Monday, January 31, 2011

El Covent Garden de Londres da la campanada: a punto de estrenarse una ópera que narra las desventuras de Anna Nicole Smith, una conejita de Playboy

Foto: Anna Nicole Smith en 2005 / Crédito: Danny Moloshok / Associated Press

Alicia Perris

Parece increíble pero lo es. Como si de una reedición del escándalo que en su día suscitaron algunas óperas como “La Traviata”, por su tema, ahora Anna Nicole Smith, da vida a un personaje de ópera que se estrena en el gran teatro londinense el mes que viene. Fallecida en febrero de 2007, debido a un abuso de fármacos, como le había pasado muy poco antes a su hijo Daniel, de 20 años, la trayectoria de esta conejita de Playboy no pudo menos de ser trágica y por lo tanto, susceptible de convertirse en contenido dramático. La modelo había nacido en 1967 en un pueblo corriente de Houston (Texas), como Victoria Lynn Hogan y –cómo no- fue abandonada por su padre. Un primer matrimonio cuando era muy joven (su historia se parece mucho en estos aspectos a la de Marilyn, con quien a menudo le gustaba que la compararan), le dejó un hijo con 18 años, el mismo que perdería años más tarde por el abuso de consumo de drogas .En 1992 y 1993 trabajó para la revista Playboy y en 1994 se casó con un multimillonario de 89 años impedido pero inteligente, que moriría el año siguiente, dejando a Anne Nicole multitud de problemas con la familia de su marido por problemas de herencia. En 2006 quedó nuevamente embarazada y parecía que la felicidad le iba a dar un respiro, pero su hija Dannielynn llegó casi al mismo tiempo en que se producía la muerte de su hijo Daniel. El 8 de febrero de 2007 se terminaron las miserias y desgracias de Anne Nicole que falleció sin poder ganar la batalla que había emprendido con la vida por la felicidad y la supervivencia. La ópera que lleva su nombre, rastrea los altibajos de una mujer de bandera, alta, rubia, retocada por una cirugía estética acorde con el gusto ordinario de los tiempos. Muchos pensarán- los más acérrimos partidarios del tradicionalismo y la cultura bienpensante- que esta muestra de liberalismo en la promoción de ciertas figuras y obras, están demás, otros, más interesados en aspectos crematísticos, opinarán que este tipo de evento, tan rompedor, puede abrir las puertas de los grandes coliseos a públicos menos vetustos y más entusiastas, aunque todavía por captar. La partitura fue compuesta por Mark-Anthony Turnage y el libretista es Richard Thomas. De todas formas, el texto fue revisado para que no desentonara dentro de los límites del decoro que un teatro de esta categoría puede aceptar como sala y como espectáculo. No faltaría más que recordar aquella máxima que se convirtió hace años en una obra del West End, creo: “No sex, please, we are British”. La ambigua sociedad inglesa tan atribulada ahora por estos desmanes en las costumbres, tuvo desde siempre, sobre todo a partir de la estética y la ética del reinado de la reina Victoria, una doble moral, escurridiza y deslizante. Pero hay que guardar las formas. Ansiosos estamos por leer las críticas que aparecerán en Londres al día siguiente del estreno, porque la eterna niña huérfana que no consiguió traspasar el estigma de una orfandad temprana, ya forma parte de la leyenda.

Tanhauser di Wagner - Teatro Comunale di Bologna

Foto: Tanhauser, Teatro Comunale di Bologna
Roberta Pedrotti
La stagione 2011 del teatro Comunale di Bologna si inaugura senza una guida, assente il sovrintendente e direttore artistico uscente Marco Tutino (che sta seguendo a Palermo le prove della sua nuova opera Senso), ancora in attesa della nomina del successore, giunta fortunatamente un paio di giorni dopo: è Francesco Ernani al quale va il nostro sentito in bocca al lupo. Si inaugura nel segno dell’austerità, senza addobbi floreali, omaggi e buffet e solo una manciata di mises stravaganti; unica autorità il commissario straordinario Anna Maria Cancellieri, al solito eccellente nel reggere le sorti del comune in attesa delle elezioni di primavera. L’inno di Mameli, dunque, non è in omaggio a un ospite, ma alla stessa, vituperata e mai abbastanza celebrata Costituzione, il cui articolo 9 (“La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”) è letto in apertura di serata. L’esecuzione del canto degli Italiani non è inappuntabile, più che per demerito del coro, si suppone, per problema tecnico dei riporti che avrebbero dovuto permettere un miglior sincrono con l’orchestra ai cantanti celati dietro al sipario. Infine il sipario si leva e la stagione si apre ufficialmente lasciando spazio al Wagner di Tannhäuser in una produzione inedita in Italia, firmata registicamente da Guy Montavon e proveniente da teatro di Erfurt. La crisi dovrebbe portare ad aguzzare l’ingegno e ottimizzare le risorse, purtroppo porta anche a improvvidi ricicli e acquisti avventurosi dettati più dal prezzo che dalla qualità. Pare che l’allestimento sia stato comprato in blocco per una cifra irrisoria: un affare sulla cui bontà ci permettiamo di avanzare qualche dubbio, visti i risultati (che comunque non avrebbero dovuto essere una sorpresa, visto che lo spettacolo è stato prodotto nel 2006). L’unica idea che pare trasparire è la riflessione successiva all’incendio della storica biblioteca della Duchessa Anna Amelia di Weimar, avvenuto nel 2004. Una tragedia che purtroppo ci ricorda tanti drammi italiani, dall’alluvione di Firenze (e dalla stessa strage di via dei Georgofili) ai righi del Petruzzelli e della Fenice, dal terremoto di Assisi con il devastante crollo della Basilica Superiore a quello dell’Aquila e al disfacimento di Pompei. Dolo, incuria, o fatalità, sono tutte ferite aperte nella memoria. Tuttavia non si può negare che per il pubblico italiano del 2011 l’incendio tedesco abbia un impatto emotivo piuttosto modesto, e soprattutto che s’inserisca più come citazione commemorativa che come vera idea portante che possa reggere uno spettacolo di mediocre routine teutonica. Impianto essenziale, un Venusberg immerso fra proiezioni di onde marine, più isola di Calipso (il parallelo è evidente anche nel testo) che luogo di delizie e perdizione, la Wartburg è una biblioteca in disfacimento, con tomi sparsi per la sala, nella vallata i cantori si aggirano fra transenne mentre i pellegrini tornano da Roma afflitti da evidente cifosi e alla fine, dopo che una pioggia purificatrice ha sancito la redenzione di Tannhäuser, il fondale nero si apre e svela una libreria di foggia moderna, con un bimbo che si appresta alla lettura lasciando cadere un pallone (tanto simile al pianeta – Venere? – che volteggiava sulle onde del Venusberg – Venusmeer). I costumi di Amélie Hass sono francamente brutti, trovarobato teutonico di cappotti e soprabiti; la scena di Edoardo Sanchi nella sua essenzialità potrebbe funzionare anche bene, come dimostra la prima parte del terzo atto, con quel taglio di luce (dello stesso Montavon) a sottolineare la silouette di Elisabeth sullo sfondo, ma per una prossima ripresa si auspicano almeno una revisione del dissolvimento iniziale del Venusberg (il pianeta viene inghiottito da un gorgo che ricorda lo scarico di un lavandino) e l’eliminazione delle transenne, della libreria moderna con il bimbo lettore e del pompiere che “con scenica scienza” spegne le ultime fiamme destate dallo scandalo dei nobili di Turingia per i versi di Tannhäuser. E sì che quest’opera, così controversa fin dalla tortuosa gestazione, offrirebbe il destro per letture suggestive e non banali sulla figura del tormentato cavaliere cantore, artista maledetto, isolato e irregolare, lacerato da diverse pulsioni e dal contrasto con una società omologata e ipocrita, filistea come poche nelle sue professioni sterili di virtù.

Si sceglie di mettere in scena la versione di Dresda, più sintetica per quel che concerne il quadro del Venusberg, e la stessa esecuzione è inevitabilmente indirizzata ad un linguaggio più asciutto, che ci ricorda come l’autore fosse un giovane ambizioso sulle orme di Weber, Marschner e Meyerbeer, di cui riprende il linguaggio rimanendo ancora ancorato a forme prossime al poi vituperato numero chiuso. In questa linea Stefan Anton Reck non cerca un ampio respiro di fraseggio, non cerca colori suggestivi e finezze dinamiche, tanto da apparire al fine rigoroso ma poco incisivo anche sotto il profilo drammatico e spento nel suono orchestrale. L’idea di un Wagner – segnatamente di questo Wagner – sottratto alla tradizione epica e iperromantica è senza dubbio condivisibile, ma richiederebbe altro passo teatrale, altra fantasia, altra sensibilità musicale. Perfino la celeberrima Ouverture (qui senza il contraltare del baccanale, ampliato a Parigi) passa senza particolari emozioni. Nel cast si segnala la vocalità assai interessante di Guanqun Yu che, ascoltata nel canto del pastore, ci lascia con il desiderio di ritrovarla in ruoli più importanti. Miranda Keys ha il giusto colore per Elisabeth e canta piuttosto bene, ma la sua prova è segnata da un debito d’intonazione pressoché costante in acuto. Problema che, senza limitarsi a un solo registro, affligge anche la Venus di Patrizia Orciani, a suo agio nella tessitura ma troppo irruenta e spigolosa musicalmente, meglio nel primo che nel terzo atto. Fra gli interpreti maschili la palma del migliore va a Martin Gantner, voce di pasta assai chiara, secondo la tradizione d’oltralpe che, non conoscendo l’evoluzione da basso cantante a baritono verdiano prima e verista poi, distingue principalmente fra basso baritono e baritono lirico acuto. Il suo Wolfram, poeta non insensibile dietro l’apparenza di occhialuto professorino, merita le approvazioni più convinte della serata. Serata che Ian Storey, Tannhäuser, conquista con un percorso in salita, scaldandosi di scena in scena: la voce è sicuramente importante e indubbia la dimestichezza con il repertorio, anche se l’impressione è sempre quella di un’amministrazione prevalentemente stentorea e muscolare del proprio strumento. Caso raro anche nei nostri teatri, oltre alle corifee nei panni dei paggi (Rosa Guarracino, Fanny Fogel, Nidia Pirazzini e Lucia Michelazzo) erano ben quattro i solisti italiani in locandina. oltre alla citata Orciani, il langravio Hermann di Enzo Capuano, piuttosto stanco in acuto ma capace di dispensare una bella linea di canto nelle tessiture più comode, il Reinmar von Zweter di Christian Faravelli e l’acerbo Walther di Gabriele Mangione, ridotto purtroppo a personaggio quasi caricaturale. Più convincente il Biterolf di Valdis Jansons e con lui l’Heinrich der Schreiber di Armaz Darashvili. Per la prima produzione preparata con il nuovo maestro del coro Lorenzo Fratini la compagine felsinea appare prodiga di buone intenzioni, ma ancora in via di completa rifinitura. Successo pieno, alla prima, per direttore, coro, orchestra e solisti, contestazioni accese per gli autori della messa in scena.

