Monday, May 14, 2012

Massimo Crispi, il tenore ribelle.



Josep Font

Abbiamo incontrato Massimo Crispi, un tenore italiano davvero particolare, sia per le scelte artistiche, sia per i molti aspetti del suo essere artista, sia per i suoi interessanti progetti assolutamente fuori dell’ordinario. La sua carriera è costellata di cose insolite accanto al repertorio più tradizionale, sintomo di una curiosità avventuristica confermata dalla nostra intervista.

Massimo, leggendo il tuo curriculum spicca che un cantante italiano abbia debuttato in un primo grande ruolo, come Celebrante nell’opera di Bernstein “MASS”. È davvero insolito. Ce ne vuoi parlare?


Con immenso piacere, anche perché è una delle cose che ricordo con maggior piacere del mio passato. Però poi, per favore, parliamo del futuro. Il passato è facilmente consultabile su Google dove, se vuoi cercare, ci sono migliaia di item su di me e su ciò che ho fatto. Ma il passato è passato, ci sono cose che ricordo con piacere e altre con meno piacere; però ciò che mi interessa è l’avvenire.

MASS di Bernstein è stata la mia prima grande esperienza a livello musicale e scenico. Marco Tutino, all’epoca direttore artistico dei Pomeriggi Musicali di Milano, l’orchestra regionale lombarda, cercava affannosamente un cantante poliedrico per il ruolo del Celebrante. In Italia, negli anni Novanta del Novecento, era assai difficile reperire cantanti versatili di buon livello. Tutino ideava delle stagioni innovative, con brani provenienti dalle culture musicali più varie, per rinnovare un po’ il repertorio e il pubblico milanese, togliendo la polvere dalle poltrone dei teatri. Ultimi fuochi spenti da un orrendo attuale conformismo culturale, ma di questo parlerò più avanti, forse.

Un’amica che aveva una grande fiducia in me e che aveva intuito la mia versatilità artistica mi presentò a Tutino e feci un provino. Gli cantai il primo brano solistico del Celebrante “A Simple Song”. Ricordo che in commissione c’erano anche Giuseppe Grazioli, che sarebbe stato il direttore dell’ “Operazione MASS” e Stefano Ranzani, non ancora l’apprezzato direttore che tutti oggi conosciamo. Ero, lo confesso, un po’ emozionato, anche perché per me era la prima esperienza in questo campo, e poi mi sembrava strana la possibilità di debuttare in Italia con un’opera moderna straniera, in inglese. Di fatto il provino andò bene, con una commissione un po’ stupita, e il ruolo mi fu affidato. Lo studiai molto approfonditamente e alla prima prova, dove erano presenti anche cantanti e musicisti jazz e pop tra i migliori che c’erano a Milano in quel momento, che facevano parte dell’organico di quell’opera, il più grande complimento fu di sentirmi dire da un inglese che era stupefatto dal fatto che un italiano potesse cantare questo repertorio senza il minimo accento e senza la minima influenza “operistica”. A me sembrava normale astrarmi dalll’opera e tuffarmi in un altro mondo, quello del musical, del jazz, del rock, anche perché mi divertiva enormemente il linguaggio multiplo utilizzato da Bernstein. Fui comunque molto aiutato dall’ampiezza di orizzonti della mia insegnante dell’epoca, la favolosa Margaret Hayward, a cui devo buona parte delle cose che so fare. Lei mi aprì la voce, mi spianò le difficoltà, mi aiutò nella pronuncia e nella declamazione. E non solo in questo repertorio, beninteso.

Insomma alla fine fu un successone. E per la prima volta nella mia vita ebbi un pubblico di milletrecento persone cogli occhi puntati su di me. Non me lo scordo più. Il resto venne dopo MASS, e le esperienze che ho avuto sono state molte e appassionanti. Devo la mia notorietà a Bernstein e a Tutino.

Ma prima di lasciare il passato, come dici tu, siccome tu hai cantato nei teatri più importanti d’Italia y in alcuni d’Europa, ci parleresti, per favore delle tue esperienze alla Scala, al Massimo di Palermo, all’Opéra de Lyon, al Liceu…

Hai ragione… ma siccome io guardo sempre avanti, al mio passato non dò molta importanza proprio perché è passato. Ma è vero, a volte è anche importante riguardare il proprio percorso proprio perché noi siamo il risultato di tante esperienze. Te ne racconto solo alcune, però…

