Wednesday, December 23, 2009

El Niño: A Nativity Oratorio di John Adams - Carnegie Hall, New York

Foto: John Adams, Dawn Upshaw, Michelle DeYoung. Orchstra of St. Luke's. Copyright Notice - Chris Lee 2009

Ramón Jacques

Sebbene negli USA siano disponibili molte raccolte di canti natalizi e “christmas carols” la tradizione legata alla forma colta dell’oratorio come unione di musica e fede cristiana in questo periodo dell’anno (il Natale, appunto) è veramente scarsa. John Adams, forse il compositore americano più rispettato di oggi, ha cominciato ad invertire la rotta, adattando proprio temi cristiani a situazioni ed eventi successi negli ultimi dieci anni. Uno di questi è identificabile con l’arrivo dell’anno “2000” che per molti significava l’inizio di una nuova era della salvezza mentre per altri la possibilità di una grave catastrofe. Così, quando Adams ha accettato la commissione, offerta dal Théâtre du Châtelet di Parigi, di scrivere un pezzo per il nuovo millennio, ha deciso di raccontare la storia della natività che ha dato luogo all’oratorio El Niño. Invece di basarsi sul Nuovo Testamento però, Adams e il suo abituale collaboratore Peter Sellars hanno creato un libretto bilingue (spagnolo e inglese) ispirato alle poesie in lingua spagnola della celebre poetessa messicana Rosario Castellanos (1925-1974) e di Sor Juana Inés de la Cruz (1648-1695), la più importante drammaturga messicana del 17° secolo, così come si trovano altri riferimenti letterari e biblici in lingua inglese. Questa combinazione di sacro e profano, che attraversa frontiere politiche e temporali, in un tentativo di riconciliare gli opposti, rappresenta la vera speranza del nuovo millenio, il tutto narrato sempre dal punto di vosta femminile. La colorita e variegata orchestrazione - suddivisa in 24 parti differenti che fluiscono con sottigliezza, ma anche forza - è moderna e si ispira alla musica minimale, quindi l’armonia è consonante, e si percepiscono anche riferimenti alla musica medievale, al folk messicano e americano, al jazz e, naturalmente, alla musica natalizia ancora americana.
Si trattava della prima rappresentazione del lavoro alla Carnegie Hall (in forma di concerto), con la presenza dello stesso John Adams alla direzione musicale, così che l’evento ha generato molta aspettativa nel mondo musiclae newyorkese. Il compositore ha realizzato una lettura sicura (Orchestra of St. Luke’s), attenta ai minimi dettagli esaltando la partitura, sottolineando delicatezze e prendendosi anche certe libertà interpretative che lasciavano liberi di esprimersi gli archi, l’armoniosissimo trombone e la chitarra nel solo conclusivo, qui accompagnata dal coro di voci bianche (The Brooklyn Youth Chorus). Superba anche la prova del Westminster Symphonic Chorus Il soprano Dawn Upshaw, unica presenza anche nel cast originario a Parigi, ha rivestito i testi con esuberanza e soavissima chiarezza vocale, molto comunicativa nel Magnificat ed effusiva nel Memorial de Tlatelolco (su testo della Castellano) cantato in spagnolo. Michelle de Young, mezzosoprano, ha cantano con intensità, con una emissione potente, ma anche un po’ forzata soprattutto nella trascendantale parte La Anunciación la cui dizione spagnola non era nulla chiara. Eric Owens, un basso-baritono di notevoli mezzi, è stato penetrante ma un po’ ingombrante quanto a presenza vocale (ad esempio in Joseph’s Dream e nell’etereo trio con soprano e mezzosoprano Se habla de Gabriel). Dolcissima, infine, la partecipazione dell’ ensemble masculino, un trio d’ “angeli” composto da tre controtenori che accompagnavano sullo sfondo l’espandersi delle arie e dei pezzi d’insieme.

Tuesday, December 22, 2009

London Symphony Orchestra - Associazione Lingotto Musica, Turin Italia

Foto: Valery Gergiev- Associazione Lingotto Musica, Pasquale Juzzolino

Massimo Viazzo

Fue un brutal y feroz rugido de la sección de metales lo que selló este memorable Boléro. El neoclasicismo estetizante de ciertas ejecuciones (también celebres) estuvo a miles de kilómetros de distancia de aquí. Valery Gergiev logró liberar de su orquesta una energía envolvente, imparable y también violenta, sin hacer menos el peculiar efecto hipnótico de la obra. Así, el dócil tema inicial poco a poco se fue desbordando, como un caudaloso río que fue inundando hasta transformarse en materia incandescente, a tal punto de hacer de este Boléro un indiscutible y cercano allegado del Sacre stravinskiano. Los últimos movimientos de batuta fueron literalmente irresistibles y el gesto final se convirtió casi en liberador. Gergiev que guió a la London Symphony Orchestra de manera deslumbrante (los metales literalmente se agigantaron) había iniciado el concierto con una ejecución inalcanzable de la celebre Pavane de Ravel, que fue gobernada por un imperturbable destilar de colores que fue sostenido por un movidísimo tactos. En Jeu de cartes el director ruso pareció haber cambiado la ironía por el “zolfo”: sonido siempre rotundo, tema muy proyectado, de afilados y sorprendentes ritmos con un Jolly Joker que pareció ser demasiado demoniaco. Por lo tanto, no habría porque maravillarse de más si el espíritu de Mahler suspirara ligeramente sobre la partitura. Gergiev le hizo justicia también a Jeux, obra maestra poco apreciada, de las últimas de Debussy – un poema casi sinfónico, abstracto, y sin “programa” – que apunta hacia un caleidoscópico divisionismo timbrico y con el que se valoriza de manera virtuosamente analítica cada minúscula estructura rítmica. Nada mas puede decirse de esa perla que es el Concierto para oboe de Richard Strauss, que fue interpretado con melancólica elegancia y refinada técnica por el primer oboe de la orquesta Emmanuel Abbühl. ¡Se ha tratado de un concierto memorable que traspasa incluso estas pocas líneas! El hecho de que publico turines, normalmente frío, haya soltado una gran ovación al final del Boléro, persuadió a Valery Gergiev para regalar, fuera de programa, una pirotécnica ejecución de la Marcha del ''Amor por las tres naranjas'' de Prokofiev.

London Symphony Orchestra - Associazione Lingotto Musica, Torino

Foto: Associazione Lingotto Musica, Pasquale Juzzolino.

