© Pietro Paolini / TerraProject / Contrasto
Leonardo Monteverdi
In un giorno
caldissimo di giugno abbiamo assistito al Teatro della Pergola di Firenze al
nuovo allestimento dell’ “Orfeo” gluckiano, firmato da Denis Krief, factotum,
come spesso accade, delle sue messe in scena: regia, scene, costumi e luci.
Almeno si sa subito che la responsabilità è tutta sua. È difficile credere
che a pochi giorni di distanza si siano potuti accostare due allestimenti
operistici di così opposto segno: il superlativo “L’amour des trois oranges” e
questo pessimo “Orfeo ed Euridice”. Non si capisce il filo conduttore né il
perché di quest’abisso evidentissimo e inspiegabile. La drammaturgia di
Ranieri de’ Calzabigi (s)vista da Krief è completamente stravolta e obbligata
in spazi definiti o indefiniti da pannelli scorrevoli o concentrici o
decomposti, bianchi, dove si muovono uomini e anime (compresi i macchinisti per
i cambi a vista… mah!), con pochissimi attrezzi e arredi scenici, anzi meglio
parlare al singolare: un unico divanetto di uno stile da trovarobato che
avrebbe potuto provenire da un mobilificio in disarmo, da un rigattiere,
dall’eredità della zia che lo aveva sempre tenuto caro perché era il corredo di
nozze, o riciclato dalle scenografie di “Vogue” di Madonna, e su cui si svolge
un po’ tutto: il pianto di Orfeo, o almeno una parte di lacrime; la querelle di
Orfeo con Euridice, sposa capricciosissima; il ringraziamento finale, dopo
l’happy end, in posa da foto di famiglia in un interno, circondati da un coro
inspiegabilmente vestito in costumi settecenteschi (per soli quattro minuti) e
orrende parrucche, forse di carta. Un orrore kitsch che però qui era fuori
tema: la parodia dell’intoccabile e indissacrabile opera gluckiana l’aveva già
fatta Offenbach un secolo e mezzo fa. Molto meglio riuscita, va detto. Proiezioni inutili di
un tunnel percorso in auto a folle velocità e di balli discotecari (è questo
l’Inferno di Krief, la discoteca? Suvvia, SIAMO NEL 2014!) su veli altrettanto
inutili, sui quali in forma di graffito su un muro, forse quello del cimitero
dove giaceva la salma di Euridice, campeggiava un verso “chiave” (?): “Ho con
me l’Inferno mio”. Grandi trovate, complimenti. Orfeo qui è forse un cantante
dal gusto leather, almeno per come è abbigliato, colla coquetterie del foulard
di seta, ma sfornito dello strumento con cui ammansisce le belve e addirittura fa
smuovere i sassi: nulla, manco un basso elettrico. Eppure la lira, che fu poi
traslata nella volta celeste a risplendere come costellazione estiva, gli fu
donata dal padre Apollo, e le Muse gli insegnarono come usarla. In tutta
l’iconografia relativa al mito, nonché all’opera gluckiana, Orfeo stringe
sempre forte la sua lira (peraltro nelle sue arie c’è, appunto, l’arpa), perché
forma il tappeto sonoro al suo canto ipnotico e la brandisce, oggetto divino, quasi
perché possa essere riconosciuto tale dalle divinità infernali a cui va
incontro. È quasi un lasciapassare, una lanterna per l’oscurità… Nulla. Probabilmente
quest’Orfeo, secondo Krief, la lira l’ha appesa al chiodo e canta su base
registrata. Ma non è niente al
confronto di come viene scelto di far muovere la povera Anna Bonitatibus,
Orfeo: come un camionista ubriaco, che si trascina da un banco di un bar
all’altro, colle braccia penzoloni, con passi incerti e con una gestualità che
la fa assomigliare più allo stereotipo della lesbica butch. Effettivamente un
camionista sempre colla cetra in mano sarebbe poco credibile. Per di più la
Bonitatibus, purtroppo, qui non era a suo agio neanche vocalmente, in quanto
mezzosoprano: il registro grave affaticato mostrava i limiti di una tessitura
pensata per un vero contralto, e sebbene l’artista resti comunque una fine
dicitrice, dall’impeccabile pronuncia e senso drammatico, il canto non era mai
veramente libero e non prendeva il volo, con tempi musicali in cui forse, di
tanto in tanto, un maggiore respiro sarebbe stato più idoneo. Bella esecuzione,
comunque, di “Che puro ciel”. Al contrario, la