Bene, La Scala… Ogni volta che un cantante nomina la Scala è forse come nominare San Pietro di Roma per un cattolico. Arrivai alla Scala facendo una normale audizione per una delle mie opere preferite “L’incoronazione di Poppea”. L’audizione andò bene e mi proposero un contratto. Quest’esperienza fu per me di estrema importanza perché appresi molte cose che non sapevo ancora. Il cast era impressionante: una parata di stelle: Antonacci come Poppea, Matteuzzi come Nerone (io ero il suo doppio e cantavo regolarmente altri ruoli nell’opera), Marrocu come Ottavia, Manca di Nissa come Ottone, Colombara come Seneca, Focile come Drusilla, Cherici come Damigella e Fortuna, Spagnoli come Mercurio, Mingardo como Nutrice, Bacelli como Valletto… mi sembrava di essere in una favola. Le prove furono con Riccardo Muti, avrebbe dovuto dirigere lui, ma si ammalò e la direzione passò in mano a Zedda, che era anche l’autore della revisione (brutta, bisogna proprio dirlo, con tante revisioni che esistono scelsero la peggiore). Quello che fu costruito con Muti fu distrutto in un attimo da Zedda. Pazienza, la perfezione non esiste… Ma io appresi moltissimo dai miei colleghi, perché cantare accanto ad Anna Caterina Antonacci, Paoletta Marrocu, Sara Mingardo, Carlo Colombara, Monica Bacelli… ti rendi conto che fortuna? Era come una scuola di perfezionamento concentrata in due mesi di convivenza di queste persone. E, come lasciai una buona impressione, la direzione della Scala mi propose il mese seguente un ruolo nella “Fanciulla del West”… e tutto questo senza agenzie, solo col mio canto e le mie audizioni. Oggi sarebbe impossibile con la mafia delle agenzie che esiste ed è una piaga. “Fanciulla” fu un’altra esperienza, anche perché era con Sinopoli, Larin, Casolla, Fondary… ti rendi conto? Qui appresi ciò che sono le voci grandi, come si espande realmente una voce. Larin mi diede alcune lezioni. Io ogni volta che lavoro con un collega di grande valore gli chiedo sempre consigli. Apprendo sempre dagli altri, perché credo che ognuno tenga una propria ricchezza individuale che è l’esperienza, e captare questi frammenti di esperienza adattandoli alla propria vita e voce è qualcosa senza prezzo. Il povero Larin ci ha lasciati qualche anno fa e questo mi ha dato un immenso dolore, gli volevo molto bene e gli sono infinitamente grato per ciò che mi ha dato. Oggi inizio sempre i miei vocalizzi con uno che mi ha insegnato lui, forse è una maniera di farlo sopravvivere in me. Ad ogni modo cantare alla Scala significa molto e io tengo quest’esperienza nella mia carriera come un gioiello prezioso. Chissà se tornerò a cantarci, ma come ti spiegherò più avanti non canto quasi più opera in scena oggi.

Ma continuo col Massimo di Palermo. Questo è il MIO teatro. Io sono di Palermo e sempre ho visto, quand’ero giovane, questo teatro chiuso per venticinque anni, “per migliorarlo” dicevano. Non fecero niente, la mafia lo mantenne chiuso con un dolore enorme dei cittadini che non erano più i padroni del teatro che la città aveva costruito in un’epoca in cui il Massimo era il terzo teatro d’Europa, dopo il Palais Garnier di Parigi e l’Opera di Vienna. Ho cantato al Massimo diverse volte e con vari repertori: opere classiche, contemporanee, operette, balletti… e sempre con cast di prim’ordine e sempre senza agenzie, sempre e solamente colla mia voce. Questo mondo non esiste più.
Il Massimo possiede un’acustica magica. Se cade un bottone sul pavimento del palcoscenico si sente fino all’ultima sedia del loggione. Cantare su quella scena vuol dire sentire la propria voce che si libera. La Scala non ha un’acustica così perfetta. E poi l’atmosfera di Palermo è molto rilassata… ci ho cantato Orfeo all’Inferno di Offenbach, I Masnadieri di Verdi, La Vedova Allegra di Lehar, varie opere contemporanee scritte proprio per la mia voce… però ho un ricordo molto vivo di un’opera forse considerata secondaria che però è stata talmente piacevole anche per il cast che c’era. Si tratta de “I sette peccati capitali dei piccolo borghesi” di Kurt Weill e Bertolt Brecht, dove la star era la immensa Ute Lemper e la messa in scena di Micha van Hoecke (già avevo lavorato con lui nella sua realizzazione dell’Orfeo di Monteverdi, ancora con Paoletta Marrocu, al Festival di Ravenna). Ero nel quartetto vocale, la Famiglia, che è molto importante perché sottolinea i vari vizi dove vanno a cacciarsi le figlie Anna I e Anna II, e gli altri tre erano tre cantanti di area tedesca. Io ero il solo italiano in una compagnia di tedeschi. Ne ero molto orgoglioso perché mi sentivo perfettamente a mio agio, tanto più perché mi dicevano che non c’era alcun accento straniero nel mio canto. Ute fu magnifica, una vera tigre, con qualcosa di animalesco che veniva fuori dal suo corpo e che invadeva la scena, inondando ogni cosa. Da lei appresi un’ulteriore disinvoltura in scena che si trasforma anche in un gesto vocale molto evidente. Il teatro espressionista di Weill era proprio il suo pane. L’Opéra de Lyon… questo è uno dei ricordi più belli. L’opera che ci ho cantato era una delle più incredibili di Händel, dal punto di vista musicale: “Poro, Rè dell’Indie”. Il mio ruolo era quello di Alessandro il Grande, un ruolo per tenore eroico, con agilità insidiose e un registro abbastanza centrale. Fabio Biondi, sì, Fabio Biondi mi chiamò perché il tenore con cui lo aveva registrato non era libero per quelle date (e anche, forse, perché era troppo leggero per quel ruolo… c’è un vizio, molto diffuso, di affidare i ruoli barocchi a tenori troppo…”leggeri”) e io imparai il ruolo in pochi giorni. Ma che musica… Händel è uno dei miei autori preferiti anche perché sembra proprio che abbia pensato alla mia voce: le sue arie erano una più bella dell’altra e il cast era anche quello formato da stelle: Banditelli, Bertini, Balconi, Schubert… e io… che non ero una stella ma che ero sulla buona strada delle costellazioni. Con Biondi ho cantato altro volte, un’opera di Vivaldi “Atenaide” ad Asolo e ho inciso la prima mondiale dell’oratorio di Scarlatti “Humanità e Lucifero”. Ne parliamo dopo di questo, perché torna a far parte di progetti futuri… È che hai rotto una diga, chiedendomi dei ricordi… E ne avrei molti di più. Ma adesso basta col passato.