La Traviata - Teatro Grande di Brescia

Foto: Yolanda Auyanet (soprano) - Marco Rognoni

Roberta Pedrotti

Si chiude con un grande successo la stagione lirica 2010 del teatro Grande di Brescia, la stagione del bicentenario e della svolta, l’ultima organizzata dalla vecchia deputazione sotto la direzione artistica di Umberto Fanni e la prima ad andare in scena sotto l’egida della neonata fondazione (i cui orizzonti saranno meglio definiti nell’ambito dell’attesa conferenza stampa di presentazione del nuovo sovrintendente, Umberto Angelini). Prima della consueta coda consacrata al balletto, in gennaio, con il Lago dei cigni, è La traviata a suggellare un cartellone premiato da un tutto esaurito pressoché costante e da un’attentissima partecipazione di pubblico. Pur con i dovuti, inevitabili, distinguo del caso non possiamo non dirci soddisfatti del complesso dell’offerta operistica del Circuito Lirico Lombardo, che ha lavorato con serietà e onestà con risultati spesso lusinghieri. In questo caso la carta vincente era costituita dalla messa in scena curata da Andrea Cigni (regia), Dario Gessati (scene), Agnese Rabatti (costumi), Fiammetta Baldiserri (luci) e Giovanni Di Cicco (coreografia). Nulla di particolarmente nuovo per un’opera nella quale pochissimi sono effettivamente riusciti a dire qualcosa di veramente inedito, anzi, oseremmo dire uno solo: Willy Decker. È peraltro evidente che Cigni ammiri Decker e abbia ben presente la sua produzione salisburghese, tuttavia non ne fa un modello, un oggetto d’imitazione; resta il punto di riferimento per talune soluzioni (lo schiaffo di Germont al figlio, la violenza parossistica di Alfredo nei confronti di Violetta nella scena della borsa, coro e comprimari come massa uniforme e inquietante, in abiti neri e maschere bianche), ma non viene mai a mancare la cifra stilistica personale e ben definita del regista italiano. Che non reinventa, ma racconta in uno spazio asettico, d’assoluta stilizzazione formale, perfino glaciale con le sue sedie in plexiglass trasparente, i teli di nylon sui beni da pignorare – e nella penombra son quasi ragnatele –, i tagli di luce simili a lame. Racconta con chiarezza un’azione che è già scritta con tale perfezione del testo e nella musica da attendere solo di prendere vita sulla scena; inserisce dettagli intelligenti come il contrasto fra “Parigi, o cara” intonato da Violetta e Alfredo in un quadrato illuminato in proscenio e l’azione dell’ufficiale giudiziario che nella penombra provvede al pignoramento degli ultimi beni della Signora delle camelie. Come fu nella realtà, quando Alphonsine Plessis, alias Marie Duplessis, spirò padrona solo del suo materasso mentre tutto quel che possedeva stava per essere messo all’asta. Pietosa, Annina, riesce a riscattare una sedia, l’unica sedia nera, dove si fermerà la Morte beffarda che già era apparsa sottile e inquietante, nelle sembianze di un androgino danzatore, nei due preludi. E mentre Violetta muore sul fondo appare un coro di maschere dalle orbite vuote che fa dell’agonia della cortigiana più celebre di Parigi una morbosa attrazione del suo carnevale: è la stessa folla che la circondava nelle feste e che poi, come raccontano Dumas e la storia, affollerà l’appartamento di Boulevard de la Madeleine, 11 per accaparrarsi un cimelio o semplicemente osservare. Moderno, chiaro, elegante. Il pubblico bresciano se ne dimostra entusiasta.

Qualche dubbio, pur senza gravi problemi, ha destato invece la resa musicale a partire dalla concertazione di Pietro Mianiti, piuttosto pesante nelle sonorità e nella dinamica, rischiando di perdere di vista in più punti la precisione musicale e i preziosi dettagli di cui è disseminata la partitura. Nemmeno l’orchestra dei Pomeriggi Musicali di Milano è apparsa al suo meglio e dobbiamo purtroppo riscontrare un progressivo calo di rendimento nel coro istruito da Antonio Greco, molto buono in Medea, sufficiente in Sonnambula e decisamente problematico in Cenerentola come in questa Traviata (a rischio soprattutto “Si ridesta in ciel l’aurora” e il finale secondo). La protagonista era in quest’occasione Yolanda Auyanet: come nella Maria della versione italiana della Figlia del reggimento lo scorso anno, il soprano canario mostra un buon centro pastoso da lirico leggero, agilità sufficientemente precisa, linea di canto pulita, ma anche acuti piuttosto duri e una vocalità non sempre duttile. Soprattutto spiace che frasi come “Morrò, la mia memoria” o “Amami, Alfredo” risultino quasi dimesse, prive di quel pathos che dovrebbe esserne cifra imprescindibile; la convince più il terzo atto, nel quale disegna una Violetta ormai svuotata e intimamente rassegnata. Il tenore Jean François Borras trova in Alfredo un ruolo perfettamente congeniale ai suoi mezzi, che tuttavia attendono una più netta definizione tecnica: talvolta emerge un vibrato che denuncia chiaramente un problema d’appoggio che potrebbe dipendere dalla tensione o dall’impostazione, in ogni caso un difetto da correggere per rendere più sicura soprattutto la gestione delle mezzevoci. Il colore, lo squillo (anche se la puntatura al do nella cabaletta del secondo atto non è stata risolta nel migliore dei modi), la partecipazione, nonché la chiarissima pronuncia italiana fanno certamente ben sperare per il futuro. Più interlocutoria la prova di Damiano Salerno, Germont dall’emissione nasaleggiante dalle ambigue inflessioni tenorili, piuttosto monotono e rigido nel fraseggio. Fra i comprimari si apprezzano soprattutto la Flora di Marianna Vinci e il Marchese di Pasquale Amato; meno il Barone troppo chiaro di Mirko Quarello o l’Annina di Mila Pavlova. Efficace il dottore di Luciano Leoni, così come il pungente Gastone di Saverio Pugliese e il Giuseppe di Alessandro Mundula. Evidentemente assai teso, nel suo breve intervento, il Commissionario di Marco Piretta. Come si è detto, gran successo finale per tutti. Ci auguriamo che sia di buon auspicio per il futuro del Grande.

L' Arbore di Diana di V. Martin i Soler - DVD Dynamic

V. Martin i Soler
L’arbore di Diana
Aikin, Maniaci, Davislim, Workman, Vinco, Garmendia, Martins, Perez
Direttore Harry Bicket
Regia Francisco Negrin
Barcelona, Gran Teatre del Liceu, ottobre 2009
DVD Dynamic 33651, 2010


