Foto: Monika Rittershaus
Massimo Viazzo
Grande inaugurazione alla Scala! La visione psicanalitica che ha
fortemente caratterizzato il Lohengrin
di Claus Guth può aver certamente spiazzato
il pubblico scaligero; ma che coerenza drammaturgica! Claus Guth ha ambientato
l’opera a metà Ottocento, praticamente all’epoca della sua composizione,
facendo piazza pulita di ogni riferimento al mondo medievale evocato dal
libretto. Ciò che interessava a Claus Guth non era certo l’aspetto fantastico e
favolistico della vicenda, ma la profondità della psiche dei due protagonisti veniva
messa a nudo situandosi in primo piano. E così era Elsa stessa ad evocare con
il suo sogno interiore la comparsa del Cavaliere del Cigno, colui che la doveva
aiutare e sostenere nell’avversità della sua vita travagliata. Ma anche lo
stesso Lohengrin, letteralmente scaraventato in questo mondo, un mondo “altro”
dal suo (memorabile la sua entrata in posizione fetale, titubante, tremante,
quasi una nuova nascita...), era presentato come un individuo alla ricerca di
se stesso: chi è il Cavaliere del Cigno? E’ un protettore, un redentore o possiede
pure lui ansie e debolezze? E’ qui che Guth completa in modo avvincente la
visione drammaturgica del capolavoro wagneriano cogliendo nel protagonista la dicotomia
che si viene a creare tra il suo agire e il suo essere, tra il compito a cui è
chiamato dalla moltitudine e la ricerca del proprio “io” intimo e segreto.
Perciò il Lohengrin di Guth è un
Lohengrin assolutamente antieroico, che alla fine dell’opera esce di scena,
morendo, in modo specularmente simmetrico al suo ingresso. Eccezionale la prova di Jonas
Kaufmann, in assoluto il miglior Lohengrin in circolazione oggi. Il tenore
bavarese ha cantato un Lohengrin sfumatissimo, alla ricerca costante dell’espressività,
intimo e soprattutto molto umano. Con una emissione salda e una sicurezza
straordinaria nella definizione del fraseggio, Kaufmann ha elettrizzato il
pubblico. Il suo In fernem Land, diafano
e timbricamente commovente, è stata
una delle pagine più alte scritte nella storia recente del massimo teatro
milanese! Non da meno è stata Anja
Harteros, un’Elsa di grande carisma vocale, lirica e luminosa, ma anche
tormentata. La debordante Ortrud di Evelyn
Herlitzius e il più rozzo Telramund di Tomas
Tomasson formavano la coppia dei “cattivi”. Timbricamente morbido, ma un
po’ problematico sugli acuti il basso tedesco René Pape nei panni del Re, mentre non sempre a fuoco
nell’intonazione l’Araldo di Zeliko
Lucic. Di grande spessore, infine, la prova direttoriale di Daniel Barenboim, agogicamente mobilissima
e sempre molto teatrale. Un bravo a tutti, orchestra e coro, per una produzione
da ricordare!
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