Massimo, va bene, cambiamo argomento. Cosa vuol dire oggi far musica, secondo il tuo punto di vista?

Abbiamo a disposizione spazio illimitato oppure devo cercare di fare una sintesi? (ride) Io credo che il far musica oggi usi sempre gli stessi canali che si percorrevano nel passato: vuol dire raccontare qualcosa che degli autori hanno composto nel corso del tempo, secondo criteri estetici, linguistici, compositivi tra i più vari attraverso la mediazione dell’interprete. In una parola sola: comunicare. Naturalmente è cambiato il modo di comunicare oggi rispetto solo a trent’anni fa. Parlando del campo che più mi compete, che è il mondo del canto, dell’opera o comunque della musica vocale, posso dire che oggi si è molto più schiavi dell’immagine o, se non schiavi, molto più dipendenti che nel passato. Non è che sia un male in assoluto, anzi talvolta l’immagine può arricchire di contenuti qualcosa che, per alcuni o per molti, non è più un punto di riferimento perché certe cose non si studiano più a scuola o non se ne parla più in famiglia. Chi, oggi, conosce ancora a menadito tutte le mitologie greche e latine che noi studiavamo fin dalla più tenera età alla scuola elementare? Oggi ci sono le mitologie dei manga giapponesi, Signori degli Anelli e dei braccialetti, Harry Potter e vari altri personaggi. Questo fa in modo che alcuni registi ambientino le Aide nei deserti di Marte o le Turandot su pianeti sconosciuti, seguendo i filoni di varie serie televisive, credendo che la comunicazione ai giovani sia un’attualizzazione che spesso non ha alcuna connessione col testo e rendendo un pessimo servizio all’opera e alla musica. E, alla fine, anche al pubblico.

Però la musica non è soltanto l’opera, naturalmente. Oggi la musica è entrata, molto più che nel passato e molto più insistentemente, anche nei momenti più intimi e impensabili prima. E talvolta la musica classica diventa “pop”. Sentiamo musica passivamente in metropolitana, in autobus, al supermercato, mentre cuciniamo, molte pubblicità utilizzano frammenti di Händel, Bach, Rossini, tanto che quando, per pura casualità, una persona comune ascolta un concerto o va all’opera per la prima volta e sente un motivo che riconosce dice: “Ma è la musica dello yogurt!” oppure “Ma questo lo conosco, era nella pubblicità dell’automobile X” e magari si aspetta che esca fuori in palcoscenico l’automobile X o che Semele riceva da Giove uno yogurt sotto gli alberi del suo giardino olimpico. La fruizione della musica coll’invenzione della musica portatile, walkman (e già il walkman è un reperto archeologico), CD, iPod, iPad, ha assolutamente rivoluzionato l’ascolto e, in qualche modo, anche viziato le pretese del fruitore di musica, perché spesso l’ascoltatore medio non capisce che la musica dal vivo ha altri risultati e altre esigenze rispetto a ciò che è abituato ad ascoltare, sempre uguale a sé stesso, cristallizzato in un momento. Inoltre non viene quasi più percepita, soprattutto nel pubblico giovanile, la necessità di un rispetto ambientale e rituale che è sempre più raro: diversi giovani, ai concerti, spesso parlano, ridono, telefonano come se fossero davanti al televisore di casa, senza rendersi conto che intorno ci sono altre persone che non gradiscono l’invadenza. Una cosa che ho osservato di recente a un concerto a Firenze era che un ragazzino seduto davanti a me fotografava col suo iPhone i musicisti sul palco, alzando la mano e impedendo la vista a me che stavo dietro, oltre a distrarmi, per inviare la sua “emozione” di quel momento all’amico o all’amica via Facebook… Mi sembra assai eccessivo. Questo non lo capisco.