Roberta Pedrotti

È noto che Lorenzo Da Ponte mentre attendeva alla stesura dei versi del Don Giovanni, lavorasse contemporaneamente ad altre due opere e che dedicasse la sera a Mozart, pensando all’Inferno dantesco, il pomeriggio alla traduzione del francese Tarare nell’italiano Axur, re d’Ormus per Salieri, volgendo la mente al Tasso, mentre le mattinate erano consacrate, sotto il segno del Petrarca, alla nuova opera di Martin i Soler destinata a celebrare le nozze di Maria Teresa d’Asburgo con il principe Anton Clemente di Sassonia. Meno note sono le due gemelle letterarie del Don Giovanni, schiacciate dalla fama titanica del Dissoluto punito e del suo autore, all’ombra del quale, per motivi diversi, sta inevitabilmente anche la fama del legnaghese e del valenciano. Se poi l’opera di Salieri, così come la tragédie lyrique in genere, ha conosciuto una qualche, seppur circoscritta, nuova fortuna moderna, Martin i Soler resta l’autore di quella Cosa rara citata nel Don Giovanni, di quel Burbero di buon cuore tratto con Da Ponte da Goldoni e poi integrata con un paio d’arie di mano mozartiana, di quest’Arbore di Diana coetaneo e fratello di lettere del libertino per antonomasia (e vorremmo ancora citare almeno Il tutore burlato, che pure ha avuto almeno un’isolata ripresa moderna). Opere note di nome e pochissimo di fatto, benché l’Arbore di Diana sia effettivamente una partitura di notevole interesse, massime per il sostrato ideologico illuminista e libertino che sottende al soggetto. In effetti, sembra proprio che, più del cantor della bionda avignonese, Da Ponte guardi al Tasso dell’Aminta, al motto “S’ei piace, ei lice” immerso nell’idillio arcadico per questa allegoria mitologica che, più delle fonti classiche, guarda l’attualità dell’assolutismo illuminato, segnatamente dello stesso principe di Sassonia, che aveva appena ratificato l’abolizione del monachesimo. E dunque abbiamo la castissima dea della luna e della caccia severa custode del giuramento di castità delle sue ninfe (infallibile giudice è proprio l’albero del titolo, implacabile nel punire le peccatrici con le sue mele d’oro) in guerra contro Amore, che vuole stabilire il suo dominio anche nella lussureggiante isola, locus amoenus perfettamente opposto ai licenziosi giardini di Armida e Alcina. Abbiamo tre stranieri, uno, il pastore Doristo, ivi condotto per far da giardiniere al castissimo ordine, gli altri, Endimione e Silvio giunti per caso; sotto le direttive d’Amore sovvertiranno il regime virginale, trovando invero nelle ninfe una controparte assai ben disposta e insofferente ai voti (e occhieggia con un sorriso il tema della monacazione forzata, trattato in quegli stessi anni da Diderot nella Religeuse). Sarà invece un dardo incantato a far capitolare, per mano d’Endimione come da mitogia, la bella dea, pur fra mille tormenti e ripensamenti. Ricorda un po’ Fiordiligi, in effetti, con il suo tortuoso trapasso da un’incrollabile resistenza a una lieta condiscendenza, ma tutta l’opera può essere vista come una sorta di complemento ideologico di Così fan tutte. I personaggi, divinità assai poco divine che si preoccupano di poteri superiori e falsi oracoli, sono infatti condotti con vera umanità, come personaggi di commedia, non, insomma, con l’inamidata imperial noia composta dal Parini per Mozart nell’Ascanio in Alba; e se le traversie sentimentali delle dame ferraresi in Napoli recano, non senza qualche amarezza, il verbo illuminista nella morale quotidiana, demolendo come ipocrisie rigori e fedeltà (Le relazioni pericolose non sono lontane, per etica e pessimismo), giacché “fortunato è l’uom che prende ogni cosa per suo verso e fra i casi e le vicende da ragion guidar si fa”, nell’Arbore di Diana più acuminata è la polemica, sempre illuminista, contro le costrizioni e le superstizioni religiose opposte alla legge della natura. È il verbo filosofico libertino propriamente inteso a dominare nei due libretti di Da Ponte, e più che il citato Petrarca, i cui opposti palpiti mistici e carnali andranno infine a tutto vantaggio dei primi, sembra che sia Boccaccio, con la sua commedia umana, il modello stilistico e contenutistico. Non per nulla il personaggio di Doristo ricorda da vicino il Masetto da Lamporecchio che nella prima novella della terza giornata viene introdotto in un monastero come muto giardiniere e seduce allegramente tutte le suore. Il riferimento è ancor più pertinente se si considera che il libretto dell’Arbore nasceva in parallelo con quello del Don Giovanni e che il popolare diminutivo di Tommaso doveva ricorrere spesso nella mente del nostro librettista, senza scordare che se il Dissoluto punito fu concepito leggendo l’Inferno di Dante anche l’incontro fra i visitatori e Doristo mutato in albero ricorda ironicamente la selva dei suicidi del XIII canto. Anche la scena della rivelazione della colpa di Diana, che ha ceduto finalmente a Endimione, con il suo sconvolgimento degli elementi, ricorda l’epilogo soprannaturale del Don Giovanni, se non fosse che dell’ira suprema le nostre fanciulle alla fine s’interessano poco, cambiando vita e godendo delle gioie dell’amore. Nelle note di copertina Mariateresa Dellaborra, sulla scorta di Daniela Link, parla anche di un’anticipazione del Flauto magico, effettivamente corroborata dalla presenza di un regno matriarcale dominato da una regina dalla vocalità astrale con un seguito di tre donne dal carattere non troppo serio, di un servitore buon selvaggio, di un nobile tenore che conquisterà l’amore sconfiggendo l’ordine della regina, in guerra con un opposto principio. Tuttavia l’allusività dei versi, la qualità stessa della musica di Martin i Soler, brillante e dalla piacevole vena melodica, variata nei toni caldi dell’orchestrazione, efficace nell’azione e nel tratteggio psicologico, come nella scena chiave del giudizio di Diana, ci indirizzano più che verso la metafora simbolica, verso la trasposizione mitica del reale. Purtroppo la messa in scena di Francisco Negrin non rende piena giustizia all’opera, limitandosi a un’illustrazione modernizzante con una scena neutra (Rifail Ajdarpasic e Ariane Isabell Unfried con effetti computerizzati e proiezioni a cura di Joan Redon in collaborazione con il curatore delle luci Bruno Poet) e in costumi non troppo accattivanti (cappotti in pelle per gli uomini, abiti da sera per Diana, brutte divise per le ninfe, trionfo grottesco per Amore, a firma di Louis Desiré). Al di là di questo, però, c’è poco, anzi, il divertissement stanca presto e si notano più le occasioni sprecate offerte da libretto e musica. Amore, per esempio, fu creato non da un castrato ma da una donna, Luisa Laschi Mombelli (la prima Contessa d’Almaviva) e trascorre buona parte dell’opera camuffata in abiti femminili, fingendosi fanciulla messaggera del dio: questo può dare adito a quel gioco ambiguo di doppio travestimento (Cherubino spacciato per cugina di Susanna, Isolier scambiato per la Contessa Adèle nel Comte Ory), di ambiguità sessuale al quadrato che certo costituiva il pepe di partiture come questa. Al suo apparire il dio en travesti fa anche delle palesi avances a Diana, assicurando che se non fosse donna farebbe volentieri all’amore con lei: allusione certo nata per solleticare la fantasia del pubblico con ammiccanti sottintesi. Qui abbiamo un controtenore, Michael Maniaci, e tutto volge invece al buffo, al grottesco, con un Amore stile Drag Queen. Un’altra strada, certo, e legittima, ma forse quella più semplice e immediata, la meno intrigante. Maniaci è anche il meno convincente sotto il profilo vocale, per il quale avremmo certo preferito un più fluido soprano femminile. Molto brava è infatti Laura Aikin nella parte bella quanto impegnativa di Diana; la presenza scenica, poi, è perfetta. Le sue seguaci sono Ainhoa Garmendia, Marisa Martins e Jossie Perez. Sul versante maschile troviamo in Steve Davislim un Endimione inappuntabile, così come Charles Workman nel ruolo di Silvio si trova a suo agio, senza far trasparire gli squilibri che metteva in luce nella scabrosa scrittura rossiniana, la straniata figura allampanata lo aiuta poi non poco sulla scena (ma è ridicolo che non si pensi a scurirgli i capelli o a mutare un po’ il testo quando lui, pallido e biondissimo, viene ostinatamente appellato come bruno). Marco Vinco, a sua volta, centra appieno il personaggio di Doristo e la scrittura gli calza a pennello. Equilibrata la direzione di Harry Bicket, che rende giustizia alla varietà e al gusto coloristico della musica di Martin i Soler. I sottotitoli sono in italiano, inglese, francese, tedesco, spagnolo castigliano e catalano, le note in italiano, inglese, francese e tedesco offrono una puntuale riflessione sull’opera, ma per un titolo di questa rarità sarebbe stato auspicabile non sacrificare un riassunto vero e proprio dell’azione, inserito invece per sommi capi nel saggio della Dellaborra, considerando che anche la lista delle tracce (senza durate e dettaglio dei personaggi coinvolti) non rende semplicissima la fruizione. Buona la qualità della registrazione e della ripresa, chiara la regia video di Matteo Ricchetti.

Orquesta Sinfónica de Chile celebra70 años de vida en una iglesia

Foto: Michal Nesterowicz (Sonia Balcell) OSCH
Johnny Teperman
El Festival "Santiagoa Mil", presentó a la Orquesta Sinfónica de Chile (OSCH),dirigida por su titular, Michal Nesterowicz, en la interpretación de la Quinta Sinfonía del compositor bohemio austríaco Gustav Mahler. La agrupación orquestal que este año celebra 70 años de trayectoria, se presentó a fines de enero en la Iglesia San Francisco, con mucho éxito tras una brillante interpretación. La programación escogida fue sobre una de las composiciones más importantes de la historia de la música universal: la Quinta Sinfonía de Gustav Mahler, autor y director de orquesta bohemio-austriaco cuya obra marca elmomento máximo de la evolución de la sinfoníaromántica. Centenario de Mahler. Este año el mundo conmemora el Centenario de la muerte deGustav Mahler, compositor que volcó en sus partituras suvida, sus emociones, miedos, angustias y también sufelicidad, que nació un 7 de julio de 1860 en Kaliste,Bohemia, actual República Checa, en el seno de una humildefamilia judía., siendo el segundo de quince hijos, nueve delos cuales murieron durante la infancia. La Quinta Sinfonía es una de las obras más populares de Gustav Mahler a lo que contribuye en parte su cuarto movimiento, el famoso Adagietto, utilizado por el cineasta Luciano Visconti en su película “Muerte en Venecia”,basada en la novela de Thomas Mann, quien se inspiró directamente en Gustav Mahler para crear al protagonista dela historia. Para el destacado director de orquesta polaco Michal Nesterowicz, titular de la Sinfónica de Chile, esta es una de las sinfonías más trascendentales de la historia de la música, escrita por uno de los más importantes compositores de la música universal. “En la conmemoración del Centenario de su muerte estamos orgullosos de tocar esta obra al comenzar este año”,expresó el maestro europeo .