Massimo Viazzo

E’ un barrito degli ottoni, brutale, feroce a suggellare questo memorabile Boléro. Il neoclassicismo estetizzante di certe esecuzione (anche celebri) è qui lontano mille miglia. Valery Gegiev riesce a liberare dalla sua orchestra un‘energia avvolgente, inarrestabile, anche violenta, senza venir meno l’effetto ipnotico peculiare della pagina. Così il docile tema iniziale a poco a poco trabocca, rompe gli argini, si trasforma in materia incandescente tale da rendere questo Boléro parente strettissimo addirittura del Sacre stravinskijano. Le ultime battute sono letteralmente irresistibili e il gesto conclusivo diventa quasi liberatorio. Gergiev, alla guida di una London Symphony Orchestra in forma smagliante (gli ottoni hanno letteralmente giganteggiato) aveva iniziato il concerto con un’esecuzione inafferrabile della celebre Pavane raveliana governata da un imperterrito distillare di colori sostenuto da un tactus mobilissimo.
In Jeu de cartes il direttore russo pareva aver barattato l‘ironia con lo “zolfo”: suono sempre rotondo, temi ben sbalzati, stilettate ritmiche sorprendenti con un Jolly Joker mai sembrato così demoniaco. Non c’era da meravigliarsi più di tanto quindi se lo spirito di Mahler aleggiava sulla partitura. Gergiev rendeva giustizia anche a Jeux, capolavoro misconosciuto dell’ultimo Debussy - quasi un poema sinfonico astratto, senza “programma” - puntando ad un caleidoscopico divisionismo timbrico e valorizzando in maniera virtuosisticamente analitica ogni infinitesimale microstruttura ritmica. E che dire poi di quella perla del Concerto per oboe di Richard Strauss interpretato con eleganza malinconica e tecnica sopraffina dal primo oboe dell’orchestra Emmanuel Abbühl! Che si sia trattato di un concerto memorabile credo traspaia da queste poche righe… E anche il pubblico torinese, solitamente freddo, si è sciolto dopo il Boléro, in un’ovazione finale che ha persuaso Valery Gergiev a regalare, come fuori programma, una pirotecnica esecuzione della Marcia dall’ ”Amore delle tre melarance” (Prokofiev).

L’Orchestra Giovanile di Murcia (Spagna) - Alice Tully Hall, New York

Foto: Virginia Martínez dirige a la Orquesta Juvenil de la Región de Murcia.

Ramón Jacques

L’Orchestra Giovanile di Murcia, nata nel 1981, è il progetto più ambizioso e importante riguardo alla fondazione di orchestre giovanili in Spagna, nel quadro della formazione di giovani musicisti e strumentisti, organizzato e gestito dal Ministero della Pubblica Istruzione e Cultura della Regione Autonoma della Murcia (Spagna del sud-est). Per questo programma, sono stati ascoltati molti giovani di talento per lo più residenti nei comuni della Murcia e attivi nei conservatori della regione, che da allora sono entrati a far parte dell’organico di grandi orchestre spagnole e all’estero. E’ da evidenziare il successo di questa iniziativa, dato che in Venezuela in un programma simile conosciuto come El sistema si è formato ed è cresciuto il direttore d’orchestra Gustavo Dudamel. L’orchestra ha compiuto diversi tour in Spagna e in Europa (in Italia ha partecipato nel 1994 alla Music International Meeting, dando concerti a Padova, Abano Terme e Venezia). Il suo debutto americano alla Alice Tully Hall del Lincoln Center di New York, (complesso che ospita, tra l’altro, il Metropolitan Opera House). è stato senz’altro di buon auspicio. L’orchestra ha scelto un programma equilibrato con brani di compositori spagnoli e una sinfonia di Mahler, il più importante compositore post-romantico. Il concerto è cominciato con grande impeto con il conosciuto e appassionato Intermezzo da la zarzuela La Boda de Luis Alonso di Geronimo Giménez (1854-1923), lavoro pieno di riccheza e colore (l’orchestra ha manifestato qui inequivocabilmente il suo carattere spagnolo). Sono seguiti poi tre brani dal Sombrero de Tres Picos de Manuel de Falla (ispirati alla musica tradizionale dell’Andalusia) prima una serena ma intensissima Danza de los Vecinos (seguidilla) seguita da una penetrante Danza del Molinero (Farruca) per finire con l’esuberante Danza final, Jota in cui hanno potuto mettersi in luce archi e ottoni. Seconda parte interamente dedicata alla Sinfonia n. 1 in re maggiore “Il Titano” di Gustav Mahler il cui primo movimento è stato reso con sottigliezza (soprattutto è parsa magicamente sospesa la parte introduttiva), mentre più rustico è sembrato il Ländler austriaco, triste la marcia funebre del terzo tempo e energico e tempestoso il Finale, movimento in cui l’orchestra ha potuto dispiegare al meglio le forze di ogni sezione strumentale. La giovane direttrice sul podio Virginia Martinez, originaria della Murcia e titolare dell’orchestra dal 2006, ha concertato con entusiasmo e sicurezza, estraendo dalla sua orchestra una gamma di colorazioni timbriche e dinamiche sempre differenti, dalle più sottili alle più animate e briose. Autorevole nel gesto la Martinez ha comunque alsciato una certa libertà espressiva agli strumentisti. Una personalità da prendere in considerazione anche nel mondo operistico, considerando che è stata assistente musicale di due produzioni wagneriane al Liceu di Barcellona. Prossimo impegno dell’orchestra The Midwest Clinic di Chicago, un impostante meeting annuale di orchestre,

Monday, December 21, 2009

El Niño, oratorio de John Adams – Carnegie Hall, Nueva York

El Niño Oratorio. Copyright Notice - Chris Lee 2009. Orchestra of St. Luke's John, Dawn Upshaw (soprano).

Ramón Jacques

A pesar de que en Estados Unidos existe una gran cantidad de canciones de navidad o “christmas carols” la tradición y creación del oratorio, como forma de unión entre la música con la fe cristiana de esa época del año, es realmente escasa. John Adams, el compositor americano más respetado en la actualidad, ha comenzado a cambiar esta situación adaptando temas cristianos para describir ciertas actitudes culturales de la última década. Una de ellas, fue el arribo del año 2000, que para muchos significó el inició de una nueva época de salvación y para otros la posibilidad de una gran catástrofe. Por ello, cuando Adams aceptó la comisión que le ofreció el Théâtre du Châtelet de Paris para componer una obra sobre el inicio del nuevo milenio, eligió contar las historias de la navidad, y de un nacimiento, que captaban su idea del temor a las puertas de un prometedor inició, lo que dio origen al oratorio El Niño. En vez de basarse en algún texto del Nuevo Testamento, Adams y su habitual colaborador Peter Sellars crearon un libreto bilingüe (en español e ingles) basado principalmente en las poesías en lengua española, de la celebre poetisa mexicana Rosario Castellanos (1925-1974) y de Sor Juana Inés de la Cruz (1648-1695), la dramaturga mexicana mas importante del siglo XVII, así como en otras referencias literarias y bíblicas en lengua inglesa. Esta combinación de voces sagradas y seculares, que cruzan diferentes fronteras de tiempo y políticas, reconciliando diversas dualidades, representa la esperanza para el nuevo milenio, narrada siempre desde el punto de vista femenino. La colorida y variada orquestación, conformada por 24 partes diferentes que van fluyendo con sutileza o con fuerza, es moderna, con influencia del género “minimalista”, de consonante armonía, y en el que se percibe una sutil incorporación de tonalidades pertenecientes a la música, medieval, folk mexicano y americano, jazz y de la música de navideña americana. Al tratarse de la primera representación (en versión concierto) de la obra en el Carnegie Hall de Nueva York, y con la presencia de Adams en la dirección musical, el evento generó muchas expectativas en el ambiente musical local. Al frente de la brillante Orchestra of St. Luke’s, grupo de cámara de Nueva York, el propio compositor realizó una lectura segura y atenta a cada detalle en la que exaltó la textura y la delicadeza de la serena orquestación, permitiendo ciertas libertades interpretativas a la sección de cuerdas, a un armonioso trombón, o al solo final de guitarra con el que concluye la obra, acompañando a un coro de voces infantiles (The Brooklyn Youth Chorus). Notable desempeño tuvo también el coro Westminster Symphonic Chorus. La soprano Dawn Upshaw, única cantante que participó en el estreno mundial de la obra en Paris, logró revestir sus textos cantables con una exuberante y suave claridad vocal, muy comunicativa en su “Magnificat” y efusiva en el “Memorial de Tlatelolco” (de Castellanos) cantado en español. Michelle DeYoung, (mezzosoprano) fue mas intensa en su cantó, con potente y forzada emisión, sobretodo en la trascendental parte, “La Anunciación” donde su dicción española fue poco clara. La potente voz del bajo barítono Eric Owens, fue penetrante pero demasiado corpulenta al interpretar: “Joseph’s Dream” y etérea en el trío (con soprano y mezzo soprano) “Se habla de Gabriel”. Muy melodiosa y dulce fue la participación del “ensamble masculino”, una especie de trío angelical compuesto por tres contratenores, que acompañó y sirvió de fondo a las voces solistas durante sus arias, dúos y tríos.