Devo fermarmi o posso continuare? (ride)

Massimo, potresti continuare all’infinito perché le cose che dici sono assolutamente vere e profonde, casomai ci ritorniamo dopo. Vorrei chiederti una cosa. Hai detto che far musica vuol dire comunicare. Tu come ti poni oggi davanti all’ascoltatore, ovverossia: cosa pensi che sia necessario per catturare il suo cuore e parlargli?

Bene, grazie per la domanda che mi dà l’occasione di parlare del mio modo di far musica. Devo fare qualche premessa, perché un cantante, rispetto ad altri musicisti, ha altri mezzi espressivi, soprattutto perché ha un testo da rendere intelligibile, e questo testo viene cantato in lingue diverse che non sono sempre familiari a chi ascolta. Io ho adottato una maniera un po’ diversa dall’ordinario. I cantanti, generalmente, amano spalmare la propria voce potente sul pubblico che si sente investito da questa massa sonora come in un sublimato rapporto sessuale. Vuoi o non vuoi è così, c’è un rapporto quasi carnale tra interprete e fan, soprattutto se l’interprete è un cantante. C’è chi fa l’amore intensamente e scopre le sue carte subito; chi vuole arrivare subito all’orgasmo senza curarsi dei preliminari, deludendo spesso l’attesa di un piacere prolungato; chi all’orgasmo non ci arriva mai, estenuando talvolta il partner, eccetera... i modi di fare l’amore sono infiniti.

Così in genere, come certo sesso di routine, i recital dei cantanti possono risultare assai noiosi, colle arie dalle opere preferite, senza alcun legame tra esse, o programmi monografici, spesso sempre Winterreise o Schöne Müllerin, come se non esistesse altro...

Il mio modo di far l’amore col pubblico è di raccontare delle storie musicali, facendo conoscere la maniera di “far l’amore” di varie culture ed epoche, mescolando, in combinazioni che possono sembrare azzardate, un’aria barocca a una canzone di Cole Porter, o un’aria d’opera a un pezzo sacro. Tutto sta nella storia che si vuole raccontare. Per esempio: in uno dei miei recital, Ritratti di Signore, mostro diciotto figure femminili, tutte diverse, secondo il punto di vista di diciotto poeti e compositori maschi, dal Settecento a oggi, prendendo in giro tutti i luoghi comuni sulla donna, raccontando al pubblico brevi e divertenti aneddoti tra un brano e l’altro, facendo risaltare a volte l’erotismo autentico di alcuni brani. Ovviamente questo è un recital dedicato alla donna, alla smitizzazione delle ovvietà sulla donna. Questo mi dà anche l’occasione di presentare allo spettatore pezzi più o meno famosi che però non si ascolterebbero mai perché non possono rientrare nelle tipologie di programma tradizionale, fatto di cicli e basta. E il pubblico, dopo un “petting” iniziale, con un primo smarrimento perché non è abituato a questo tipo di recital, subito dopo si lascia condurre per mano e raggiunge molti “orgasmi”, devo dire... tanto che se mi capita di tornare in un posto dove già mi sono esibito trovo il mio pubblico raddoppiato. E questa è un’enorme soddisfazione perché vuol dire che il mio lavoro va in una direzione produttiva. Naturalmente per fare questo lavoro c’è anche bisogno di un collaboratore pianistico estremamente versatile e con una padronanza degli stili e con una voglia di giocare che non è così frequente da trovare. Io ho trovato tre pianisti, finora, in grado di fare questo. Uno è stato Antonio Ballista, con cui ho giocato per quasi vent’anni. Adesso la mia compagna di giochi è Angéline Pondepeyre, una pianista francese a dir poco eccezionale, che conosce perfettamente la voce e con cui ci suggeriamo, anche direttamente in palcoscenico, delle vie interpretative a seconda delle esigenze del momento. Non capita così spesso, sono stato fortunato a trovarla. Ad Angéline si è aggiunto di recente Hans Schellevis, pianista alla Radio di Amsterdam, esperto belcantista e persona assai spiritosa, e i giochi continuano…

Ci stai raccontando delle cose interessantissime e che raramente si sentono parlando coi cantanti, la cui attenzione è esclusivamente concentrata sull’opera. Ecco, prima parlavi della Scala, del Massimo, Lyon… come mai non parli di opera?

L’opera, così come si fa oggi, devo dire che mi ha stufato. Mi ha stufato soprattutto il sistema dei cast, spesso assemblati senza il minimo criterio che non sia quello delle agenzie e delle tangenti e di tutta una mafia e un malaffare che ci sta dietro che nulla ha a che vedere colla musica. A me interessa far musica, non stare in equilibrio su dei rapporti di potere e di denaro che non conosco e che non interessano né a me né al pubblico.

Poi lo strapotere dei registi oggi è davvero intollerabile. Persone, nella maggior parte dei casi, che non amano l’opera e che non hanno neanche la più pallida idea della fisiologia e della psicologia della voce che chiedono ai cantanti di fare i funamboli solo per un loro capriccio, solo per l’effetto speciale. No, grazie. Poi esistono anche altri registi, forse meno famosi, che fanno un discreto lavoro. Ma ne ho incontrati pochi. Inoltre l’opera ti obbliga a lunghissimi periodi di prova, lontano da casa, dalle tue cose, dai tuoi affetti, e per me che sono molto affezionato alla vita, alla ricerca, a progettare sempre modi diversi di comunicare, sono tempi morti. Per me è importante andare a fare una gita con uno o più amici, scoprire un luogo lontano e appartato, un ristorante, una spiaggia, un parco, un castello… e spesso, se stai lontano da casa tante volte e per tanto tempo, questa parte di vita ti è negata. Si vive una volta sola, no?