HITOS DE LOS 70 AÑOS DE LA SINFÓNICA DE CHILE: Entregamos algunos datos históricos de la OrquestaSinfónica de Chile, que depende del Centro Artístico yCultural de la Universidad de Chile (CEAC). 1.- Fundación de la Orquesta Sinfónica de Chile: Con un Concierto en el Teatro Municipal de Santiago el 7 de enero de 1941, bajo la conducción de Armando Carvajal, su primerdirector titular. 2.- Durante el período de Armando Carvajal (1941-1947) se instauraron las Temporadas Oficiales de Conciertos que se mantienen hasta la fecha. 3.- Ha sido dirigida por grandes personalidades de la música: Leonard Bernstein, Igor Markewitch, SergiuCelibidache, Herbert von Karajan, Eugene Ormandy, FritzBusch, Erich Kleiber, Antal Dorati, Sir Malcolm Sargent,encabezan una larga lista de Maestros de prestigio queparticiparon en las temporadas de conciertos. Además, los célebres compositores Igor Stravinsky, Paul Hindemith, Hector Villalobos, Aaron Copland, ¬entre otros¬ vinieron a Chile para dirigir personalmente sus obras ante el público nacional. 4.- En la Cúspide de su carrera internacional el pianista chileno Claudio Arrau, considerado entonces como el mejor pianista del mundo toca con la Sinfónica de Chile, dirigidapor Víctor Tevah en la Catedral Metropolitana en 1984. Unconcierto gratuito al que asistieron miles de personas que siguieron la música dentro y fuera del templo. 5.- Entre 1995 y 1997 el maestro norteamericano IrwinHoffman fue Director Titular de la Orquesta Sinfónica deChile. Bajo su dirección la Sinfónica se convirtió en laprimera orquesta chilena que se presentó en Europa,realizando una gira a España, a las ciudades de Granada, Zaragoza, Victoria, San Sebastián y Mondragón. 6.- Juan Pablo Izquierdo, quien fue Director Asistente de Leonard Bernstein en la Orquesta Filarmónica de Nueva York, se desempeñó como titular de la Sinfónica el año 2000, aportando a la ejecución de nuevas obras del repertorio contemporáneo. 7.- En noviembre de 2004, la Sinfónica de Chile realizóuna gira por Alemania, con su entonces director tutular,David del Pino Klinge. Con excelente acogida del público yde la crítica ofreció cinco conciertos en las ciudadesde Berlín, Kiel, Friedrichsaffen, Düsseldorf yColonia. 8.- Premios: 1977: Círculo de Críticos de Arte de Chile le otorga elPremio de Arte en Música por su extraordinaria calidad y por la difusión musical realizada. 1990: Premio APES, de la Agrupación de Periodistas deCultura y Espectáculos, al Mejor Grupo Orquestal, por sutemporada de conciertos y por la labor de extensión realizada, tanto en la capital como en el resto del país. 2009: Premio del Círculo de Críticos de Arte en reconocimiento a “la notable calidad alcanzada en la que logró un sonido hermoso, noble y afiatado durante la unaTemporada de alto nivel. 2001: Premio de la Academia de Bellas Artes de Chile en "reconociendo su carácter de Patrimonio de la Nación ydestacando el inestimable aporte brindado al desarrollocultural de Chile. 9.- Año 2010, de conmemoración de los 200 años dela Independencia de Chile, fue presentada la coleccióndiscográfica “Bicentenario de la Música Chilena”,proyecto auspiciado por la Academia Chilena de Bellas Artesy Producciones SVR que incluye cuatro CD de la Sinfónica deChile con grabaciones de obras de autores nacionales como Enrique Soro, Domingo Santa Cruz, René Amengual yGustavo Becerra entre varios otros. - El Director que estuvo más años en el mando fue elMaestro Víctor Tevah: Primero fue concertino, luego director titular entre 1947 y 1957 y desde 1977 a1985, sumando 18 años en este cargo. l último músico de los miembros fundadores fue eltrombonista Enrique Pino y también fue el que más permaneció en la agrupación. Estuvo 53 años en laOrquesta Sinfónica llegando a ocupar el cargo de primertrombón. Falleció en enero de 2009 a la edad de 93 años.Nacido en 1917, su nombre aparece en el primer programa de 1941 junto al de Víctor Tevah como primer violín solista, Zoltan Fischer, Angel Cerutti, HéctorCarvajal y Clara Pasini, entre otros. En 1976 obtuvo su jubilación, pero fue recontratado en 1978 al declararsevacante el puesto de ayudante de primer trombón, que loinstaló nuevamente en el escenario. - El músico más antiguo en la OSCH es el violinista Aziz Allell, quien lleva 43años en la Sinfónica de Chile. Ingresó por concurso elaño 1967 a los segundos violines y alcanzó el cargo deConcertino Asistente. Temporada 2011 Las Temporada 2011 de la Orquesta Sinfónica de Chile,apunta no solamente a cautivar y emocionar al público conlos clásicos, sino también a invitarlo aconocer el arte del presente en más de 64 conciertosy de 50 presentaciones de danza que se ofrecerán enel Teatro Universidad de Chile y en escenarios de comunasy regiones del país. El director del CEAC, Juan Goic, realzó la trascendenciaque el 70 Aniversario de la Sinfónica de Chile otorga a laTemporada 2011. “Quiero ubicar esta celebración en elcontexto de nuestra historia como Nación. La OrquestaSinfónica de Chile, el Ballet Nacional Chileno, la CamerataVocal y Coro Sinfónico de la Universidad de Chile, sesuman a la ilustre lista de institucionespatrimoniales de la Nación como la propia Universidad deChile, el Instituto Nacional, la Biblioteca Nacionaly el Museo de Bellas artes, entre otros. Todos ellosson los símbolos que representan en la historia chilena la voluntad humanista del Estado”, dijo y agregó que“Cuando los conjuntos artísticos nacionales impactan el alma de su comunidad deben sonreír consatisfacción los artistas; la Universidad, pero también el Estado chileno, quien pone en juego su imagencon estos símbolos patrimoniales. Un Estado humanista tiene el deber de hacer brillar a quienes lo prestigian”, concluyó. Michal Nesterowicz, director titular de la Orquesta Sinfónica, afirma que la Temporada de Conciertos 2011 sigue la línea de las anteriores y que en ella destacan losconciertos dedicados a la Conmemoración del Centenario dela muerte de Gustav Mahler con la presentación de susSinfonías Nº 1, N º 2 y N º 6 y la celebración de los 200 años del nacimiento de Franz Liszt con la interpretación de su Sinfonía Fausto. “Vamos a mantener la tradición de ofrecer no sóloconciertos sinfónicos sino también Conciertos paraFamilia, Conciertos fuera del teatro y Conciertos con el Coro Sinfónico y la Camerata Vocal. Este año, la Orquesta Sinfónica de Chile grabará un nuevo CD con música chilena para el Sello SVR Producciones”, afirma Nesterowicz y anuncia que la Orquesta Sinfónica de Chile contará con la presencia de destacados solistas y directores invitados en su Temporada como la premiada directora norteamericana JoAnn Falletta, titular de la Orquesta Filarmónica de Buffalo y de la Orquesta Sinfónica de Virginia; el prestigioso director polaco Marek Pijarowski, formador detalentosos y premiados directores como el propio MichalNesterowicz; Massimiliano Caldi, Principal Director Invitado de la Orquesta Filarmónica de Silesia y el virtuoso violinista Klaidi Sahatci, primer concertino de la Tomhalle de Zurich, una de las más extraordinarias orquestas de Europa. A ellos se agrega el director canadiense Charles Oliviere-Munroe y el húngaro Zsolt Nagy. A estas figuras internacionales se suman los nombres de losreconocidos directores de orquesta chilenos José LuisDomínguez, quien estará a cargo del estreno de su Suite Sinfónica del ballet “El Zorro”; David del PinoKlinge, quien volverá a dirigir el Réquiem de Guerra deBenjamín Britten; Francisco Rettig demostrará suespecialidad en Mahler al abordar la Sinfonía Nº 6,“Trágica” del gran compositor; Juan Pablo Izquierdo dirigirá la Cuarta Sinfonía de Brahms y Maximiano Valdés, la Sinfonía Fausto de Liszt.