Orquesta de Jóvenes de la Región de Murcia - Alice Tully Hall de Nueva York

Fotos: Virginia Martínez y Orquesta de Jóvenes de la Región de Murcia.

Ramón Jacques

La Orquesta de Jóvenes de la Región de Murcia, creada en 1981, es el proyecto más ambicioso e importante de orquestas juveniles de España para formar jóvenes músicos e instrumentistas, organizado y sostenido por la Consejería de Educación y Cultura de la Comunidad Autónoma de la Región de Murcia. Por dicho programa han pasado muchos talentosos jóvenes, en su mayoría residentes de municipios murcianos y procedentes de conservatorios de la región, quienes después han pasado a formar parte de importantes conservatorios y orquestas en España y en el extranjero. Es de resaltar el meritorio trabajo de estas iniciativas, si se considera que de un programa similar en Venezuela, conocido como “El sistema”, se formó y surgió el destacado director de orquesta Gustavo Dudamel.
La orquesta ha realizado diversas giras por España y Europa, y en esta ultima por norteamérica, realizo su auspicioso debut en la sala de conciertos Alice Tully Hall del Lincoln Center de Nueva York, (complejo que alberga entre otros teatros al Metropolitan Opera House). La orquesta ofreció un balanceado y atractivo programa con obras de compositores españoles y una sinfonía de Mahler el más importante compositor postromántico. El concierto inició a todo ímpetu con el conocido y apasionante intermedio intermezzo de la zarzuela La Boda de Luis Alonso, de Geronimo Giménez (1854- 1923), obra plena de riqueza y colorido orquestal a la que la orquesta se adhirió con carácter y temperamento español.

A continuación, se ofrecieron tres partes orquestales del ballet el Sombrero de Tres Picos de Manuel de Falla (inspirado en la música tradicional de Andalucía) comenzando: con una serena y la vez intensa ejecución de la Danza de los Vecinos (seguidilla); seguida de la penetrante Danza del Molinero (Farruca); y de la Danza final, jota de exuberante interpretación de los metales y cuerdas. En la segunda parte se ejecutó la Sinfonía 1 en re mayor (El Titán) de Gustav Mahler, en la que resalta la sutileza con la que se interpretó el primer movimiento, una especie de introducción mágica; el armonioso Ländler austriaco del segundo movimiento, la triste marcha fúnebre del tercero, y la energía tempestuosa del ultimo movimiento en el que la orquesta mostró un rico y brioso despliegue de cada una de sus secciones de instrumentos. Para finalizar se ofrecieron dos pasos dobles como propina, uno de los cuales fue “suspiros de España” La joven directora Virginia Martínez, tambien originaria de Murcia y titular de la orquesta desde el año 2006, concertó con entusiasmo y seguridad, extrayendo de su orquesta una diversa gama de tonos y colores que fue desde los más tenues y sutiles hasta los más animados y briosos. Su conducción fue autoritaria, pero aun así permitió libertades interpretativas a sus músicos en la búsqueda de las mejores armonías. Una personalidad a tener en cuenta en el mundo operístico, si se considera que ha sido ya asistente en dos operas wagnerianas en el Liceu de Barcelona. El siguiente destino de la orquesta fue el The Midwest Clinic en Chicago, un importante encuentro anual de orquestas y donde hacia muchos años que no se presentaba una orquesta europea.

Carmen de Bizet en el Teatro alla Scala de Milán, Italia.

Foto: Anita Rachvelishvili (Carmen)Jonas Kaufmann (Don José) Marco Brescia / Teatro alla Scala.

Massimo Viazzo

Dos fueron las apuestas ganadas por el intendente del Teatro Alla Scala Stéphane Lissner y por Daniel Barenboim “maestro scaligero” hasta finales del 2013, en esta importante inauguración de temporada: la protagonista Anita Rachvelishvili de veinticinco años de edad, y la directora de escena la siciliana Emma Dante (quien de hecho debutaba en la escena lírica). La primera, es egresada de la Accademia della Scala, y la segunda, aunque tiene experiencia en la dirección de cierto nivel, es solo en el ámbito del teatro de prosa, pero aun así !ambas convencieron! Emma Dante mostró dotes fuera de lo común para poder captar la verdad escénica sin violentar la dramaturgia del libreto (en esta producción se reestablecieron los indispensables diálogos hablados). Poco importó que en lugar de España, la acción se haya ambientado en su Sicilia, sombría, intolerante, supersticiosa (con todo el despliegue de las procesiones, crucifijos, toldos y quemadores de incienso). Olvidando el folclor convencional, esta Carmen fue hecha con cuerpo, ritualidad y sensualidad mediterránea (las cigarreras en el baño fue inolvidables) y así, hubieron tantas ideas, que seria verdaderamente largo enumerarlas todas, y quizás hasta seria poco sustancial.
Es suficiente afirmar que Emma Dante logró la difícil empresa de separar esta opera de ese cliché que la tradición tiene engangrena, restituyéndola de manera viva, carnal, y también violenta (la pelea entre las cigarreras en el primer acto, como ejemplo, fue emblemática). Es normal que cuando el publico (por fortuna solo hubo una pequeña pero ruidosa facción) se encuentra desorientado comience a protestar. Pero creo que en el siguiente montaje de esta producción en noviembre del 2010, con Gustavo Dudamel en el podio, algunos censores pronunciaran un “mea culpa”. Anita Rachvelishvili fue un verdadero descubrimiento. La joven georgiana cantó muy bien, con perfecta homogeneidad de timbre, logrando infundir calor y pasión a cada frase. La suya no pareció una Carmen diabólica, y mucho menos una femme fatale, pero si una verdadera mujer que seducía con su fascinación natural. Como Don José, Jonas Kaufmann conquistó por su timbre bronceado y por su insolencia y prestancia en el acento, pero sobre todo porque nos permitió admirar capacidad de frasear sombreando con claroscuros la línea musical (una cosa rara en los tenores en la actualidad). Más ordinario fue el fraseo de Erwin Schrott, un Escamillo que como actor es experimentado.
Un poco incomoda vocalmente estuvo Adriana Damato como Micaela. La intérprete es pálida y su voz pareció no tener los apoyos justos para poder transitar siempre de manera satisfactoria. Sin embargo, su prestación fue en “crescendo” Al final de la representación y pensando en la dirección de orquesta me surge una pregunta: ¿le habría gustado a Nietzsche la Carmen de Daniel Barenboim? Cito a Friedrich Nietzsche porque fue justamente el propio filósofo alemán quien señaló que la obra maestra de Bizet era el justo antídoto para curar el “contagio” wagneriano (al cual ni el mismo permaneció inmune). De hecho aquella ligereza, brillantez solar, y aquella luz “africana” que tanto conmoviera a Nietzsche pareció no estar presente en las cuerdas del director de origen argentino. El peso fónico de los violines y alguna desviación en el tiempo, más lento de lo normal, no hicieron más que hacernos volver hacia el compositor del Ring. El merito de Barenboim, fue el de haber exprimido frecuentemente la partitura dejando aflorar bellezas secretas aunque después, con inusitadas rupturas nos sumergió nuevamente en el clima fatal de la obra (magistral en tal sentido fue la “escena de las cartas”). Aquel crescendo rítmico y dinámico, muy calibrado y envolvente, que en la taberna de Lillas Pastia lleva a un enredo casi infernal tuvo algo de prodigioso. Un conductoCursivar temerario guiando una embarcación que navega segura en una “prima” debe ser algo para enmarcarse.