Sono molto più interessato alla musica cameristica, sinfonica, oratoriale, dove non c’è l’intermediazione scenica in senso stretto, ma dove devi inventarti la scena e la comunicazione col pubblico lì per lì, dove in realtà sei tu, nudo, col pubblico che prende e ti restituisce le energie, senza un costume che stabilisce un personaggio, mentre i personaggi sono 10, 20, 100 diversi, cambiando da pezzo a pezzo... e hai solo tre o quattro minuti per raccontare quella storia! è molto più stimolante e interessante, per me. È il luogo, il concerto, dove intravedo una via per il futuro per molta musica che sempre più assomiglia a un museo senza vita. Hai presente “Colloque sentimental” di Verlaine messo in musica da Debussy? Due vecchi amanti di incontrano in un simbolico e congelato parco invernale, dicendosi che sì, un tempo forse si erano amati, ma poi si aggirano tra gli scheletri degli alberi come dei fantasmi. Questo è ciò che sta succedendo alla nostra maniera museale di far cultura: molti brani musicali sono solo fantasmi del passato, spesso c’è una distanza enorme a livello comunicativo tra interprete e pubblico, e questo nuoce a tutti, alla musica in primis, al pubblico, all’interprete, alle società di concerti che vedono il pubblico assottigliarsi, agli operatori culturali che, disorientati dalla perdita di interesse del pubblico verso la musica classica, cercano dei surrogati in altri linguaggi e culture alieni facendo spesso dei danni micidiali. E devo dire che il pubblico, ogni volta che mi viene offerta l’occasione di mostrare questa via di riscoperta della tradizione nostra e anche di altre culture, riassemblate per raccontare storie, mi premia. E io sono contento più del pubblico, perché lo vedo felice.

Massimo, sei travolgente nel tuo entusiasmo e nelle tue analisi della realtà quotidiana. Sono idee innovative, le tue, i tuoi progetti certamente sono una strada diversa e valida. Quante persone incontri sulla tua strada che credono in questi progetti? Hai difficoltà a proporli?

Beh... Certamente non è così facile vincere i timori e, sempre più spesso, le resistenze e l’ignoranza di molti direttori artistici, che, non nascondo il mio pensiero, sono spesso i peggiori nemici del pubblico. Sovente costoro si trincerano dietro futili intellettualismi senza comprendere che il problema del linguaggio è fondamentale. Ma quando trovo delle persone libere e curiose è una gioia poter condividere questa visione della musica giocosa e profonda allo stesso tempo. Io ho trovato, oltre che in Angéline Pondepeyre, anche nel regista Stefano Masi un collaboratore incredibile, con cui sono venuti fuori dei progetti meravigliosi. L’ultimo di questi è stato La Mirabile Historia, un pastiche multimediale sulla storia nientedimeno che delle reliquie dei Re Magi, un argomento che sembrerebbe sterile e assolutamente inutile e che, invece, trattato da Masi, diventa un fantasy avvincente, con video, cantanti, attori, strumentisti, luci, con musiche stupende di Händel, Strauss, Komitas, Barber e con musiche originali di Mario Crispi e Amir Molookpour... e alla fine abbiamo avuto nella stessa sera, nell’enorme Basilica di Sant’Eustorgio a Milano, 3500 spettatori. Chi ce li ha? E il pubblico non se ne andava più, voleva che continuassimo... Queste sono soddisfazioni e sono anche un’indicazione per certi direttori artistici che non sanno cosa inventarsi.

Devo dire che nel mio paese le difficoltà sono oggi maggiori, a causa di una classe dirigente sempre più ignorante e fascista (a destra come a sinistra, perché “fascista” può essere anche uno di sinistra) e che ha un concetto assoluto di cultura legato a schemi superati dalla storia e non va al di là del suo naso, il mondo finisce a cinque metri da lui. È difficilissimo oggi trovare qualche dirigente o amministratore italiano che abbia una vaga idea dei significati molteplici di questa parola di tre sillabe: cul-tu-ra. Perfino le pagine di “cultura” di molti quotidiani italiani spacciano per “cultura” le ballerine televisive e i programmi trash delle nostre inguardabili tv. È cultura anche quella, il trash, alla fine… ma è, appunto, spazzatura.
Il mio è un paese agonizzante, da questo punto di vista, nonostante abbia conosciuto stagioni migliori e sia stato all’avanguardia venti o trenta anni fa. Non è forse tanto evidente a chi vive fuori dall’Italia perché uno pensa sempre che c’è l’Ultima Cena di Leonardo, il David di Michelangelo, Caravaggio, i Templi di Agrigento, Venezia... ma questo è archeologia, non è fatto dagli italiani di oggi. Il mio paese è fermo. Che vuol dire che va indietro perché gli altri vanno avanti. Quindi puoi immaginarti che cosa può importare agli operatori culturali italiani di questi nostri progetti, che, al contrario, all’estero riscuotono un grande successo per la multietnicità e l’originalità delle proposte.