Die Walkure - Teatro alla Scala, Milano

Foto: Marco Brescia & Rudy Amisano, Archivio Fotografico del Teatro alla Scala

Roberta Pedrotti
Autodidatta di genio e pertanto parricida per necessità; assillato dal sospetto d’una nascita illegittima, smanioso di emanciparsi dai padri artistici (soprattutto da quel Meyerbeer ebreo come ebreo riteneva il presunto genitore naturale Geyer), Richard Wagner sviluppa vita e poetica di teatralissima concretezza. L’ambizione dell’arte totale lo porta a una definizione talmente minuta d’ogni gesto, d’ogni stato d’animo, ma, nel contempo, una tale polivalenza di significato (sia questo primario, allegorico o simbolico) da offrire all’interprete un codice precisissimo e dettagliato e parimenti la più ampia libertà d’azione. La riflessione di Adorno, secondo qui Wagner scrive per il direttore d’orchestra, può essere applicata anche alla messa in scena, poiché indubbiamente Wagner scrive anche per il regista e realizza in partitura quel che Verdi realizzava nelle sue disposizioni sceniche. Per questo il suo dramma musicale funziona sia che sia letto in chiave mitica, romantica, sia in chiave psicanalitica, o borghese, o simbolica. L’unica visione che parrebbe reggere a fatica è quella scrupolosamente letterale, ma da questa si dipartono infinite possibilità interpretative, dovute anche alla fondamentale incoerenza dell’uomo Wagner, anarchicamente fedele solo al culto di se stesso (il passaggio ideologico dall’aria di Bakunin a quella di Nietzsche, del quale fu a sua volta padre ripudiato, è evidente nel corso del Ring, ma non è l’unica chiave di lettura possibile). Quella che abbiamo apprezzato alla Scala, per l’inaugurazione della stagione 2010/2011 è stata senza dubbio una visione originale della Walküre, ma non volutamente di rottura, non marcatamente programmatica, bensì naturalmente conseguente dall’alchimia delle personalità artistiche in locandina. Barenboim ne coglie infatti profondamente le potenzialità e le inclinazioni e declina una Walküre al femminile, dominata dalla triade composta da Waltraud Meier, Nina Stemme e Ekaterina Gubanova, tre generazioni wagneriane a confronto, tre diverse bellezze, tre autentiche primedonne, i tre poli magnetici fra i quali si può iscrivere l’intera opera. La Meier torna a Sieglinde e ne fa un originale modello di forza femminile, il complemento simbolico del dualismo dei gemelli Welsunghi allorché contrappone la sua saggezza, la sua riflessività, il suo intuito (è evidente che lei per prima, fin dall’apparire dell’ospite misterioso, abbia presentimento della sua identità) all’inquieto, inesausto, tormentato agire e peregrinare di Siegmund. Questi è lo Streben rivolto all’esterno, la primavera che esplode nella natura, Sieglinde è la passione e l’interiorità, la consapevolezza che giunge perfino al lacerante senso di colpa non già per l’incesto (che, anzi, sarebbe purissimo esempio di un vitalismo al di là del bene e del male) quanto per il disonore dell’unione forzata con Hunding che non l’ha consegnata intatta al predestinato sposo fratello. A fronte dell’intelligenza musicale, teatrale, artistica della Maier i segni che il tempo ha impresso alla sua voce (qualche durezza in alto, un centro un po’ impoverito) appaiono marginali e insignificanti, anche perché resi funzionali a un personaggio ben più maturo e autorevole di quanto non si sia abituati a immaginare. Per contro abbiamo in Nina Stemme una Brünnhilde di soggiogante freschezza, non un’algida dea guerriera che si tramuta in donna, ma una fanciulla, un’adolescente piena d’energia, simbioticamente legata al padre e incapace di concepire inganno o menzogna, solo di agire secondo la verità dei propri sentimenti e del proprio senso di giustizia, una fanciulla che gradualmente diverrà una donna. Non avremo così da lei bagliori d’acciaio fiammeggiante nel grido di battaglia di sortita (che affronta però ben conscia della radice belcantista di una scrittura che non disdegna il trillo), né un registro grave poderoso, ma un fraseggio eccellente, uno smalto timbrico di singolare dolcezza, accuratamente dosato nella mirabile scena con Siegmund e ancor più nel duetto (se così si può chiamare) con Sieglinde e nel lungo confronto finale con Wotan, forse i momenti più alti dello spettacolo. Una Brünnhilde davvero difficile da dimenticare, perfettamente antitetica all’altra forza motrice dell’agire del sovrano degli Asi, la Fricka notevolissima di Ekaterina Gubanova, appena trentunenne, solenne, statuaria, vocalità solida, imponente, capace, con una sapiente stilizzazione della parola cantata di evitare il rischio di freddezza o l’eccesso di rigidità, lasciando apprezzare la rotondità del timbro e la severa femminilità dell’inflessibile dea. Barenboim ama queste tre donne, è evidente: la sua non è una concertazione semplicemente lirica, non ricerca lo slancio epico, né si lascia tentare da estenuati abbandoni decadenti, né, ancora, il suo è un approccio analitico novecentesco.

Dirige semplicemente con amore: può apparire una definizione banale, ma è proprio nella capacità di non renderla banale la sua grandezza. Ama le voci, che asseconda senza mai sopraffarle, ama questa musica, ama queste donne che incarnano le diverse anime ideali dell’opera: il diritto, la passione, la vitalità ribelle, la regina, l’amante, l’adolescente. Amore fraterno, filiale, carnale, ideale, solidarietà contro il rigore formale del diritto, libertà contro dovere e destino, Dioniso contro Apollo. Daniel Barenboim si schiera con i primi, è ovvio, e con le donne che li rappresentano, volgendo uno sguardo comprensivo anche alle ragioni di Ficka, sposa tradita e custode del nodo coniugale. La sua è una dolcezza non manierata, che sa esprimersi anche nella forza e trionfa in un terzo atto particolarmente intenso e poetico. In quest’ottica femminile le tre figure maschili non sono emarginate, bensì poste in eloquente rapporto dialettico con le tre protagoniste. In particolare colpisce il Wotan di Vitalij Kowaljow, che non ci fa rimpiangere l’inizialmente previsto René Pape: il suo è un dio intimamente dolente, ripiegato in se stesso, già sconfitto, disincantato, ancor più toccante, infine, quando lascia trapelare il suo sentimento e abbraccia per l’ultima volta la figlia ribelle. Peccato che la tendenza a mandare indietro soprattutto gli acuti penalizzi la sua prova limitando l’autorevolezza e la penetrazione della voce: corretto questo difetto abbiamo in potenza un interprete wagneriano di grande interesse. Più interlocutoria la prova del tenore Simon O’Neill, che esce a testa alta dal cimento in virtù dell’esperienza e di un registro acuto che gli permette di affrontare con sicurezza le corone di “Wälse” (meno, a dire il vero, la puntatura di “Wälsungen-Blut”), anche se Siegmund è parte che richiede ben altra cavata eroica nei centri. Il suo strumento è sicuramente versato a ruoli più lirici, o perlomeno che ammettano una vocalità più chiara e luminosa (Lohengrin, Parsifal, lo stesso Siegfried), ma Barenboim ancora una volta modella l’interpretazione per e con le voci e si realizza così un efficace contrasto con la Sieglinde della Meier, cui si contrappone anche l’Hunding duro, glaciale, autoritario e imperscrutabile di John Tomlinson, già Wotan con Barenboim nei primi anni ’90, oggi usurato vocalmente – e per di più reduce da un’indisposizione – ma sufficientemente padrone del mestiere per risolvere il primo atto nel declamato senza troppi danni, mentre più problematico risulta il secondo, là dove si richiede una più furiosa energia. I limiti individuali, in ogni caso, finiscono per elidersi nell’insieme, nella particolare atmosfera di sintonia artistica che si respira in sala, senza mai un istante di calo di tensione. Il successo che saluta quest’ultima recita è non meno che travolgente, con acclamazioni ad ogni finale d’atto da parte di un pubblico numerosissimo, che coinvolge anche l’ottetto delle walkirie composto da Danielle Halbwachs (Gerhilde), Carola Hoehn (Ortlinde), Ivonne Fuchs (Waltraute), Anaik Morel (Schwertleite), Susan Forster (Helmwige), Leann Sandel-Pantaleo (Siegrune), Nicole Piccolomini (Grimgerde) e Simone Schroeder (Rossweisse).

Un discorso a parte merita la messa in scena, che pure ha sollevato tanta attenzione mediatica per la cosiddetta impostazione ipertecnologica. Si sa che per i mass media la serata di Sant’Ambrogio è praticamente l’unico spettacolo operistico dell’anno e pertanto si ammanta inevitabilmente dell’aspetto visivo di crismi d’eccezionalità e nella tradizione e nell’innovazione. Guy Cassiers, scenografo e regista, con Enrico Bagnoli (scene e luci), Tim van Steenbergen (costumi) e Csilla Lakatos (coreografie, ridotte all’azione di due danzatori acrobati dietro un velario) lavorano principalmente sulle proiezioni esplorandone tutte le possibilità scenotecniche con intenti ora didascalici ora simbolici. L’azione è piuttosto statica – ma d’altra parte l’opera stessa consta principalmente d’una serie di duetti –, la scena tendenzialmente oscura, ma molti effetti sono davvero efficaci e suggestivi. Nulla è lasciato al caso, i riferimenti e le allegorie sono numerosi, perfino eccessivi, giacché le note nel programma di sala si rivelano una guida insostituibile per districarsi in un dedalo che pare esistere più nella mente del regista e dei suoi collaboratori che non nella realtà autonoma dello spettacolo. Potremmo attardarci nell’elenco delle citazioni, delle allusioni, dei significati nascosti diligentemente compilato dal dramaturg Erwin Jans, ma pensiamo sia esercizio ozioso ripetere che i parallelepipedi su cui si muovono le walkirie sono formati dalle piastrelle del parquet della casa di Hunding e rappresentano un mondo in disfacimento in cui il legno simbolizza il rapporto fra natura e cultura. O che le foglie e la rugiada della selva del secondo atto sono in realtà norme, codici, dati digitali cui Siegmund e Sieglinde tentano di sfuggire. Sono tutte bellissime idee, ma l’eccesso di chiose rischia il capzioso, mentre in realtà questa Walküre in teatro appare essenzialmente come caleidoscopica, pregevole illustrazione della partitura. Un’illustrazione non banale, ricca di stimoli, che esplicita bene l’aridità borghese del mondo di Hunding e il dissolvimento del regno degli Asi, che risolve bene sia il lungo racconto di Wotan sia la Cavalcata e le morti dei duellanti, ma non centra completamente l’Incantesimo del fuoco, ottimo nelle intenzioni, perfettibile nella realizzazione (basterebbe rivedere la forma delle luci rosse che scendono dall’alto). E il programma di sala resta quel che deve essere, non un manuale indispensabile per la fruizione dell’allestimento, ma un prezioso volume ricco e approfondito, con saggi e annotazioni di grande livello e piacevolissima lettura (unica pecca, la discografia: sarebbe molto più elegante evitare le chiose tautologiche ad ogni incisione).

