Thursday, July 10, 2025

Norma di Bellini - Teatro alla Scala, Milano

Foto: Brescia & Amisano

Massimo Viazzo

Nove recite nel 1952 con Gino Penno, Ebe Stignani, Nicola Rossi Lemeni, direttore Franco Ghione e regia di Mario Frigerio e nove recite a cavallo tra dicembre 1955 (inaugurazione della stagione) e gennaio 1956 con Mario Del Monaco, Giulietta Simionato, Nicola Zaccaria, con la bacchetta di Antonino Votto e la regia di Margherita Wallmann: queste le date del leggendario binomio Maria Callas-Norma al Teatro alla Scala di Milano. Da allora, alla Scala si sono cimentate nel temibile ruolo solo Leyla Gencer nel 1965 con Bruno Prevedi, Giulietta Simionato, Nicola Zaccaria, la direzione di Gianandrea Gavazzeni ancora con la regia della Wallmann, e soprattutto Montserrat Caballé in più riprese tra il 1972 e i 1977 con colleghi del calibro di Gianni Raimondi, Fiorenza Cossotto, Tatiana Troyanos e Ivo Vinco con la direzione, in alternanza, di Gianandrea Gavazzeni e Francesco Molinari Pradelli e lo spettacolo curato da Mauro Bolognini. Da quelle serate è trascorso quasi mezzo secolo prima che la Scala riprogrammasse Norma! Ho voluto fare un po’ di storia per far comprendere il motivo che ha tenuto lontano questo titolo fondamentale del melodramma italiano dal teatro milanese per tutti questi anni: fantasmi di un’epoca d’oro della lirica che evidentemente incombevano ancora potenti. Tra l’altro, il Teatro alla Scala ha un legame strettissimo con il capolavoro di Vincenzo Bellini (1801-1835), poiché proprio nel teatro milanese andò in scena la sua prima nel 1831, con un cast stellare composto da Giuditta Pasta, Domenico Donzelli, Giulia Grisi, Vincenzo Negrini e la direzione di Alessandro Rolla. In definitiva, Norma per la Scala rappresenta da anni un titolo da affrontare con cautela. È innegabile che le leggendarie interpretazioni di Maria Callas degli anni ’50, ma anche di Montserrat Caballé negli anni ’70, abbiano influenzato, volente o nolente, le scelte delle direzioni artistiche del teatro nel corso degli anni. Tra l’altro, in loggione, nel celebre loggione scaligero, fino a qualche anno fa era possibile incontrare tra il pubblico alcuni spettatori che avevano assistito direttamente a quelle rappresentazioni memorabili. I cosiddetti vedovi Callas” avrebbero accolte con favore una nuova Norma? L’avrebbero semplicemente tollerata o l’avrebbero disapprovata a priori con fischi e buuu?Ecco, tutto questo per affermare che questa Norma era attesissima, probabilmente il titolo più atteso dell’intera stagione. E come è andato lo spettacolo? Direi a velocità doppia: convincente per la parte musicale, un po’ più problematico invece per la parte registica. Olivier Py ambienta lo spettacolo nel periodo pre-risorgimentale italiano, che è anche il periodo di composizione dell’opera, e cerca rapporti e intrecci con il personaggio ancestrale e affine di Medea, non a caso altro ruolo-icona legato al nome di Maria Callas. Ma a differenza di Medea, che ucciderà i propri figli,Norma li risparmierà, salendo essa stessa, con Pollione, sul rogo. Nella trasposizione temporale prevista dal regista francese, i galli del libretto saranno gli italiani stessi (i milanesi per la precisione), mentre gli oppressori romani diventeranno gli austriaci. «Si può immaginare» – spiega Py nelle note di regia – «che la situazione di questa Medea (italiana), innamorata di un ufficiale romano (o austriaco, a seconda che si sveli o meno il gioco delle trasposizioni), che ritarda la rivoluzione nazionale per salvare il suo amante, abbia commosso un librettista e un musicista entrambi al centro della rivoluzione nazionale italiana. Norma deve scegliere tra il suo cuore di donna e il suo cuore politico, e le sue esitazioni danno luogo a un conflitto molto musicale. Non può uccidere il padre dei suoi figli, né può perdonargli l’infedeltà e il cinismo con cui l’ha indotta a tradire la sua causa rivoluzionaria. Non può uccidere i suoi figli, perché è profondamente morale, e non le resta altra scelta che sacrificarsi per la rivoluzione». In questo allestimento, Norma, artista di metà Ottocento, si prepara ad interpretare il ruolo di Medea. Ma, sacrificandosi in nome della rivoluzione, stravolgerà il finale della tragedia di Euripide e dell’opera omonima di Cherubini, vivendo in prima persona la catástrofe conclusiva e passando il testimone a quella sorta di suo alter ego che è Adalgisa. Da notare che la scenografia, elegante ed essenziale, impostata su una pedana girevole e curata da Pierre-André Weitz (responsable anche degli appropriati costumi), richiamava proprio la sala del Piermarini.  