Diciamo che il mio paese è come una voragine splendidamente arredata e che, in virtù di questo prezioso arredamento, non ci si accorge di quanto profondamente si stia precipitando. Ma quando le luci saranno spente, nel buio totale, soprattutto se paesi come la Cina compreranno le aziende dell’energia italiane in cambio della sanatoria del nostro debito pubblico e poi ci sarà chiesto il conto, si intravedrà sopra le nostre teste un puntino bianco: è il cielo in alto, illuminato, inarrivabile… noi saremo in fondo al pozzo. Ciò che è distrutto è distrutto. E la responsabilità di tutto questo sarà ASSOLUTAMENTE dei nostri governi.

Mamma mia, che brividi, ma sei molto pessimista!… Parliamo di cose positive: che progetti hai prossimamente?

Non sono pessimista, direi, anzi, piuttosto realista. Preferisco guardare in faccia le difficoltà reali piuttosto che illudermi che possa cambiare qualcosa in una situazione così deteriorata. Ho avuto fin troppe esperienza negative cogli operatori culturali del mio paese per poter sperare in dei miracoli. Te ne potrei raccontare a decine, anche con nomi eccellenti. Magari un’altra volta, quando m’intervisterai di nuovo mentre sarò vecchissimo senza denti su una sedia a rotelle, ti racconterò tutte queste storielle imbarazzanti su chi ha gestito e gestisce la cultura nel mio paese. E poi, quando la prima voce ad essere tagliata dai governi nel bilancio di un paese è la cultura, in un paese come l’Italia che di cultura dovrebbe vivere, che cosa dovrei dire? Se fossi pessimista mi chiuderei in un eremitaggio perpetuo salutando per l’ultima volta parenti e amici (o forse no) e la mia casa sarebbe una caverna delle Ande, il più lontano possibile dall’Italia. Invece la mia fucina di progetti non smette mai di produrne, è un vulcano in perenne eruzione... Ne ho di molto ambiziosi e sono in trattative col Messico, con alcune realtà in Spagna, in Olanda e in Francia, di cui non faccio i nomi perché un po’ scaramantico sono, da buon mediterraneo... (ride).

Prossimamente ho un recital a Washington D.C. con musiche italiane, di Verdi, Tosti e Puccini, accompagnato dal maestro Marco Rapetti, per le celebrazioni del ventennale dell’assassinio del giudice Falcone, ucciso dalla mafia, che con gli Stati Uniti aveva rapporti strettissimi, proprio perché visitando in carcere alcuni pentiti di mafia, il giudice era venuto a conoscenza di segreti delicatissimi che portarono alla sua eliminazione. Sono onorato di poter essere io a cantare per celebrare la sua scomparsa, anche perché sono palermitano anch’io. E poi in giugno varie cose a Firenze e in Toscana. Ma queste ultime meritano un discorso a parte che ti farò alla fine.
Poi c’è un progetto di portare in Messico e in America Latina un meraviglioso e minuscolo oratorio di Alessandro Scarlatti, Humanità e Lucifero, un gioiello del Settecento italiano che ho inciso qualche anno fa con Fabio Biondi – il riscopritore di questo prezioso lavoro - e la sua Europa Galante. Pensa che in Italia sono riuscito a riproporlo per la prima volta in tempi moderni solo in un passaggio rapido diversi anni fa al Festival di musica sacra di Brescia col bravo direttore Luigi Marzola e i suoi ensemble svizzeri, ma non sono più riuscito a farlo inserire in altre rassegne, pur essendo una preziosa rarità, e forse in Messico e in Spagna mi daranno questa possibilità. Ti dà l’idea della situazione nel mio paese. Sarebbe una messa in scena assolutamente fuori dell’ordinario, coll’eterna lotta tra bene e male, ma in una maniera multimediale, un progetto assolutamente unico, ad opera mia e del geniale Stefano Masi.