Sunday, January 30, 2011

Il lago dei Cigni - Teatro della Luna - Assago, Milano

Foto: Balleto di Mosca
Renzo Bellardone

TEATRO DELLA LUNA – ASSAGO – (MILANO) - 30 gennaio 2011

‘IL LAGO DEI CIGNI’ - balletto

Piotr Ilic Tciaikovskij a 16 anni assistette ad una rappresentazione del ‘Don Giovanni’ di Mozart restandone talmente colpito ed influenzato che dirà poi: ‘a Mozart sono debitore della mia vita dedicata alla musica’. Noi posteri, dobbiamo ringraziare ambedue ! Dopo aver composto diverse sinfonie e la sua prima opera lirica ‘Voevoda’, tra il 1875 ed il 1876 compose la musica per il primo dei suoi tre balletti ovvero l’amato ‘ Lago dei Cigni’, rappresentato per la prima volta al Teatro Bolshoi di Mosca il 20 febbraio 1877. Seguiranno diverse versioni ed allestimenti, ma quella presentata il 15 gennaio 1895 al Teatro Imperiale Mariinskij di San Pietroburgo con la coreografia di Marius Petipa e Lev Ivanonv, resterà la pietra angolare su cui saranno costruite tutte le coreografie successive compresa quella celebre di Rudol’f Nureyev che lo confermò a livello mondiale nel ruolo di coreografo. L’allestimento in cartellone al Teatro della Luna, prodotto da Arteatro di Carlo Pesta è presentato -sotto l’alto patronato del Ministero Russo della Cultura- dal Balletto di Mosca “ La Classique” diretto da Elik Melikov. La  coreografia originale di Marius Petipa, viene qui ripresa da Alexander Vorotnikov ad offrire la versione più autentica, con quarantotto danzatori di notevole tecnica classico-accademica provenienti dai maggiori teatri russi: dal Bolshoi di Mosca, dal Kirov di San Pietroburgo, dal Ballet Theatres di Kiev, da Odessa e molti altri ancora . Nel corpo di ballo rinnova la propria rilucente presenza la stella Nadejda Ivanova, vera punta di diamante della Compagnia che si impone al pubblico per l’eleganza delle sue ‘attitudes ed arrières’ La celeberrima storia narrata a passo di danza non è altro che il pretesto per riproporre l’atavica lotta tra il bene ed il male, con il trionfo del bene sopra tutto. Al teatro della Luna, (con utilizzazione limitata del palcoscenico soprattutto in profondità), è stato impossibile rinvenire un programma di sala da cui dedurre il nome dei vari danzatori, imponendo quindi il limite dell’indicazione del ruolo senza poter far riferimento all’interprete. Il principe Sigfried seppur con fisicità da palcoscenico, elegante nei movimenti e sicuro nel ruolo di ‘porteur’, risulta meno convincente negli ‘assolo en dedans et en dehors’ ed insicuro nei ‘dégagé’ in avanti. Costumi ed allestimento scenografico assolutamente rispettosi della tradizioni sono in linea con le attese di chi appunto cerca il repertorio di tradizione: tutù, boschi, lago, castello, insegne ed interno del salone delle danze perfettamente aderenti all’immaginario collettivo, portano il pubblico soddisfatto ad applaudire alla danza dei cignetti (atto primo scena terza) nel ‘battement tendu’ quando, sostenendosi a vicenda si spostano in diagonale sul palco con incrocio veloce del piede, che almeno una volta nella vita tutti abbiamo visto magari solo alla televisione all’interno di qualche pubblicità. La Stella Nadeja Ivanova è decisamente attenta e convincente nei raffinati ‘arriere’ (quando arretra) e negli ‘attitùdes’ dove, stando al centro del palco flette una gamba a diverse altezze sostenendosi esclusivamente sull’altra a terra. Degni di nota sono l’ energico ballerino della danza spagnola applaudito sia per la postura che per i movimenti ed il giullare che con ‘pirouette, glissade e passé’ ottiene il più caloroso dei riconoscimenti. Interessanti anche i ‘cambré’, - flessioni del busto all’indietro -, proposti dalla danzatrice della danza spagnola. Colori, luci, fumi, geometrie ed ‘arabesques’ (figurazioni di gruppo di chiara ispirazione figurativa classica) sono gli ingredienti di questa rasserenante rappresentazione coreografica, insieme al capolavoro musicale, che seppur intriso della consueta melanconia, è qui però colorato dal fresco desiderio di gioco e di narrazione. I brani più conosciuti della scrittura ed i leit motivs sono la vera sicurezza che lo spettatore cerca e trova nell’assistere a questo spettacolo, da cui esce con il sorriso sulle labbra e con lo spirito placato; questa performance teatrale non punta ad una innovativa ricerca , ma meritoriamente si propone come proposta didattica (molti bambini in platea) e momento di colta, sana e serena evasione. La musica vice sempre !

Friday, January 28, 2011

Hugo Aisemberg ed il suo gruppo Novitango al Teatro Comunale di Ferrara

Foto: Hugo Aisemberg - Novitango

Athos Tromboni
FERRARA - Enrique Santos Discépolo è un compositore argentino famoso quanto Astor Piazzolla, quantomeno per aver firmato tante canzoni-tango di Carlos Gardel. Fu il primo ad affermare con acume che "el tango es un pensamiento triste que se puede bailar" (il tango è un pensiero triste che si può ballare). Dopo di lui e Gardel, furono Piazzolla e il poeta Horacio Ferrer a rinnovare le suggestioni del pensamiento triste dandogli corpo in musica, ma fu un altro poeta, Jorge Luis Borges, il maledetto, che sdoganò definitivamente il tango, con una frase lapidaria ma vera: "Una volta era un'orgiastica diavoleria, oggi è un modo di camminare". Agli albori del Novecento il tango si ballava, in Argentina, nelle piazze di paese e nei cortili dei sobborghi, nelle osterie e nelle favelas, mentre in Europa, a Parigi soprattutto, divenne il divertissement dei salotti à-la-page. Nel secondo Novecento il tango si è universalmente affermato e mentre in Italia, per esempio, entra nelle balere e viene trasformato da pensamiento triste in realistiche cronache d'amore, con le gioie i battibecchi e le ironie di tutte le cronache d'amore, in Argentina, nell'America centrale e negli Usa rimane prevalentemente un pensamiento triste da ballare nelle milongas, che non è solo un genere musicale ma anche un tipo di locale da ballo frequentato dai tangueri. Nelle milongas si respira aria di seduzione e il rapporto uomo-donna mantiene un che di gerarchico e maschio, impensabile nelle moderne discoteche; è quindi un mondo a sé, coi suoi significati ricchi di sensualità e umori, aspettative e attese. E nelle milongas la musica di Piazzolla è diventata ballabile, caricandosi proprio di umori ben oltre le intenzioni del compositore; ecco perché egli è un autore grandemente popolare. Questa lunga prolusione era necessaria per dire che il tango non può essere spogliato dal suo contesto; ogni esecuzione in forma di concerto deve poter esprimere i contenuti di quel contesto, essendo i più emozionanti di tutte le emozioni possibili date da questa musica.
Il 26 gennaio 2011 nel Teatro Comunale di Ferrara il pianista argentino Hugo Aisemberg ed il suo gruppo Novitango hanno voluto fare un omaggio alla cultura argentina, con lo spettacolo El Tango, musiche di Piazzolla e testi di Borges e Ferrer. Il rischio della decontestualizzazione di un linguaggio artistico divenuto popolare è sempre il solito: quello di trasformare i contenuti espressivi in calligrafiche esecuzioni, affettazioni, arzigogoli. Se Novitango vuole eseguire le musiche di Piazzolla dentro un teatro settecentesco lo faccia, ma vi trasferisca i contenuti emozionali delle milongas: questo pensavamo consultando il programma dello spettacolo, giuntoci con giorni di anticipo. Poi a teatro... l'abbiamo respirata veramente l'aria delle milongas, non solo per la bravura dei musicisti, ma per un quid che sta tra il reale e il metafisico, tra la ragione e il sogno, in quella zona indefinibile dell'emozione che solo la musica può trasformare in immagine, fremito, brivido, eccitazione.
La prima parte del concerto è stata eseguita dal quartetto strumentale (Hugo Aisemberg al piano, Francesco Manna al flauto, Juan Lucas Aisemberg alla viola e Jean Gambini al contrabbasso) anche in accompagnamento al canto di Ruben Peloni. Il pianismo di Hugo Aisemberg è di impostazione classica, l'incedere melodico è prevalentemente in legato, con colori chopiniani anche nelle glissate e negli arpeggi, e il pianoforte, diversamente dallo stile jazzistico, diventa uno strumento quasi concertante e non ritmico. La viola di suo figlio Juan Lucas prende il posto del bandoneon e, insieme al flauto di Manna, diventa il vero strumento concertante. Anche il contrabbasso di Gambini è più un basso continuo che un ritmico, perché suonato prevalentemente all'arco. Vengono così eseguiti i Cuatro momentos per gruppo strumentale di Piazzolla e subito dopo le Cuatro conciones portenas su testi di Borges. Fra i due set musicali, l'attore Marco Sgarbi ha recitato poesie dello stesso Borges.
Nella seconda parte dello spettacolo, ancora Marco Sgarbi come voce recitante e poi la musica di Piazzolla, stavolta con l'innesto del bandoneon (Peter Reil) e delle percussioni (Saul Aisemberg) sia per le esecuzioni strumentali che per le canzoni interpretate da Peloni. Gli unici compositori che, nella serata, vengono ammessi alla corte di Piazzolla sono Augustin Bardi (con il brano struggente Gallo ciego) e Gerardo Rodriguez (La cumparsita, molto applaudita), oltre a Carlos Gardel nel primo bis concesso (la canzone-tango Volver). Infine un altro bis a suggellare il successo, anche di pubblico, della serata: una poesia in memoriam di Piazzolla e del suo amico e paroliere Horacio Ferrer, recitata da Peloni con ottima voce attoriale mentre in sottofondo la musica di Oblivion ricordava a tutti che il pensamiento triste que se puede bailar ha segnato un epoca e ne segnerà delle altre, incontro al futuro.