Sunday, December 20, 2009

Carmen - Teatro alla Scala, Milano

Foto: Anita Rachvelishvili (Carmen) Jonas Kaufmann (Don José)
Credito: Marco Brescia / Teatro alla Scala


Massimo Viazzo

Due le scommesse vinte dal sovrintendente del Teatro alla Scala Stéphane Lissner e da Daniel Barenboim, “maestro scaligero” fino al 2013, per questa importante inaugurazione di stagione. La venticinquenne protagonista Anita Rachvelishvili e la regista siciliana Emma Dante erano, infatti, al loro debutto sulla scena lirica, la prima freschissima reduce dagli studi alla Accademia della Scala, la seconda con esperienze registiche, anche di un certo rilievo, ma solo nell’ambito del teatro di prosa. Ed entrambe hanno convinto! Emma Dante ha mostrato doti fuori dal comune nel saper cogliere la verità scenica senza violentare la drammaturgia del libretto (in questa produzione sono stati anche ripristinati parte degli indispensabili dialoghi parlati). Poco importa se al posto della Spagna l’azione è ambientata nella sua Sicilia, cupa, bigotta, superstiziosa con tutto quell’apparato di processioni, crocifissi, baldacchini, turiboli e incensi. Bandito il folclore oleografico questa Carmen è fatta di fisicità, ritualità, sensualità mediterranea (le sigaraie al bagno restano indimenticabili) e… tante idee. Sarebbe davvero lungo elencarle tutte., e forse neanche sostanziale. E’ sufficiente affermare che Emma Dante è riuscita nell’impresa difficilissima di togliere quest’opera da quei cliché in cui la tradizione l’aveva ormai fatta incancrenire restituendocela viva, carnale, anche violenta (la zuffa tra le sigaraie nel primo atto, ad esempio, resta emblematica). Ed è normale che quando il pubblico (per fortuna solo una piccola, ma rumorosa, frangia) si trova disorientato, inizia a contestare. Ma, credo che già alla prima ripresa di questo allestimento nel novembre 2010 con Gustavo Dudamel sul podio parecchi censori reciteranno un bel “mea culpa”. Anita Rachvelishvili è una vera scoperta. La giovane georgiana ha cantato molto bene, con perfetta omogeneità timbrica, riuscendo ad infondere calore e passione in ogni frase. La sua non è parsa una Carmen diabolica, né tantomeno una femme fatale, ma una donna vera che seduce con il suo fascino naturale. Jonas Kaufmann ha conquistato per il timbro brunito e per la spavalderia e prestanza dell’accento, ma soprattutto lascia ammirati la sua capacità di fraseggiare ombreggiando di chiaroscuri (cosa rara nei tenori di oggi) la linea musicale. Più ordinario il fraseggio di Erwin Schrott (Escamillo), ma l’attore è navigato. Un po’ a disagio vocalmente, invece, Adriana Damato (Micaela). L’interprete è pallida e la voce sembra non avere gli appoggi giusti per poter correre sempre in modo soddisfacente. La sua è stata comunque una prestazione in crescendo. Al termine della recita pensando alla direzione d’orchestra mi è sorta una domanda: sarebbe piaciuta a Nietzsche la Carmen di Daniel Barenboim? Cito Friedrich Nietzsche perché fu proprio il filosofo tedesco ad additare il capolavoro di Bizet come giusto antidoto per guarire dal “contagio” wagneriano (di cui pure lui non ne era rimasto immune). In effetti quella leggerezza, quella solarità, quella luce “africana” che tanto commossero Nietzsche non sembrano essere nelle corde del direttore di origine argentina. Il peso fonico degli archi e qualche stacco di tempo più lento dell’usuale non possono che rimandare proprio al compositore del Ring. Merito di Barenboim è di aver spesso strizzato la partitura lasciando affiorare bellezze segrete salvo poi con strappi inusitati reimmergerci nel clima fatale della vicenda (magistrale in tal senso la “scena delle carte”). E quel crescendo ritmico e dinamico calibratissimo ed avvolgente che nella taverna di Lillas Pastia porta ad una ridda quasi infernale ha del prodigioso. Un timoniere impavido alla guida di una nave che veleggia sicura, per una “prima” da incorniciare!