Ti dò uno scoop: in realtà si è scoperto, grazie a ricerche musicologiche molto approfondite, che l’autore dell’oratorio non è Alessandro ma il suo figlio maggiore, Pietro Scarlatti! Questo apre nuovi scenari e rende la riproposta, utilizzando anche un organico più ricco, come prescritto dal manoscritto ritrovato, assai interessante anche dal punto di vista musicologico.
Poi c’è un concerto barocco, “Poveri amori miei” coll’ottima Orquesta Barroca de Granada, diretta da Darío Moreno, sul tema degli amori infelici... Poi i concerti del mio Duo Chiaro&SCURO, con Angéline Pondepeyre, dove racconto le nostre storie musicali, dai “Giardini In-cantati” a “Una serata Liberty”, da “Voci nella Notte” a “L’albero di Natale” a “I Fantasmi dell’Opera”... Altri recital tematici con Hans Schellevis sui Quattro Elementi in musica e un divertentissimo programma sulle “Baroquineries” (che ho già cantato in Olanda) ossia la sopravvivenza del Barocco nella musica dei secoli successivi: Strauss, Hahn, Stravinsky, Parisotti, Donhàny, Debussy, Ravel, Massenet.... Poi un progetto sull’Oriente, un trittico, che propone la rara versione Schönberg di “Das Lied von de Erde” di Mahler su testi cinesi (tradotti in tedesco) dell’antico poeta Li Bai, con un mezzosoprano e un giovane e bravissimo direttore spagnolo di cui non sono ancora autorizzato a fare il nome; un altro concerto sull’Oriente, il medio Oriente, nell’opera e nell’oratorio europei dal Settecento al Novecento…
Un altro progetto che mi interessa moltissimo è la realizzazione di un CD di Lieder e di arie da camera di Schubert e Bellini che è anche uno dei miei recital: “Malinconia, Ninfa gentile”. Questo CD sarà parte integrante del romanzo poliziesco di Suzanne Daumann, una scrittrice tedesca naturalizzata francese. Si tratta di un romanzo poliziesco musicale, dove si parla moltissimo di brani musicali che sono come la guida dei personaggi e delle loro azioni, con suspense, colpi di scena, escursioni spazio-temporali, davvero una cosa speciale in una lingua molto calda della Daumann.
Un altro progetto ancora sarà la ripresa di quello spettacolo milanese di cui parlavo prima, La Mirabile Historia, che è una sintesi dell’antico e del moderno e che, narrando una storia di duemila anni fa, dall’Iran fino alla cattedrale di Colonia, passando per l’Italia, chiude il cerchio e il legame tra Oriente ed Europa. Sembra che stia raccogliendo molto successo.
In tutto questo dovrò anche trovare il tempo per dei seminari vocali e master class che mi sono stati chiesti. Vedremo cosa ne verrà fuori. Tutti questi programmi fanno parte del mio modo di raccontare la musica. E poi c’è la scrittura e la fotografia. Sto elaborando dei racconti, una sceneggiatura che sto scrivendo con Stefano Masi e poi vorrei pubblicare un libro fotografico di immagini varie, sempre attraverso percorsi tematici, come piace a me.

Insomma: come vedi, non trovo il tempo per annoiarmi!
Ma quali erano i progetti fiorentini e toscani di cui mi parlavi prima? Di che si tratta
Giusto! Sai che nella mia logorrea me ne stavo dimenticando…

Questo progetto toscano ha sorpreso anche me per come si è presentato, la vita non cessa mai di stupirmi per la sua imprevedibilità…

Alla fine dell’anno scorso un gruppo di strumentisti con cui avevo poco tempo prima lavorato nel “Vespro della Beata Vergine” di Monteverdi, a Firenze, che ho anche inciso e che dovrebbe essere pubblicato da qui a poche settimane, mi disse che era nata una nuova orchestra d’archi e m’invitò ad ascoltarne una prova e dir loro che ne pensavo. Io, curioso come sono, ci andai molto volentieri, anche perché le nuove realtà nascenti le trovo sempre interessanti. Fui premiato, andando ad ascoltare questi musicisti. Innanzitutto erano davvero bravi e poi tutti giovanissimi o giovani. Alla fine della prova io e un piccolo gruppo di essi andammo a cenare insieme e discutemmo a lungo su come un complesso così strutturato potesse andare avanti, sulle scelte di repertorio, eccetera. Avendo ormai una certa età e una certa esperienza può cominciare ad accadere di essere considerato un decano… ascoltarono tutti molto attenti le mie osservazioni. Alla fine della serata mi ritrovai direttore artistico di quest’orchestra: mi chiesero di occuparmene. Non puoi immaginare come abbia preso a cuore questo ruolo… Innanzitutto perché un’orchestra di giovani professionisti, tutti bravi, che si sono riuniti spontaneamente, senza alcuna struttura alle spalle, è una dimostrazione di un grande coraggio in un momento come quello che sta attraversando l’Europa e soprattutto l’Italia, nonché un miracolo, una di quelle possibilità che capitano poche volte nella vita, ossia formare un gruppo e stabilirne il cammino fin dai primi passi, osservandone la crescita, come i giovani musicisti interagiscono tra loro, come reagiscono di fronte al repertorio, come divorano le tappe, come si entusiasmano… Io sono assolutamente e totalmente entusiasta da questa nuova cosa che mi è successa.

Ho quindi ideato in breve un piano triennale, con tre stagioni una più bella dell’altra con musiche note e meno note, anche perché il repertorio per orchestra d’archi è vastissimo e pure difficile da ascoltare, perché in genere le orchestre da camera non eseguono quasi mai interi concerti per archi soli. Ho dato un nome simbolico molto forte all’orchestra, un nome legato al territorio toscano perché ne è il simbolo dello stemma regionale: IL PEGASO – Orchestra d’archi della Toscana.

