Leonardo Monteverd
Continua l'esplorazione
delle opere di Richard Strauss da parte di Zubin Mehta al Maggio Musicale. Dopo
Die Frau ohne Schatten dell'anno scorso il percorso straussiano non poteva che
incontrare Der Rosenkavalier, una delle opere più perfette della storia della
musica. Parole e musica si fondono qui con rara grazia, con livelli di lettura
molteplici e simultanei, quasi come se mondi di dimensioni quantistiche diverse
si incontrassero per poi sparire e riapparire nuovamente in altre dimensioni.
La scollatura temporale tra il rococò dell'ambientazione librettistica e il
valzer viennese sinfonico ottocentesco, trasfigurato in un post-wagnerismo
esasperato e miscelato abilmente con la consapevolezza che l'impero austro
ungarico era al crepuscolo, poco prima della Grande Guerra, tutto traslato
nella metafora sul tempo che passa e sulla maggiore o minore coscienza del
momento in cui ci si deve rendere conto che un'epoca finisce, rende
quest'opera, di cui non si sa cosa sia più perfetto, se il libretto di
Hofmannstahl o la musica di Strauss, il monumento al tempo perduto. Il tempo,
sì, il tempo che fa rendere conto alla Marescialla che è spuntata una ruga o
che l'acconciatura del parrucchiere, non molto diversa da quella del giorno
prima, quel mattino la rende più vecchia. Ma è lei che è cambiata: quel
mattino, dopo l'ultima notte d'amore con Octavian raccontata da una musica
sensualissima, la principessa ha la consapevolezza che il tempo è passato e che
non lo si può fermare. E la metafora del tempo continua da quel momento ad
essere il fil rouge dell'opera. Eike Gramss, il regista di
quest'allestimento creato apposta per il Maggio Musicale, ha esasperato questo
concetto di tempo e ha ambientato quest'opera in un'epoca che va dalla Vienna
di una giovane imperatrice Maria Teresa fino alla fine dell'impero asburgico,
non celebrandola, ovviamente, ma quasi annunciandola, con tutti i segni
premonitori, talora evidenti, di una decadenza, traslati nella consapevolezza
malinconica ma ferma e dignitosa della Marescialla. Oltre un secolo e mezzo di
storia, rappresentato dalla varietà dei costumi (belli, di Catherine Voeffray):
si va dagli abiti settecenteschi di Octavian, quasi a simboleggiare il momento
più lontano e più adolescenzialmente puro di quell'Impero, a quelli
ottocenteschi di Sophie fino a quelli novecenteschi molto chic della
Marescialla e quelli folcloristici, sempre uguali nel tempo, di Ochs, autentico
bue tirolese, passando per tutte le sfumature possibili della servitù, della
folla di personaggi avventizi, dai caratteristi ai mimi. Il lavoro che Gramms
ha fatto cogli artisti era evidente ed era assolutamente credibile e
pertinente, come oggi raramente accade di vedere. Il cast sterminato era del
tutto coerente e ha seguito il regista nelle sue idee, fornendo una delle più
belle realizzazioni di quest'opera a cui abbia mai assistito. Tutti sono circondati da
specchi, nelle scene di Hans Schavernoch, tutti hanno la possibilità di
osservare il tempo che scorre, il tempo che si attarda sulle proprie sembianze
e le cambia… per chi vuole rendersene conto, ovviamente. Ochs rinuncia alla
consapevolezza e perpetua il suo dongiovannismo di taglio assai volgare, oltre
al suo opportunismo, specchio di un'aristocrazia prepotente e vuota che sta per
essere cancellata dalla storia qualche anno dopo la prima del Rosenkavalier.