El Cascanueces (Ballet) - Teatro Municipal de Santiago, Chile

Foto: Teatro Municipal de Santiago

Johnny Teperman

El ballet Cascanueces, cuyo espíritu es volver realidad el sueño de todo niño en Navidad, se está presentando como lo ha hecho a través de las últimas temporadas, en el Teatro Municipal, con funciones durante toda la segunda quincena del mes de diciembre. Debemos considerar, que no sólo es ya una tradición que el Ballet de Santiago, que actualmente dirige Marcia Haydée, presente esta obra en el mes de la Navidad, tal como lo hacen las grandes compañías del mundo, sino que lo haga vistiendo sus mejores galas y con lo mejor de su plana mayor artística de bailarines, músicos y bagaje técnico. Con la bella y conocida música de Piotr Ilych Tchaikovsky, la obra gira en torno a la Navidad de Clara y su hermano Fritz, que junto con recibir regalos, realizan un viaje inolvidable por un mundo de fantasía con atractivos personajes de la mano del muñeco Cascanueces. Son dos actos llenos de magia y fantasía, de una hora cada uno, en los cuales el mejor conjunto de danza clásica del país luce a aus mejores exponentes sobre el escenario, ante un público mayormente infantil que los observa arrobado. Al momento de su creación, Tchaikovsky (1840-1893), tenía 52 años y era famoso como compositor y director en Europa y Estados Unidos. Con toda justicia, es considerado hoy como el compositor de ballet por excelencia por la belleza de sus creaciones y su particular sensibilidad para crear atmósferas. De sus obras musicales, "Cascanueces" es su creación más genial. En la inspirada partitura encontramos temas breves, incisivos, elaborados con habilidad y elegancia y sin embargo, con medios sorprendentemente simples. Y también hay momentos de gran magia que complementan perfectamente los cambios de escena que el ballet requiere. La coreografía es del destacado artista chileno Jaime Pinto (Premio de la Crítica 2003) y fue estrenada en agosto de 2004. Los diseños de escenografía y vestuario son de Pablo Núñez y éstos incluyen detalles asombrosos de una belleza incomparable, que conforman un espectáculo de brillantez.Dentro de la calidad artística expuesta, no podemos dejar de destacar la presencia de algunos solistas, partiendo con el director de la excelente Orquesta Filarmónica de Santiago. José Luis Domínguez y los bailarines Luis Ortigoza como Drosselmeir; José Manuel Ghiso como el Príncipe Cascanueces; Marcela Goicoechea como Reina de la Nieve; Natalia Berríos, como Reina de los Confites (la principal figura de la obra junto con Ortigoza) y Maite Ramírez, como la Reina de la Flores.

Saturday, December 19, 2009

Les Violons du Roy - Carnegie Hall, Nova York

Messiah at Carnegie Hall; Photograph: © 2009 Richard Termine PHOTO CREDIT - Richard TermineCopyright Notice - © 2009 Richard Termine.

Ramón Jacques

Les Violins du Roy è la più importante orchestra da camera della regione del Québec. Fondata nel 1984 dal suo direttore titolare Bernard Labadie il complesso ha adottato il nome della celebre orchestra d’archi di Jean Baptiste Lully che suonava alla corte dei re di Francia nel secolo XVII. Anche se l’ensemble ha un ampio repertorio di brani eseguiti con strumenti moderni, il barocco viene suonato con copie di strumenti originali, con una particolare attenzione stilistica al fraseggio e alla cura interpretativa. L’orchestra, in tournée nel Nordamerica (Montreal, Québec, Los Angeles...) si è esibita presso la mitica Carnegie Hall dove ha incantato con una sublime versione del Messiah di Haendel. Musicalmente si è notato un approccio caldo e omogeneo basato su sonorità ariose e leggere degli archi e un sostegno del clavicembalo molto dinamico, ma anche tenue (a seconda delle necessità). Labadie ha diretto con entusiasmo e abilità e la sua bacchetta incisiva ha sprigionato vitalità e grande varietà. Le parti corali sono state affidate a La Chapelle de Québec, gruppo fondato sempre da Labadie nel 1985, che ha dimostrato di essere un ensemble molto ben amalgamato e coeso in ogni intervento, come in “Glory to God” accompagnato teatralmente da una tromba posta nella parte alta del palco, (chiare le riminiscenze della Water Music), o nel brillantissimo “All we like sheep” o ancora nel giubilante “Alleluja”. Il controtenore David Daniels ha mostrato autorità vocale sfoggiando bruniture timbriche fascinosissime, soprattutto nei suoi momenti migliori come l’aria “O thou that tellest” (accompagnato dal coro) o il solenne “He was despised“. Il soprano gallese Rosemary Joshua molto sensibile e sempre emozionante ha mostrato sicurezza nelle agilità e pulizia nella dizione. Notabile il suo “Rejoice greatly”. La tendenza all’opacizzaione e la debole emissione vocale del tenore lirico Alan Bennett hanno privato la sua prestazione di efficacia e il basso-baritono Andrew Foster Williams è parso un po’ pesante e fuori stile.

Les Violons du Roy - Carnegie Hall de Nueva York

Description - G. F. Handel, The Messiah at Carnegie Hall; Photograph: © 2009 Richard Termine - Copyright Notice - © 2009

Ramón Jacques

Les Violons du Roy es la orquesta de cámara más importante de la región de Québec. Fundada en 1984, por su director titular Bernard Labadie, la orquesta adoptó su nombre de la reconocida orquesta de cuerdas de Jean Baptiste Lully, que tocaba en la corte de los reyes de Francia del siglo XVII. A pesar de que el ensamble ejecuta un amplio repertorio de piezas con instrumentos modernos, el barroco lo hace utilizando replicas de arcos antiguos, buscando siempre la manera estilística, el fraseo, y las practicas de interpretación mas parecidas a las de esa era musical. Como parte de su tournée por Norteamérica (que incluyó a ciudades como: Montreal, Québec y Los Ángeles) la orquesta realizó una presentación en la mítica sala de conciertos del Carnegie Hall de Nueva York, donde ofreció una sublime versión del conocido oratorio El Mesías de Handel. Musicalmente, la orquesta produjo una calida y homogénea armonía basada en la ligereza y airosa sonoridad de su lucida sección de violines, y acompañamiento de clavecín, que fue muy dinámica y tenue, cuando fue necesario. Labadie dirigió su orquesta son entusiasmo y habilidad, y de su incisiva baqueta emanaron las límpidas texturas, vitalidad, y la variedad de la orquestación de Handel. Las partes corales fueron encomendadas a La Chapelle de Québec, agrupación fundada también por el propio Labadie en 1985, y que demostró ser un coro muy “vertiginoso” de amplia unidad y cohesión en cada intervención, destacando su “Glory to God”, que fue acompañado de unas trompetas desde la parte mas alta del escenario, con una resonancia evocadora de la “música acuática” del compositor”, el alegrísimo “All we like sheep”, y como en todo concierto del Mesías, en la parte mas emotiva y jubilosa del “Allelujah”. El contratenor David Daniels, cantó de manera autoritaria y con suntuosa y oscura tonalidad vocal, teniendo su mejor momento en el aria “O thou that tellest” acompañado del coro, así como en la solemne “He was despised“. La soprano galesa Rosemary Joshua, ofreció conmovedora sensibilidad y admirable agilidad y dicción en todas sus partes, notablemente en “Rejoyce greatly”. La tendencia a opacarse y la escasa emisión en la voz del tenor lírico Alan Bennett, privaron su prestación de sentimentalismo y efectividad, y la voz del bajo-barítono Andrew Foster Williams emitió un sonido pesado, y por momentos alejado del estilo.