Il primo programma, che eseguiremo in giugno, sarà dedicato, ovviamente, alla Toscana: “Souvenir de Florence” di Ciaikovskij, “Crisantemi” di Puccini, l’”Intermezzo” di Mascagni in versione per soli archi, e, grande caramella per intenditori e amanti di Puccini, una suite di sue arie giovanili per tenore e archi, trascritte dall’originale per voce e pianoforte da uno dei compositori italiani più in vista del nostro attuale panorama: Carlo Boccadoro. La suite si intitola “La segreta voce” che fu eseguita in prima mondiale proprio a Firenze nel 1994 dal mio carissimo e compianto amico Vincenzo La Scola, con cui avevo studiato al Conservatorio di Bologna, oltre che qualche lezione comune a Palermo con Claudia Carbi… è incredibile come piccoli eventi persi nel tempo siano poi legati tra loro e ritornino quasi a chiudere il cerchio. Questa proposta vuole anche essere un omaggio al caro amico tenore che ho sempre ammirato e che ci ha lasciati prematuramente poco tempo fa.

Tornando all’orchestra IL PEGASO… la versatilità di questi giovani musicisti e la loro velocità sono impressionanti. Devo anche ringraziare di questo il maestro Augusto Vismara che da qualche mese ne ha assunto la guida e che sta facendo un superlavoro di messa a punto e di direzione del repertorio. Straordinario: vederlo lavorare coi giovani è vivificante. Il suo carisma innato, le sue idee musicali varie e avvincenti, la sua specificità e la sapienza di strumentista ad arco, il modo in cui sa rivolgersi ai giovani per ottenere un risultato sono veramente emozionanti. Vismara è una figura assai importante nel mondo musicale italiano. Già da giovane, negli anni ‘70, fece parlare di sé perché partecipò alla trasmissione della televisione italiana (quando la RAI faceva cultura) curata da Luciano Berio “C’è musica e musica”. Ed è anche uno dei più pregevoli insegnanti di viola che abbiamo in Italia.

Ho anche trovato, devo dire, nel Comune di Bagno a Ripoli, una deliziosa cittadina sulle colline fiorentine, una calorosa accoglienza. L’Assessore alla Cultura, Alessandro Calvelli, ha subito compreso che cosa gli stavo proponendo. Ci ha fatto avere una sede per le prove, ci ha fornito a costo zero delle location (e puoi immaginare che location di lusso: chiese trecentesche, palazzi rinascimentali, fontane monumentali… non mancano certo bei luoghi intorno a Firenze) per fare un trailer promozionale, per incidere la musica, per stare a maggior agio possibile per… PRODURRE! Rarissimo caso in Italia, dove invece di aiutarti ti falcidiano o ti pongono davanti mille difficoltà burocratiche come se le cose che i burocrati amministrano siano cose private o solo per gli amici degli amici, nel più puro stile mafioso. Perché poi devi sapere che, proprio a causa delle cose che ti raccontavo precedentemente sul mio paese, chi governa l’Italia oggi non ha neanche la lungimiranza di investire nei giovani, che sono il futuro di una nazione. Il caso dell’Assessore di Bagno a Ripoli è molto raro, perché sembra uno dei pochi che voglia lasciare una bella eredità. Spesso, se un politico racconta che si “occupa” dei giovani, lo fa unicamente per ragioni strumentali, cioè elettorali. Che è la cosa più indegna perché una volta eletti, i politici smettono di occuparsene.

Cerchiamo sponsor, mecenati, agenzie… chi vuole si faccia avanti: l’ensemble è l’unica realtà territoriale toscana che si ponga specificamente come orchestra d’archi, è in crescita qualitativa perpetua e vuole produrre come una “fabbrica di musica”.

Spero tra qualche tempo di poterne parlare più a lungo e con qualche specifica in più per i programmi e le stagioni.

Speriamo di vederti e ascoltarti presto in giro, allora! E soprattutto auguri alla neonata orchestra di cui pubblicheremo il calendario appena sarà pronto, ne riparleremo con piacere.

I prossimi impegni sono dunque:

Recital italiano all’Ambasciata d’Italia di Washington DC, il 22 maggio 2012. Brani di Verdi, Puccini, Tosti.

Il 24 giugno 2012 al Teatro di Bagno a Ripoli il concerto con “IL PEGASO – Orchestra d’archi della Toscana”.Brani di Ciaikovskij, Puccini, Mascagni, Boccadoro-Puccini.

Grazie a Massimo Crispi del tempo che ci ha dedicato e dei momenti entusiasmanti che ci ha fatto e ci farà vivere. Questo tenore anticonformista e “ribelle” ha una delle voci più interessanti del momento, e le proposte insolite che porta avanti, assolutamente fuori dell’ordinario, vanno assolutamente incoraggiate e seguite.

Per chi volesse ascoltare la voce di Massimo Crispi, su yotube si può trovare parecchio materiale cercando “massimo crispi” così come pure sul sito web dedicato alla musica vocale da camera The Lieder Sound Archive: http://www.liedersoundarchive.org/crispi.htm








































































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