Massimo Viazzo
Esistono compositori operistici la cui fama si è consolidata essenzialmente grazie a un’unico titolo. Si pensi, ad esempio, a Georges Bizet (Carmen), Amilcare Ponchielli (La Gioconda), Arrigo Boito (Mefistofele), Pietro Mascagni (Cavalleria Rusticana) e Ruggero Leoncavallo (Pagliacci). A questo elenco si può aggiungere tranquillamente il nome di Umberto Giordano (1767-1948), il cui Andrea Chénier resta l’unica sua opera effettivamente entrata in repertorio, seppur in modo alterno, pur essendo considerata uno dei capolavori del verismo italiano. Nell’opera ci sono i tipici elementi passionali dello stile verista, ma troviamo anche spirito artistico, nobiltà d’animo e amor patrio, che rendono lo Chénier qualcosa di prezioso nelpanorama del melodramma italiano a cavallo tra 800 e 900. Andrea Chénier, opera in quattro quadri di Umberto Giordano su libretto di Luigi Illica, debuttò alla Scala di Milano nel 1896. Ambientata durante la Rivoluzione Francese, si ispira alla vita del poeta, realmente vissuto, Andrea Chénier, noto per le sue poesie politiche e la sua tragica fine. La trama si sviluppa attorno al triangolo amoroso tra Chénier, Maddalena di Coigny e Carlo Gerard, esplorando temi di amore, passione e idealismo in un periodo di profondi sconvolgimenti storici. Dal punto di vista musicale , l’opera è celebre per le sue arie potenti e drammatiche, affidate ai tre protagonisti. Tali arie, divenute brani centrali del repertorio lirico, sono molto apprezzate dagli appassionati e mettono in risalto la bellezza del canto e la forza emotiva della musica verista di Giordano. In particolare, Giordano si concentrò sulla scrittura della parte per il tenore, tecnicamente impegnativa e faticosa, tanto da far appellare lo Chénier come una vera e proprio tenor opera. Andrea Chénier, che è tornato al Teatro Regio di Torino dopo poco più di un decennio dall’ultima sua apparizione, è un opera che ha una tradizione consolidata nel teatro piemontese, alimentata sempre dalla presenza di grandi voci. Nell’ultimo mezzo secolo sul palcoscenico del Regio si sono avvicendati tra i tenori Carlo Bergonzi, Placido Domingo, Nicola Martinucci e Marcelo Alvarez, tra i soprani Rita Orlandi Malaspina, Daniela Dessì, Maria Josè Siri, e tra i baritoni Aldo Protti, Renato Bruson, Juan Pons e Alberto Mastromarino. Una vera parata di stelle. Lo spettacolo allestito a chiusura di stagione dal Teatro Regio, e presentato con la regia di Giancarlo del Monaco (scene di DanielBianco, costumi di Jesus Ruiz, luci di Vladi Spigarolo e coreografia di Barbara Staffolani) ha convinto solo in parte. L’intento del regista era quello di contestualizzare gli eventi, almeno nel primo atto, nel periodo storico della Rivoluzione Francese, come narrato dal libretto, per poi operare un salto temporale di alcuni secoli e rappresentare rivoluzioni e dittature più vicine a noi, al fine di mostrare come il mondo purtroppo viva e si nutra di tali efferatezze in ogni sua epoca. In questo modo, i due protagonisti non moriranno sulla ghigliottina, ma in un campo di concentramento. La bandiera francese, elemento scenografico abituale, è stata sostituita da un’inquietante bandiera nera, già presente nel secondo atto, a testimonianza dell’opprimente presenza di un regime totalitario non meglio specificato. Tuttavia, in scena non sono emerse situazioni, gesti o movimenti, tali da supportare una simile interpretazione, che, in ultima analisi, è risultata meramente illustrativa. Anche la direzione d’orchestra non ha convinto pienamente. La bacchetta era affidata ad Andrea Battistoni, recentemente nominato direttore musicale del teatro piemontese. Il direttore ha presentato una lettura tesa, a tratti infuocata, ma anche un po’ monocorde a livello dinamico, privilegiando il forte e il fortissimo. Ne è risultata una resa dell’opera poco fantasiosa e un po’ troppo monolitica, che le ha tolto un po’ di respiro e nobiltà. Ed eccoci ai tre ottimi protagonisti. Gregory Kunde ha impersonato un Andrea Chénier sfaccettato, poetico (Un dì all’azzurro spazio), ma anche virile (Credo a una possanza arcana) e audace (Sì, fui soldato). La linea di canto è risultata salda e musicale soprattutto nel registro più acuto, spesso elettrizzante e affrontato con facilità e spavalderia, mentre in basso qualche suono è parso un po’ sfocato timbricamente. La sua indubbia musicalità gli consentito di tratteggiare uno Chénier del tutto credibile. Maria Agresta ha interpretato una Maddalena de Coigny di grande impatto emotivo. Con una timbrica seducente, un suono pieno e corposo e una tecnica raffinata, la Agresta ha fraseggiato con sensibilità, restituendo un personaggio a tutto tondo. Il suo brano più celebre, La mamma morta, è stato probabilmente il momento più intenso dell’intera serata. Franco Vassallo ha offerto una prova solida e sicura nei panni di Carlo Gérard, mettendo in mostra un timbro virile e un accento ricco di passione. Il suo Nemico della patria, così ardente e tormentato, è stato giustamente molto apprezzato. L’intero cast ha offerto una performance convincente. In particolare, Manuela Custer ha interpretato con maestria il ruolo di Madelon, conferendo al personaggio una profonda umanità che ha emozionato il pubblico grazie alla sua timbrica vocale ricca e brunita. In “Son la vecchia Madelon”, la Custer ha saputo imprimere la sua impronta personale. Ma, direi, che tutti i cantati del cast hanno mostrato perfetta aderenza ai propri ruoli, lavorando in sinergia: Mara Gaudenzi (Bersi), Federica Giansanti (Contessa de Coigny), Adriano Gramigni (Roucher), Nicolò Ceriani (Pietro Fléville e Fouquier Tinville), Vincenzo Nizzardo (Mathieu), Riccardo Rados (Incredibile), Daniel Umbelino (L’abate poeta), Tyler Zimmerman (Dumas), Janusz Nosek (Schmidt), gli ultimi tre facenti parte del Regio Ensemble. Da segnalare anche l’importante contributo del Coro del Teatro Regio diretto da Ulisse Trabacchin. Un aspetto non pienamente positivo è stato rappresentato dalla presenza di ben tre intervalli di durata considerevole, che hanno portato la durata complessiva dello spettacolo oltre le tre ore e mezza. Ciononostante, lo spettacolo si è concluso con un’ovazione generale.


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