Thursday, December 17, 2009

Elektra di Strauss - Metropolitan Opera, New York

Foto: Susan Bullock, Evgeny Nikitin, Felicy Palmer © Marty Sohl / Metropolitan Opera©

Ramón Jacques

Il soprano tedesco Hildegard Behrens ha sempre mantenuto una relazione strettissima con questo teatro in cui ha cantato per ben 171 volte. Uno dei ruoli più rappresentativi per lei è stato Elektra di Strauss, sempre nella produzione firmata da Otto Schenk che è stata utilizzata anche questa volta. Per questo motivo, proprio in memoria del grande soprano, scomparsa in agosto, il teatro ha deciso di dedicarle questa rappresentazione. Le scenografie disegnate da Jürgen Ross e Otto Schenk, consistenti in un muro che copriva in lungo e in largo tutta la scena del Met, con una scala al centro che portava ad una porta di legno (l’ingresso di un palazzo), e con l’enorme figura del cavallo di Troia caduto sul palcoscenico, visualmente attraenti per lo spettatore, paiono ormai superate dal punto di vista artistico, ostacolando esse anche il libero movimento dei solisti e di tutti gli artisti sulla scena. I costumi variopinti parevano adatti all’epoca in cui è stata ambientata la vicenda e molto apprezzabile il lavoro alle luci di Gil Weschler che è riuscito ad esaltare i differenti stati d’animo dei protagonisti e la tensione crescente della trama con brillanti cambi, dal rosso al giallo, al bianco e al nero. La regia di David Kneuss, come la maggior parte degli spettacoli tradizionali al Met, è stata sostanzialmente rispettosa del libretto. Venendo all’orchestra, Fabio Luisi ha fatto un lavoro superbo d’accompagnamento, esaltando l’ampia gamma di colori musicali della partitura che va dal lirismo sublime, quando i personaggi esprimono la tenerezza e l’amore, alla dissonanza più atonale quando si attraversano i confini della sanità mentale. La concertazione di Luisi è parsa sicura e l’orchestra ha ben risposto a parte la sezione degli ottoni, molto importante in questa orchestrazione e a volte fuori sincrono. Al suo debutto locale il soprano inglese Susan Bullock si è mostrata completamente immedesimata nel personaggio di Elettra, vulnerabile all’inizio, manipolatrice nel suo incontro con Klitämnestra e patologicamente ossessiva nel finale dell’opera anche se la sua danza estatica di trionfo pareva sovradimensionata. Il suo canto è stato intenso, potente, omogeneo e in grado di “bucare” il sontuoso tessuto orchestrale. Il soprano Deborah Voigt, riconosciuta interprete del repertorio straussiano, ha dimostrato di possedere anche un tono brillante dando profondità e forza drammatica al personaggio di Chrysotemis, reso con autorevolezza. Felicity Palmer ha creato una nevrotica e disturbata Klitämnestra, restituita con la sua gran voce di mezzo-soprano (che però sembrava a volte fuori controllo e un po’ stridente nell’emissione), ma sempre Molto intensa. L’Oreste del basso-baritono Evgeny Nikitin ha soddisfatto il pubblico per la sua adeguata proiezione vocale e il suo stile raffinato mentre il tenore Wolfgang Schmidt ha reso con temperamento il ruolo di Egisto. Corretti i comprimari.

Wednesday, December 16, 2009

Elektra de Strauss - Metropolitan Opera, Nueva York

Fotos: Deborah Voigt, Susan Bullock. Marty Sohl / Metropolitan Opera

Ramón Jacques

La soprano alemana Hildegard Behrens mantuvo siempre una estrecha relación con este teatro ya que se presentó en este escenario en 171 funciones. Uno de los papeles mas representativos que cantó aquí fue precisamente el de Elektra de Strauss, y en la misma producción escénica firmada por Otto Schenk y que fue utilizada en esta velada. Por ese motivo, y en memoria de la gran soprano, fallecida el pasado mes de agosto el teatro realizó un breve homenaje dedicándole esta representación. Las escenografías diseñadas por Jürgen Ross y Otto Schenk, que consisten en un muro que cubre todo lo largo y alto del escenario del Met, con unas escaleras al centro que llevan a unas puertas de madera de entrada a un palacio, y con la enorme figura de un caballo de Troya caído sobre el escenario, proporcionan un atractivo marco visual para el espectador, pero resultaron obsoletas e incomodas desde el punto de vista artístico, ya que obstaculizaron el libre movimiento de los solistas, y demás artistas sobre la escena. Los coloridos vestuarios parecieron adecuados para la época en la que se situó la acción de la obra, y muy notable fue el trabajo de iluminación de Gil Weschler, ya que con sus brillantes cambios de colores rojos, amarillos, negros, blancos y grises, logró captar y exaltar los diferentes estados de animo por los que atraviesan los personajes, así como la: la tensión, la psicología o la decadencia de la trama. La dirección escénica de David Kneuss, como la mayoría de los espectáculos tradicionales del Met, se mantuvo dentro los limites del libreto y la historia. Al frente de la orquesta, Fabio Luisi realizó un inmejorable trabajo de acompañamiento, enalteciendo el amplio rango de colores musicales de la partitura que va del sublime lirismo (cuando los personajes expresan ternura y amor) a la atonal, de disonancia y fuerza, cuando se atraviesan los límites de sanidad mental. La conducción de Luisi fue segura, sin importar que la sección de metales, muy importante en esta orquestación, estuviera poco calibrada y por momentos fuera de sincronización. En su debut local, la soprano inglesa Susan Bullock se mostró ampliamente involucrada con el personaje Elektra, que fue vulnerable al inicio, manipuladora en su encuentro con Clitemnestra, y patológicamente obsesiva al final de la obra, aunque su danza triunfal de éxtasis pareció demasiado sobre dramatizada. Su canto fue intenso, agudo, uniforme y capaz de atravesar el profuso tejido orquestal. La soprano Deborah Voigt, reconocida intérprete del repertorio straussiano, mostró que aun posee una brillante y penetrante tonalidad vocal, y dio profundidad y fuerza dramática al personaje de Crisótemis, con autoritario desenvolvimiento artístico. Felicity Palmer creó una neurasténica y perturbada Clitemnestra, que cantó con su suntuosa y grande voz de mezzosoprano, que sonó fuera de control y estridente en ocasiones, pero con un cierto tinte. El Orestes del bajo-barítono Evgeny Nikitin fue satisfactorio por su adecuada proyección y su refinado estilo musical. El tenor Wolfgang Schmidt fue un efectivo y temperamental Egisto. El resto del elenco cumplió correctamente en sus breves intervenciones.

Entrevista con Giuseppina Piunti (soprano)