petulante e bizzosa Euridice di Hélène Guilmette si faceva notare per voce
squillante ed elegante, con bei fraseggi, soprattutto nella sua aria, e una
qual certa grazia scenica. Amore, vestito come un monello, e ci può pure stare,
era cantato da Silvia Frigato, senza infamia e senza lode, omeopatica. Coreografie di Cristina
Rizzo in armonia con la povertà dell’allestimento e in (apparente?) scollamento
colla drammaturgia, una sorta di “vorrei fare Pina Bausch ma non posso”. Un
gioco tra i danzatori con degli occhiali da sole non ci era del tutto chiaro:
forse gli spiriti dell’oltretomba non volevano restare abbacinati dalla luce
del giorno terrestre o temevano le luci della discoteca delle proiezioni
precedenti? Si può dire un solenne “basta!” a tutti questi cascami degli anni
Ottanta? Il coro di pastori,
che si presentano in abiti da lutto borghesissimi, con una rosa rossa in mano
al funerale di Euridice, sembra non cambiar d’abito quando si tratta di
diventare spiriti infernali (sembravano dire: ci abbiamo provato ma i camerini
erano occupati dai coristi di un’altra opera), salvo vestire, in seguito, delle
palandrane bianche per simulare i beati abitatori dei Campi Elisi. Movimenti d’uscita
dei coristi dai Campi Elisi: intruppati come nella ricreazione scolastica, non
essendoci quinte ma solo pannelli mobili… ma insomma! Tutto sembrava casuale,
come se su quel palcoscenico si stessero facendo le prove di più opere
contemporaneamente e la compagnia dell’una passeggiava sullo scenario
dell’altra rendendosi conto troppo tardi che c’era stato un errore (i coristi
di prima…). E le luci? Casual style, come sopra… Unica nota elegante
era un tendaggio sullo sfondo, dai lucori cangianti, mosso dal vento. Bello,
sì, delle nuance di grigio con qualche pennellata di luminosità… bello. L’azione del ritorno
verso il mondo dei vivi era risolta in una claustrofobica stanzetta bianca con
uscita, sul famigerato divanetto dove, a un certo punto, Euridice decide di
sdraiarsi, esausta probabilmente per la testardaggine di Orfeo a non volerle
raccontare il perché e il percome di tutto quello svolgersi di eventi
straordinari. Orfeo, che, nella lettura classica, dovrebbe trascinare Euridice
in un oscuro tunnel, tirandosela dietro senza mai guardarla, nella lettura krieffiana
la abbraccia, sebbene da dietro, e poi si butta disperato sulle pareti, sul
divanetto, sempre dinoccolandosi, rendendo assolutamente noioso e
incomprensibile il tutto: ma come? Se l’ha vista ripetutamente, l’ha pure
abbracciata, e ci si è pure messo a discutere sul sofà, non avrebbe dovuto
perderla assai prima? Mah… i misteri orfici secondo il sommo sacerdote Denis
Krief. Dal punto di vista
musicale, il maestro Federico Maria Sardelli ha trovato belle sonorità
orchestrali e ha scelto tempi convincenti, oltre a un elaborato e decorativo
basso continuo su cui spiccava per creatività ed eleganza l’arpa di Ann
Fierens. Anche il coro, sempre preparato da Lorenzo Fratini, ha dato buona
prova di sé. I momenti sinfonici, come l’ouverture e le danze, erano ben
risolti e il rapporto tra direttore e palcoscenico era sempre attento e accurato,
per quanto possibile, con una simile messa in scena. Dispiace assai che il
valente maestro Sardelli sia sempre messo in situazioni difficili (“Il Farnace”
dell’anno scorso, registicamente forse anche peggio di quest’ “Orfeo”) da allestimenti
assai discutibili che finiscono per far passare in secondo piano la pur
pregevole esecuzione musicale. E dategli una messa in scena vera! Si riguardano, con
nostalgia, in un catalogo su “I Grandi Spettacoli del Maggio Musicale
Fiorentino”, gli allestimenti precedenti dell’ “Orfeo” gluckiano, quello di Luca
Ronconi con costumi di Pier Luigi Pizzi, e ci si chiede se ciò a cui abbiamo
assistito sia veramente una “modernità” ma passata attraverso un manicomio e
che in realtà Euridice sia stata davvero uccisa da Orfeo che mette in atto
tutta una pantomima per non perdere la buona reputazione di cantante melodico
presso il suo pubblico.
No comments:
Post a Comment
Note: Only a member of this blog may post a comment.