Ci troviamo chiaramente nei territori del metateatro, per una proposta indubbiamente intelligente e interessante, ma non sempre di immediata lettura. La Scala diventa così il tempio di Irminsul, e le due sacerdotesse del tempio non sono nient’altro che sacerdotesse dell’arte. Py ha forse preteso un po’ troppo: quando lo spettatore ècostretto a concentrarsi a fondo per comprendere gli eventi scenici, la musica rischia di passare in secondo piano. Ma i diversi livelli di lettura, che si interscambiavano e sovrapponevano, con le protagoniste-artiste che mentre vivono la vicenda di Norma interpretano quella di Medea con i moti rivoluzionari italiani di metà Ottocento sullo sfondo, resta una proposta certamente stimolante. Ma gli stimoli a volte sono parsi eccessivi, come la costante e un po’ disturbante presenza di mimi di scena, la teatralizzazione un po’ scontata della sinfonia dell’opera e certi balletti convenzionali (credo, volutamente), coreografati da Ivo Bauchiero. La direzione d’orchestra è stata affidata a Fabio Luisi, il quale ha scelto l’edizione critica curata da Roger Parker per Casa Ricordi. Luisi ha proposto una lettura di stampo neoclassico, caratterizzata da attenzione e sensibilità nell’accompagnamento dei cantanti (che filologicamente hanno effettuato le variazioni nei da capo). Notevole anche il lavoro sulle dinamiche, dosate con certosina precisione, e sulla scelta dei tempi. Particolarmente efficace, ad esempio, il rallentamento del tempo nella sezione del duetto tra Pollione e Adalgisa del primo atto (Ciel! Così parlar l’ascolto), una vera e propria oasi lirica di intima poesia. Una tensione narrativa costante ha caratterizzato la sua lettura, mai risultata effettistica o troppo chiassosa. Norma era Marina Rebeka. Il soprano lettone è una delle interpreti di riferimento di questo ruolo al giorno d’oggi. La cantante ha evidenziato padronanza della parte, facilità nel risolvere le difficoltà tecniche più complesse e le salite in zona acuta, a volte un po’ troppo sonore in verità. Tutto è stato cantato con precisione, scrupolo e sicurezza. Una buona proiezione vocale (anche se la dizione non è parsa impeccabile) e totale dedizione le hanno consentito di imporre la sua visione di una Norma certamente curata, raffinata, intima (l’inizio a fior di labbro di Casta Diva, ad esempio), ma alla quale è venuto un po’ a mancare quell'accento drammatico che ha fatto di Norma un personaggio che trascende il mero ruolo operistico. Molto applaudita Vasilisa Berzhanskaya. La sua Adalgisa è parsa centrata sia dal punto di vista vocale che teatrale. La Berzhanskaya ha mostrato una timbrica seducente, consapevolezza scenica e soprattutto un piglio drammatico inusuale per questo ruolo. Il mezzosoprano russo ha messo in mostra uno strumento vocale espressivo, capace di sfumare e commuovere. Nei memorabili duetti con Norma ha tenuto testa alla collega, superandola a volte in intensità. Antonio Poli, che ha sostituito all’ultimo momento un indisposto Freddie De Tommaso, ha interpretato Pollione con una vocalità da tenore lirico fresca, generosa ed espansiva, a tratti palpitante, sebbene talvolta con qualche suono leggermente aperto. La sua interpretazione, espressiva e abbastanza rifinita, si è giustamente tenuta lontana dal trasformare il personaggio in un macho verista alla Turiddu, come spesso si è ascoltato. Peraltro Poli ha omesso il Do acuto, scritto in partitura da Bellini, nella cavatina Meco all’altar di Venere. Michele Pertusi ha offerto una solida interpretazione di Oroveso, franca e austera, sebbene il timbro vocale risultasse un po’ smagrito. Ottima la performance di Paolo Antognetti (Flavio), tenore tecnicamente preparato, dalla dizione chiara e dalla timbrica gradevole. Corretta e appropriata la Clotilde di Laura Lolita Perešivana, allieva dell’Accademia della Scala. Infine, un encomio speciale va al Coro del Teatro alla Scala, diretto magistralmente da Alberto Malazzi.



 

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