Fotos: © Giuseppina Piunti; Le Roy d'Ys - Liege 2008; Edgar - Torino 2008; OPERAdomani s.r.l. ©
Nacida en S.Benedetto del Tronto, Italia, la soprano Giuseppina Piunti complete sus estudios licenciándose en piano y en canto. Después de resultar vencedora de diversos concursos internacionales de canto, debutó en el Teatro Filarmónico de Verona como Alice en la opera Faltaff de Verdi al lado de Renato Bruson. Su prolífica carrera la ha llevado a presentarse en escenarios de Italia en ciudades como: Torino, Roma, Rossini Opera Festival, Trieste, Bologna, Bergamo, Cosenza, Lecce, Palermo Messina, y en el extranjero en ciudades como: Detroit, Lima, Mannheim, Giessen, Wieswaden, Karlsruhe, Wexford Opera Festival, Glyndebourne, Lieja, Montpellier, Nancy, Santander, Toulon, Cordoba. En sus inicios fue una soprano lírica, lírica spinto y cantó papeles en diversas operas como: Boheme, Ballo in Maschera, Attila, Otello, Lucrezia Borgia y en diversas operetas. En los últimos años, y siguiendo el desarrollo de su voz hibrida ha interpretado el repertorio de soprano falcón que incluye personajes tales como: Carmen de Bizet, Charlotte en Werther de Massenet, Elisabetta en Maria Stuarda de Donizetti, Contessa del Poggio en el Giorno di Regno, Margared en Le roi d'Ys di Lalo, Adalgisa en Norma de Bellini y Tigrana en Edgar de Puccini. Giuseppina aceptó conversar sobre su carrera y sus intereses musicales en la entrevista que se ofrece a continuación.
Ramón Jacques
¿Cuando decidiste hacer del canto tu carrera y como fue tu inicio?
Fue hacia los 24 años por una sugerencia de la Maestra M. Michelini de Pescara con quien estaba realizando un perfeccionamiento de piano (yo había obtenido mi diploma algunos años antes. Después, hice una audición con la Maestra Emma Raggi Valentini en Pesaro, para saber que se podría hacer con mi voz. A partir de ahí inicie a estudiar canto y encontré aquello que definió mi verdadera y justa vocación: que fue cambiar de camino y hacer del canto mi vida.

¿Cuál seria la mejor definición actual de tu voz?
Después de un inicio como soprano lírica, lírica spinto hoy estoy orientada hacia la voz de soprano falcón o zwichenfach, si así se puede decir.
A quien no conoce tu voz ¿Qué seria lo primero que le harías escuchar?
Hoy diría que Carmen, Santuzza, Elisabetta en Maria Stuarda, Komponist. Asi diría que se podrían darse una idea sobre cual es mi vocalidad.
¿Quienes son tus modelos de sopranos y de compositores?
Es difícil decirlo, ya que depende de lo que estoy viviendo en el momento o de mi estado de ánimo. Sin embargo, puedo citar algunas del pasado y del presente como: Callas, Verrett, Cossoto, Callas, Troyanos, Urmana y entre los compositores diría: Mozart, Strauss, Verdi, Puccini, Wagner como también Bach, Brahms, Chopin y Debussy.

¿Cuales son tus papeles preferidos?
Al momento son Carmen, Charlotte, Santuzza: de estilos y características muy diversas, pero esto es lo que considero lo bello de mi trabajo ¿no?
¿Existe alguna opera que te haya marcado profundamente?
A parte del papel de mi debut con el cual me gane una beca de estudio, que fue Alice en Falstaff, estoy muy ligada a Mimi, que ha representado mi pasaje al empeño técnico, físico, emotivo que un papel principal requiere.

Si se te diera la oportunidad de elegir las operas que quisieras cantar, ¿cuales serian los títulos que elegirías?
Don Carlo: ya que quisiera debutar Eboli, y también Tannhauser porque me gustaría entrar en el mundo wagneriano, quizás primero con una Venus.

¿Consideras que el mundo de hoy tiene necesidad de la opera?
!Claro que si! Porque la opera permanece siendo un espectáculo absoluto, y el más completo.
Cual es tu recuerdo más importante sobre un escenario?
No podría elegir uno, ya que cada debut ha sido importante a su manera, y después existe el encuentro con grandes maestros, con directores de escena, y talentosos colegas, por lo tanto se adquiere enriquecimiento y madurez de cada experiencia.
¿Que nos puedes decir sobre tu carrera tienes algún sueño?
Espero poder un espacio como especialista del repertorio que estoy cantando y quizás con el paso de los años pueda mostrarle a mis nietos fotos de una larga carrera en la que haya pasado por tantos y tan diversos lugares, y poder contarles de la veces que cante en la Scala o en el Metropolitan.


Intervista a Giuseppina Piunti (soprano)

Foto: © Giuseppina Piunti; Edgar- Torino; Norma-Bologna 2008; The Servant - Macerata 2008; OPERAdomani s.r.l. ©

Nata a S.Benedetto del Tronto, Giuseppina Piunti completa gli studi musicali diplomandosi in pianoforte e canto. Dopo la vittoria in diversi concorsi lirici internazionali, debutta al filarmonico di Verona come Alice nel Falstaff verdiano accanto a Renato Bruson. Ha intrapreso una carriera che l'ha portata a cantare in Italia (Torino, Roma, Rossini Opera Festival, Trieste, Bologna, Bergamo, Cosenza, Lecce, Palermo Messina) e all'estero (Detroit, Lima, Mannheim, Giessen, Wieswaden, Karlsruhe, Wexford Opera Festival, Glyndebourne, Liége, Montpellier, Nancy, Santander, Tolone, Cordoba). Dapprima soprano lirico, lirico spinto ha cantato in Boheme, Ballo in Maschera, Attila, Otello, Lucrezia Borgia così pure come in diversi titoli d'operetta. Negli ultimi anni assecondando lo sviluppo della sua vocalità ibrida affronta un repertorio da soprano falcon. E' stata quindi Carmen di Bizet, Charlotte in Werther di Massenet, Elisabetta in Maria Stuarda di Donizetti, Contessa del Poggio nel Giorno di Regno, Margared ne Le roi d'Ys di Lalo, Adalgisa nella Norma di Bellini nonché Tigrana nell'Edgar pucciniano. In questa intervista Giuseppina ha accettato amabilmente di conversare sulla sua carriera e suoi interessi musicali.
Ramón Jacques

Quando hai deciso di fare del “canto” la tua carriera e come hai iniziato?
Verso i 24 anni , dietro suggerimento della Maestra M. Michelini di Pescara, presso la quale stavo seguendo un perfezionamento pianistico ( mi ero diplomata qualche anno prima), feci un'audizione con la Maestra Emma Raggi Valentini a Pesaro per sapere cosa potevo fare della mia voce. Di lì a poco iniziai a studiare canto ed ebbi quella che definisco una vera e propria vocazione: cambiare strada e fare del canto la mia vita.

Come definiresti oggi la tua voce?
Dopo un inizio da soprano lirico, lirico spinto oggi sono orientata verso il soprano falcon o zwichenfach, che dir si voglia.

A chi non conoscesse la tua voce, cosa le faresti ascoltare?
Oggi direi Carmen, Santuzza, Elisabetta (Maria Stuarda), Komponist… si, direi che così ci si potrebbe fare un'idea della mia vocalità.
Chi sono i tuoi modelli, sia come soprani che come compositori?
Difficile dire...dipende ..da ciò che sto vivendo in quel momento o dal mio stato d'animo... Comunque per citare qualcuna, fra passato e presente, Callas, Verrett, Cossotto, Troyanos, Urmana e fra i compositori Mozart, Strauss, Verdi, Puccini, Wagner ma anche Bach, Brahms, Chopin, Debussy.

I tuoi ruoili preferiti?
Al momento Carmen, Charlotte, Santuzza : stili e caratteri diversissimi...ma questo è il bello del mio lavoro..no?

Se dovessi dire un’opera che ti ha profondamente segnata quale citeresti?
A parte il mio debutto quale vincitrice di borsa di studio come Alice in Falstaff, sono molto legata a Mimì...ha rappresentato il mio passaggio all'impegno tecnico, fisico, emotivo che un ruolo principale richiede.