Waed Bouhasson, voz y laud arabe en el Teatro Real de Madrid

Foto: Waed Bouhassoun
Alicia Perris
Waed Bouhassoun fue contratada en Madrid por el director artístico del coliseo madrileño Gerard Mortier, que ya la conocía desde la Ópera Bastilla de París, cuando sus actividades se centraban en la gerencia operística de la capital francesa. Ocupado el patio de butacas en su gran mayoría por un público perteneciente a las diferentes comunidades árabes que viven y trabajan en Madrid, antiguos profesores de la Escuela Diplomática, diplomáticos y amantes de la tradición musical de Oriente Medio más religiosa que profana, todo hay que decirlo, Bouhassoun posibilitó al público ese distanciamiento y esa concentración que lo eleva más allá de la vivencia auditiva de las habituales grandes obras occidentales, para trasladarlo a otra dimensión. “La poesía es el arte por excelencia del mundo islámico”, explica Pablo Beneito Arias, arabista, en su documentado programa de mano de la velada. Comenta también que el repertorio de la cantante, bellísima en una túnica verde agua con aplicaciones, la abundante cabellera avellanada sobre los hombros, realiza una trayectoria poética de ida y vuelta entre el occidente y el oriente del Islam. Divide la artista su alma entre lo profano y lo divino (que a veces tantos se parecen como es el caso de la Mística en España) y agrupa en esta experiencia musical y religiosa seis conocidos poemas amatorios- tres en su versión original árabe, uno adaptado y dos traducidos al árabe del persa (los de Rumi) de cinco autores que se consideran los más talentosos de la historia de la literatura del Islam. Bouhassoun, con su voz amaderada y uterina va desgranando improvisaciones en el oud, laúd árabe, mientras comienza con Yâ nâ iman (Oh, tú que duermes), para seguir con Aghâru ´alayka (Estoy celosa), Yâ wâhiban (Oh, tú que entregas), la preciosa y conmovedora Bismil-llâh (En el nombre del divino) y las dos últimas canciones a las que se les cambió el orden y se les intercaló otro texto: Araftu l-hawâ (Conozco el amor) y Adinou bi dinil hob (Creo en le religión del amor). La lengua árabe se trastoca en seda en su garganta. En elixir. Son poemas de los siglos VIII al XIII, con música original de Waed Bouhasson, excepto Conozco el amor, que es sólo un arreglo. En el programa de mano se cita el sufismo y el centro religioso de Konia, en la Capadocia turca. Por eso es difícil no evocar a los Derviches giróvagos, también encarnados en el halo místico de esta región que transforma la religiosidad en una expresión particular de la cultura. La vinculación con el creador a través de la voz o el movimiento se viven íntimamente y con profundidad y dan a luz unas manifestaciones muy peculiares. Son muy enriquecedoras y alternativas estas manifestaciones alejadas de la cotidianeidad de la música clásica occidental de solistas, ballets, óperas o conciertos, porque en última instancia nos incitan a conocer otros territorios intelectuales y emocionales, a viajar, a relacionarnos desde otras ópticas y constelaciones con pueblos cuyas tradiciones culturales y vitales tienen un patrimonio enorme-para nosotros occidentales casi virgen- que descubrirnos. Y esta noche, gracias a Waed Bouhasson y la iniciativa de invitarla a venir, disfrutamos de una experiencia encaminada al encuentro y al descubrimiento con el Otro (otro) plural y diverso. Nos regaló una propina y puede decirse que luego no abandonó el escenario, sino que pasó a formar parte otra vez, del cosmos inenarrable y del fulgor proteico de la vida.

Thursday, January 27, 2011

Carmen de Bizet en el Metropolitan de Nueva York

Foto: Elina Garanca (Carmen)- Ken Howard / Metropolitan Opera House

Fabrizio Moschini
Parece que el Met se encuentra en un proceso de “des-zeffirelizacion”, a causa de la progresiva eliminación, por parta de la nueva dirección artística, de todas las históricas y ya un poco obsoletas producciones escénicas, entre las cuales, los faraónicos espectáculos del director de escena toscano están sufriendo las inevitables consecuencias. La Boheme aun se resiste, pero Carmen ha sido sustituida por una nueva producción confiada al talento de Richard Eyre, quien creó un espectáculo de gran impacto y relativamente “ingenioso” porque alía por un lado a las ultimas y hoy ya consolidadas tendencias del teatro lírico y por el otro, a no perder de vista la espectacularidad que el publico mas tradicionalista espera, en general de una función del Met, y en particular de uno de los títulos tan populares, como Carmen, la obra maestra de Georges Bizet lo es. La hoy casi inevitable transposición temporal del espectáculo (en este caso de casi cerca de un siglo, en la época de la guerra civil española de los años 30) resultó tener un lenguaje de dirección no demasiado extremo, para poder ser digerida por el publico menos maleado. El espectáculo es más bien bello visualmente y muy rico de ideas, logrado sobre un complejo y bien construido escenario giratorio, que fue cubierto por una cortina negra atravesada verticalmente por una profunda línea roja sangre, a la que le pueden ser atribuidos muchos significados (una herida, un rayo) todos en línea con el libreto.

Valido fue el apoyo de dos bailarinas solistas y de fuerte impacto el final, en el que también la arena giro a espaldas de la protagonista, para ese momento ya muerto y de un desesperado José que se lanzó hacia un gran toro apenas muerto por el torero. En Nueva York se utiliza la versión de la opera de Georges Bizet sustancialmente basada en la “revisión- Oeser”, es decir sin diálogos. Elina Garanca es una de las Carmenes mas acreditadas de los últimos años. La belleza fuera de lo común de la cantante letona y una cierta frialdad en el timbre han hecho crecer en muchos la convicción de que se trata, sobretodo, de un producto bien promocionado por su casa discográfica. Como frecuentemente sucede “los tantos -que si se nos permite insinuar- por momentos hablan con sentido o por haber escuchado algún CD. Escuchada en Nueva York, Garanca, confirmando para bien o para mal las características ya descritas (notable belleza y voz poco comunicativa por naturaleza), impuso a su vez las virtudes de un instrumento, más allá de limitado, que aun entrando la categoría de las carmenes mas fascinantes tiene dificultades para correr en una sala amplia como la del Met. La voz parece rotunda y más bien con cuerpo sobretodo en la zona media-aguda, pero también el registro grave, seguramente menos sonoro, fue resuelto con oficio y gusto, y sin aperturas del sonido. Queda una cierta frialdad expresiva, a pesar de los evidentes esfuerzos por acentuar las frases, pero la escena de las cartas se lograron producir ciertos escalofríos gracias también al momento mejor elegido por la baqueta de Edward Gardner. El director ingles concertó una Carmen de discreta rutina, con buen equilibrio entre el foso y la escena, tiempos por demás lanzados, pero con una cierta monotonía en la dinámica y una mesurada relajación de fondo, también en los momentos en los que se pediría mayor vigor e intensidad.
Pareció particularmente interesante la voz del tenor Brandon Jovanovich, quien mas allá de tener el physique du rôle de Don José, posee también una voz amplia y muy oscura (no es casualidad que el cantante haya comenzado su carrera como barítono) y una línea de canto no del todo refinada, evidenciando sobretodo un pasaje superior engolado, pero emitiendo agudos seguros y timbrados. Sin limitarse a proponer el típico Don José muscular, Jovanovich mostró buenas intenciones expresivas, resueltas honorablemente, y buscó y encontró algunos refinamientos como una media voz correctamente interpretada en el aria de la flor. Si la Micaela de Hei-Kyung Hong pareció de modesto impacto en el dueto con el tenor, resolvió con seguridad su aria importante. El Escamillo de John Relyea de voz poco agradable, cavernosa y pésimo canto, que además de ser muy vociferante, es de olvidarse en toda la línea. De discreto impacto: Morales de Michael Todd Simpson, más modesto el Dancaire de Malcolm Mackenzie y el remendado de Scott Scully. Tampoco la Frasquita de Joyce El-Khoury ni la Mercedes de Eve Gigliotti brillaron; en particular la primera de ellas estuvo demasiado incomoda en el agudo. Excelente estuvo el Zúñiga de Richard Bernstein. La Orquesta de buen nivel y un coro mejorable, hicieron bien un discreto ultimo acto, y muy bien preparado estuvo el coro de niños.

Wednesday, January 26, 2011

Pagliacci y Cavalleria Rusticana en el Teatro alla Scala de Milan

Foto: Marco Brescia & Rudy Amisano, Archivio Fotografico del Teatro alla Scala

Renzo Bellardone


PAGLIACCI

Celos y verismo, por lo tanto sentimientos y realidad, son los ingredientes de la puesta en escena de Mario Martone quien utilizando la táctica del teatro en el teatro logró fundir en una misma, la realidad de la platea con la realidad del escenario. Pagliacci se inició levantándose el telón, para ver en escena las escenografías de Sergio Tramonti, que se situaban en una periferia suburbana, bajo un puente, con tierra, hierbas y señales del paso de automóviles, todo en malas condiciones: así fue presentada la escena al público. Se cerró nuevamente la cortina mientras la música tomaba cuerpo bajo el preciso y amplio gesto de Daniel Harding, quien afrontó con respeto ambas partituras italianas, y se escuchó ‘Si può, si può…’ el prologo que por si presenta la opera. Alberto Mastromarino, en el papel de Tonio, compensó poéticamente y con caricaturesca gestualidad su discontinuidad vocal, mientras perdía el tiempo tocando el tambor en busca de la claridad en el sonido. Para cuando hizo su entrada José Cura, en el papel de Canio el payaso, se pudo apreciar la impecable uniformidad del coro dirigido por el maestro Bruno Casoni. La acción se desarrolló sobre un escenario que parcialmente cubría el foso de la orquesta, y llegaba hasta la primera fila de butacas, parcialmente ocupada por cantantes y artistas que cada tanto subían y bajaban del escenario en una continua interacción con la platea, delineando que en una opera verista, y como casi siempre sucede, la representación escénica no se distancia tanto del mundo real del que proviene su inspiración. De esta manera, la declaración de amor de Tonio a Nedda, interpretada por la convincente Kristine Opolais, desde el punto de vista actoral y vocal, se convirtió en una escena violenta o casi un intento de opresión sexual.
El personaje de Canio, interpretado por Cura, que hizo llegar al corazón todos los sentimientos del ‘Vesti la giubba’ con firmeza interpretativa, se contrapuso a Gabriele Viviani, que en el papel del Silvio, su rival de amores, mostró un buen desempeño en su canto y en escena. Muy convincente estuvo el Arleechino de Celso Albelo que pudo caracterizar y delinear su personaje a pesar de su corta aparición. Los payasos, como los definían los actores y los circos itinerantes hacia finales de los años 60, entraron a escena en una caravana y en autos de época, en una zarabanda de acrobacias y sonidos como efectivamente se hacia a la usanza, enfilándose hacia el centro de la ciudad para atraer al publico para pagar su entrada y asistir a la representación que en “I Pagliacci” concluye trágicamente con el asesinato de Silvio por parte de Canio, que en esta puesta en escena, el delito de rabia, de celos y de honor, ocurrió en la sala, en medio de un publico que nota la tensión y vive la agresión realizada bajo el podio del director y donde el muerto es pisado y abandonado por el asesino que se aleja exclamando ‘La commedia è finita’

