella psiche di Grimes, nel suo subconscio, mettendo in
evidenza quel pesantissimo senso di colpa che lo tormenterà per tutta la
vicenda, e cioè quello di non aver saputo salvare il suo apprendista della cui
morte la gente del borough lo accusa. Sarà proprio questo senso di colpa, dopo
la morte accidentale anche del secondo apprendista, ad annientare Grimes
portandolo al suicidio. Non a caso l'ultima scena ripropone l'aula del
tribunale con un ritorno ciclico all'inizio del Più rologo quasi come se questo
fosse un processo infinito da cui Grimes non si può salvare se non con la
morte. Brandon Jovanovich dipinge un Grimes scorbutico, violento, manesco,
aggressivo, brutale. Il tenore americano ne fa una interpretazione di sapore
espressionista rifacendosi chiaramente al Modello di Jon Vickers. Il suo Grimes è un personaggio borderline che
soffre perché incapace di comunicare e che sarà travolto dal falso perbenismo e
dall’ottusità dei compaesani del borough. Vocalmente muscolare, non sempre
immacolato nell’emissione nel registro più acuto, Jovanovich dipinge sulla
scena un grande personaggio tragico grazie anche ad una notevole prova
attoriale. Ellen Orford, la maestra vedova che tenta in tutti i modi di salvare
Grimes, era Nicole Car. Il soprano australiano ha messo in mostra una voce
luminosa e liricissima, sapendo anche essere intensa e drammatica. La sua
interpretazione è parsa perfettamente idiomatica. Al Capitano Balstrode
prestava la sua voce timbrata e virile Ólafur Sigurdarson. Notevole anche lo
squillo negli acuti. Per il baritono islandese Carsen ha ritagliato un ruolo
più cinico del consueto, ritraendolo come un avido affarista interessato a fare
soldi. Un po’ tutti gli interpreti hanno mostrato notevoli capacità di
recitazione e sono parsi vocalmente irreprensibili. Da ricordare Peter Rose nei
panni di Swallow, Natascha Petrinsky come Mrs. Sedley, Michael Covin il
moralista ipocrita Bob Boles, Margaret Plummer nel ruolo di Auntie con le disinibite
nipotine Katrina Galba e Tineke van Ingelgem, le due principali attrazioni
della locanda. Simone Young, che debuttava alla Scala, ha mostrato di conoscere
benissimo la partitura dirigendo con sicurezza ed energia, sapendo ripiegare
nei momenti più intimi e mai debordando in quelli più eclatanti. Ottimo sempre
l’equilibrio tra la buca e il palcoscenico e in questo la direttrice
australiana ha mostrato di conoscere bene l’arte di saper accompagnare i
cantati, cosa che oggi non è sempre così scontata. La Young ha restituito la
partitura britteniana con lucidità, vigore ma anche estrema trasparenza.
Davvero una prova maiuscola la sua. Superlativo infine il Coro del Teatro alla
Scala diretto da Alberto Malazzi, decisamente molto impegnato in quest’opera. E
il pubblico ha decretato alla fine un franco successo.
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