Ottimo il basso Kirstinn Sigmundsson, grezzo quanto basta per delineare
l'egoismo e la prepotenza del barone che non vuole capire, come gli dice la
Marescialla, che il tempo è scaduto. Sarà la realtà a schiacciare
quest'incoscienza anacronistica e alla fine Ochs perderà tutto, travolto dal
ridicolo e dai creditori. Regina di quest'edizione è stata Angela Denoke, in un
personaggio a lei molto congeniale e ormai talmente rodato da potersi
permettere le più piccole sfumature interpretative. La sua Marescialla era così
altamente aristocratica, talmente carismatica che ogni minimo gesto, certamente
accordato col regista, aveva una sua ragion d'essere: un distacco malinconico
dalla realtà di cui essa stessa è vittima, perché nulla può sottrarsi al tempo
inesorabile, nessuno, né re né imperatore né plebeo. E di questo si rende conto
improvvisamente, dopo l'ultima notte di fuochi d'artificio col giovanissimo
amante. Il suo canto elegantissimo ha pervaso la sala di commozione,
soprattutto nel monologo e nel duetto del primo atto e nel magnifico terzetto
finale, uno dei punti più alti di quest'esecuzione. Zubin Mehta ha diretto
questi momenti magici con grande professionismo, però, forse, gli mancava un
pizzico di mistero in più: il mistero di un suono preesistente che trova in
quel momento il suo passaggio in quella dimensione e poi torna via in un'altra.
Se si può chiamare difetto, ma non lo è, perché l'orchestra ha suonato molto
bene, mancava giusto questo. Il famoso valzer, che inizia da una evocazione
musicale di Ochs, diventa un fantasma grossier come lui, quasi si trasfigura
ogni tanto in un chiassoso valzer di routine.
La magia dello stupore della
gioventù che scopre l'innamoramento improvviso e travolgente, che annienta
senza pietà tutto il resto, il momento di sospensione musicale e drammatica del
secondo atto, quando avviene l'incontro di Sophie col Cavaliere della Rosa, era
certamente ben reso, forse un'apparizione un po' troppo hollywodiana se si
vuole, con le pareti a specchio che si aprono per lasciare il cammino libero a
Octavian con lo sfondo del cielo viennese, nell'immensità esagerata del palazzo
dei Faninal, come in un cartone animato. Ottimi i due giovani spasimanti,
Sylvia Schwartz, come Sophie, dalla voce agile e scattante, forse con un
vibratino un po' troppo petulante ogni tanto, ma totalmente immersa nel
personaggio di una giovanissima donna colle idee chiare e con un suo rigore
interno, e Octavian, Caitlin Hulcup. Il mezzosoprano australiano ha dato la
giusta goffagine adolescenziale al diciassettenne aristocratico, che conosce
molto bene l'etichetta ma che sa discostarsene per fare delle burle spietate, tipiche
dell'età, anche troppo ben architettate, forse, per un diciassetenne. Credibile
come galante rubacuori in erba, dal punto di vista vocale forse il personaggio
va approfondito, ma è proprio voler trovare dei peli nell'uovo: il lavoro fatto
col direttore e il regista è assolutamente di prim'ordine, come pure il suo
equipaggiamento vocale. Sarà da tenere d'occhio perché potrebbe essere uno
degli Octavian del futuro. Faninal era un Eike Wilm
Schulte in ottima forma, dalla superba e sonora voce. Tutte le parti minori,
dalla Marianne di Ingrid Keiserfeld, al Valzacchi di Niklas Björling Rygert, al
Cantante italiano di Celso Albelo, e soprattutto alla splendida Anna Maria
Chiuri come Annina, la cui disinvoltura scenica e vocale era davvero
encomiabile (è impossibile enumerare la schiera di comprimari che tutti erano
comunque al giusto posto), insieme al coro di Piero Monti, sono state
curatissime e hanno fornito un dignitoso corollario ai protagonisti.
El blog musical "El Patio de Butacas" tiene el honor de conceder a este blog el premio "Liebster blog".
ReplyDeletehttp://elpatiodebutacas.blogspot.com.es/2012/05/liebster-blog.html
Un cordial saludo.