CAVALLERIA RUSTICANA
La escena completamente vacía, comienza a construirse por cantantes que mano a mano van haciendo su entrada en el escenario, llevando cada uno su propia silla, elemento de continuidad de dirección con la opera precedente, en la que la silla, violentamente aventada por Canio, representa el objeto sobre el cual se debe descargar la propia rabia y la desilusión. En esta puesta, la silla tiene diversos significados: ya que se convierte en un medio de conquista cuando se acomoda en dos filas en el interior la iglesia, que simboliza el lugar de la pureza, de la justicia y de la recompensa que no se puede obtener por casualidad sino por medio de la propia construcción personal (como llevar cada quien su propia silla). Se convertirá en el lugar de confidencia y para pedir socorro, no solo espiritual de parte de Santuzza, que fue bien interpretada por una puntual, eficaz y muy aplaudida Marianne Cornetti, que voltea hacia Elena Zilio, quien en un negro luctuoso, hasta el fin de su primera aparición, realizó la brillante interpretación de una atormentada, resignada y desesperada mama Lucia que conmovió al publico. La silla se convirtió en una plaza cuando todas fueron acomodadas en círculo durante el brindis cantado por el Turridu del joven tenor Yonghoon Lee, un agradable descubrimiento por su entonación en el fraseo claro y cargado de emotividad. Junto a una barca a la derecha, y sentada en una silla con las piernas estiradas, casi como una insolente Carmen, Giuseppina Piunti creó el personaje de Lola con habilidad artística y sin guardarse vehemencia interpretativa y de emisión vocal. El personaje de Alfio fue bien descrito por el seguro barítono Claudio Sgura que al final de sus primeras notas recibió el consenso de un público siempre atento y generalmente severo. La atmosfera siciliana se realizó delante de la primera fila de sillas que aventó un agitado Alfio, mientras un grupo de hombres sentados observaban silenciosamente, y con la simulación de la muerte del cordero de pascua que dejó a la vista una inquietante e inexorable mancha de sangre en el centro del escenario, donde permaneció todo el tiempo, aun durante la misa de la vigilia premonitoria, acrecentando las ansias de la espera y, como símbolo profético, para marcar el territorio que se convierte en testimonio del delito de honor. La sangre, se encuentra también en el centro del dialogo entre un dolorido Turridu, que cantando con el llanto en el corazón le confía a una quebrantada mama Lucia el presagio de su propio destino y el de su amada Santuzza. El coro se reafirmó incondicionalmente en los vértices de la excelencia así como la orquesta dirigida por un impecable Harding que supo delinear el verismo ahí contenido, sin caer en la rutina a la que se acostumbró en algún momento al publico, logrando resaltar puntualmente los momentos de gran lirismo y conmoción, y manteniendo la escena con la óptica de un logro profesional para todas las partes. El público, aun el más desencantado, presenció con ansias la maldición de Santuzza a Turriddu. ‘A te la mala Pasqua’ y el grito final de las dos habitantes del pueblo ‘Hanno ammazzato compare Turiddu” La dirección orquestal sobresalió y conmovió. ¡La música siempre vence!

Pagliacci e Cavalleria Rusticana: Ovvero il dramma della gelosia in scena alla "Scala di Milano"

Foto: Marco Brescia & Rudy Amisano, Archivio Fotografico del Teatro alla Scala
Renzo Bellardone

PAGLIACCI

Gelosia e verismo, quindi sentimento e realtà sono gli ingredienti dell’allestimento di Mario Martone che utilizzando l’espediente del teatro nel teatro riesce a fondere la realtà della platea con la realtà del palcoscenico in un solo insieme. Pagliacci inizia con l’apertura del sipario dove le scenografie di Sergio Tramonti rimandano ad una qualunque periferia suburbana, sotto ad un cavalcavia; a terra erbacce e segni di passaggi d’auto, una malandata roulotte: la scena è stata presentata al pubblico. Si richiude il sipario mentre la musica prende corpo sotto il gesto preciso ed ampio di Daniel Harding che affronta con rispetto questi spartiti italiani. ‘Si può, si può…’ il prologo ‘da sol si presenta’ , annunciando l’opera; Alberto Mastromarino nei panni di Tonio si pone poeticamente compensando così qualche discontinuità vocale e con gestualità caricaturale, diventa brillante mazziere che batte il tempo della grancassa restando alla ricerca della rotondità del suono. Quando entra José Cura nei panni di Canio il pagliaccio, si è già avuto modo di appezzare l’impeccabile uniformità del coro diretto dal Maestro Bruno Casoni. L’azione si svolge su un palco che parzialmente sovrasta la buca dell’orchestra sopravanzando fino alla prima fila di platea, parzialmente occupata da cantanti ed artisti che di volta in volta salgono e scendono dal palco in una continua interazione tra palco e platea a sottolineare che in un’opera verista, ma credo quasi sempre, la rappresentazione scenica non si distanzia dal mondo reale da cui peraltro attinge tutte le ispirazioni. Così la dichiarazione d’amore di Tonio a Nedda , interpretata dalla convincente, sia attorialmente che vocalmente Kristine Opolais, diventa una scena violenta, quasi il tentativo di sopraffazione sessuale. Il personaggio di Canio è interpretato da Cura, che fa arrivare al cuore tutti i sentimenti del ‘Vesti la giubba’; con fermezza interpretativa si contrappone poi a Gabriele Viviani che, nei panni del rivale in amore Silvio, dà una buona interpretazione vocale e scenica.
Molto convincente l’Arlecchino di Celso Abelo che riesce a caratterizzare e tratteggiare il suo personaggio pur in poche battute. I saltimbanchi, come venivano definiti gli attori ed i circensi itineranti fino agli anni ‘60, arrivano qui con carrozzoni ed auto d’epoca, in una sarabanda di acrobazie e suoni così come era effettivamente usanza sfilare per il centro cittadino ad invogliare il pubblico ad entrare poi alla sera sotto il tendone e pagare il biglietto per assistere alla rappresentazione che ne ‘I Pagliacci’ finisce tragicamente con l’uccisione di Silvio da parte di Canio ed in questa messa in scena il delitto di rabbia, di gelosia e d’onore avviene in sala, in mezzo ad un pubblico che avverte la tensione e vive il delitto compiuto sotto al podio del direttore dove il morto ammazzato viene scavalcato ed abbandonato a terra dall’assassino che si allontana esclamando: ‘La commedia è finita’

CAVALLERIA RUSTICANA

La scena completamente sgombra, viene costruita dai cantanti man mano che arrivano sul palco, portandosi ciascuno la propria sedia, elemento di continuità registica con l’opera precedente dove, scagliata violentemente da Canio,la sedia rappresentava l’oggetto su cui scaricare la propria rabbia e le proprie delusioni. Qui la sedia ha diverse valenze: diventa mezzo di conquista quando viene disposta in due ordini all’interno della chiesa, che simboleggia il luogo della purezza e della giustizia e della ricompensa che non si può ottenere per caso ma solo con la propria personale costruzione (il portarsi la sedia). Diventerà il luogo di confidenza e di richiesta di soccorso non solo spirituale da parte di Santuzza, convincentemente interpretata da una puntuale, efficace ed applauditissima Marianne Cornetti, quando si rivolge a Elena Zilio che ‘in nero luttuoso’ fin dalla prima apparizione, rende brillantemente nei panni di una tormentata, rassegnata e poi disperata mamma Lucia che commuove il pubblico. La sedia diventa piazza quando tutte vengono tutte disposte a cerchio per il brindisi inneggiato da Turiddo ovvero il giovane tenore Yonghoon Lee piacevole scoperta sia nell’intonazione che nel fraseggio chiaro ed intriso di emotività. Giunta dalla barcaccia di sinistra, sedutasi poi su una sedia, a gambe divaricate quasi come una sfrontata Carmen, Giuseppina Piunti crea il personaggio di Lola con abilità artistica non lesinando veemenza interpretativa ed emissione vocale. Il personaggio di Alfio è ben descritto dal sicuro baritono Claudio Sgura che fin dalle prime note riceve i consensi di un pubblico sempre attento e sovente severo. L’atmosfera siciliana si realizza attraverso il barbiere davanti al primo ordine di palchi che rade un irrequieto Alfio, un gruppo di uomini che seduti osservano silenziosi, e con la simulazione dell’uccisione dell’agnello pasquale che lascia inesorabilmente una vistosa ed inquietante macchia di sangue al centro del proscenio, dove resterà per tutto il tempo –anche durante la messa della vigilia premonitrice- ad accrescere l’ansia dell’attesa e, simbolo profetico, a marcare il territorio che diventerà testimone del delitto d’onore. Il sangue è anche al centro del dialogo tra un accorato Turiddo che cantando con il pianto nel cuore affida alla struggente Mamma Lucia il presagio del proprio destino e quello dell’amata Santuzza. Il coro si riafferma incondizionatamente ai vertici dell’eccellenza così come pure l’orchestra diretta da un impeccabile Harding che sa sottolineare il verismo dei contenuti senza indulgere in consuetudini a cui era avvezzo il pubblico di un tempo, riuscendo puntualmente a far risaltare i momenti di grande liricità e commozione sostenendo il palco con l’ottica professionale della riuscita dell’insieme. Il pubblico, anche il più disincantato, attende con ansia la maledizione di Santuzza a Turiddu ‘A te la mala Pasqua’ e l’urlo conclusivo urlato dalle due popolane ‘Hanno ammazzato compare ‘Turiddo’ : la direzione orchestrale non ne ha tralasciato una commossa evidenziazione. La musica vince sempre!