Se ti fosse data l’opportunità di scegliere le opere che vorresti cantare, su quali titoli andrebbe la tua scelta?
Don Carlo: vorrei debuttare Eboli e anche Tannhauser, mi piacerebbe entrare nel mondo wagneriano, magari con una Venus.
Il mondo oggi, ha bisogno dell’opera?
Certo che si ! L'opera resta lo spettacolo assoluto, il più complete.


Qual è il tuo ricordo più importante sul palcoscenico?
Non posso sceglierne uno.. Ogni debutto è stato importante a modo suo, e poi gli incontri ,con grandi Maestri o bravi Registi,o talentuosi Colleghi, si riparte arricchiti , maturati da certe esperienze.

E la tua carriera futura? Un sogno nel cassetto?
Spero di riuscire a ritagliarmi un mio spazio come specialista di questo repertorio e magari, in là con gli anni ,poter mostrare ai miei nipoti le foto di una lunga carriera in tanti posti diversi e raccontare di quella volta che cantai alla Scala o al Met.



Tuesday, December 15, 2009

Šárka de Janáček / Cavalleria Rusticana de Mascagni - Teatro La Fenice, Venecia

Foto: Šárka de Janáček - Cavalleria Rusticana de Pietro Mascagni. © Michele Crosera ©

Massimo Viazzo

La idea de desmembrar el mas famoso “díptico” de todo el melodrama operístico se realizó en esta producción que unió a Cavalleria Rusticana de Pietro Mascagni con Šárka de Janáček, teniendo esta ultima opera su primera representación italiana en Venecia. En referencia a la extravagante combinación de la temporada pasada (Schönberg y Leoncavallo con sus respectivas operas Von Heute auf Morgen y Pagliacci), la relación entre Mascagni y el gran compositor bohemio pareció tener una lectura mas inmediata. En ese sentido, en el programa de mano se incluyó la celebre reseña del estreno de Cavalleria en Brno en 1892, que fue escrita por el “critico musical” Leoš Janáček, en la que mostró una admiración incondicional (y sorprendente) hacia el compositor toscano. Así como Cavalleria fue también amada por Gustav Mahler, la opera al día de hoy parece un poco marcada por su excedido verismo, y los interpretes de esta poco convencional producción, firmada por Ermanno Olmi (con una gigantesca y notable cruz, opresora, de gran efecto y esculpida con talento e inspiración futurista por Arnaldo Pomodoro, que invadió el escenario vacío mientras que las cortinas al fondo eran iluminadas de manera monótona) no supieron excluir viejos estereotipos. Así, los dos protagonistas Anna Smirnova y Walter Fraccaro basaron su interpretación sobretodo en un plano muscular, reservándose los matices en el fraseo y la variedad en el acento. Poco seductora estuvo Elizabetta Martorana como Lola, y tampoco Angelo Veccia pudo iluminar particularmente la parte de Alfio. Al final, Bruno Bartoletti, no impuso una lectura verdaderamente personal, y así, la opera llegó al final regalando muy pocas emociones. Šárka fue iniciada en 1887 para después ser olvidada por su propio compositor (después de la prohibición impuesta para ponerle música por el autor del drama en el que se inspiró el libreto). Pero cuando Šárka reapareció imprevistamente en los años 20 del siglo XX, Leoš Janáček, que ya era reconocido, pensó que finalmente le había llegado su tiempo y después de haberle efectuado algunos retoques a la conducción de la línea melódica, le encargó a un alumno suyo orquestar el ultimo acto, mientras el se ocupaba personalmente de la producción. La opera musicalmente es seductora, y Šárka es una suerte de walkiria bohemia que quiere vindicarse con un mundo ya en manos de los hombres después de la muerte de Libuše (figura mítica inmortalizada en la obra maestra operística de Smetana). Pero sería justamente un hombre, Ctirad, quien la hizo caer hiriéndola emotivamente. Šárka después de haberle tendido una emboscada y de haberle sentenciado a muerte buscó el extremo abrazo (con Ctirad ya en ese momento un cadáver) perforándolo para después tirarse desesperada en una hoguera (casi wagneriana), sellando así, el último acto de esta pequeña obra maestra. Ermanno Olmi eligió la vía de la realización casi de oratorio. La dirección escénica no operó directamente sobre el movimiento de los cantantes o de la masa coral (coro, que sobretodo en la parte femenil no estuvo en forma perfecta), y donde las poses no fueron por de mas estatuarias en la búsqueda de una solemnidad épica que pareció bien definida en el ultimo cuadro. Aun así, Bruno Bartoletti no se dejó seducir por la magia de los colores de la partitura ni mucho menos de la sensualidad que derrama en muchas de sus páginas, realizando en conjunto una interpretación poco, prudente como para realmente envolver. Una sorpresa positiva fueron los dos protagonistas: el tenor Andrea Carè (Ctirad) con voz de interesante esmalte en el timbre y la soprano Christina Dietzsch (Šárka) que se mostró a sus anchas, sobretodo en las partes más líricas. Un poco estentóreo estuvo Mark Doss en el papel de Přemysl y no más que correcto Shi Yijie (Lumír) quien tuvo la responsabilidad de dar inicio a la conmovedora plegaria final.


Šárka di Janáček / Cavalleria Rusticana di Mascagni- Teatro La Fenice, Venezia

Foto:© Šárka di Janáček, Cavalleria di Mascagni
Michele Crosera©

Massimo Viazzo

L’idea di smembrare il “dittico” più famoso di tutto il melodramma giunge a compimento con questo allestimento incrociato di Cavalleria Rusticana di Pietro Mascagni e Šárka di Janáček quest’ultima qui a Venezia in prima rappresentazione italiana. Rispetto alla stravagante accoppiata della scorsa stagione (Schönberg e Leoncavallo con i rispettivi Von Heute auf Morgen e Pagliacci), la relazione tra Mascagni e il grande compositore boemo pare di più immediata lettura. In tal senso nel programma di sala viene pubblicata la celebre recensione del debutto di Cavalleria a Brno nel 1892 scritta dal “critico musicale” Leoš Janáček da cui traspare un’ammirazione incondizionata (e sorprendente) verso il compositore toscano. Ma tant’è, Cavalleria Rusticana fu amata anche da Gustav Mahler… L’opera oggi appare un po’ datata nel suo verismo sovrabbondante e gli interpreti di questa produzione un po’ convenzionale firmata da Ermanno Olmi (una gigantesca croce opprimente e svettante - peraltro di grande effetto, scolpita con estro futurista da Arnaldo Pomodoro - invade il palcoscenico vuoto, mentre i fondali paiono illuminati un po’ monotonamente) non hanno saputo sottrarsi a vecchi stereotipi. Così i due protagonisti Anna Smirnova e Walter Fraccaro impostano la loro interpretazione soprattutto su un piano muscolare lesinando sulle sfumature di fraseggio e sulla varietà d’accento. Non molto seducente la Lola di Elisabetta Martorana e neanche Angelo Veccia è riuscito ad illuminare particolarmente la parte di Alfio. Bruno Bartoletti, infine, non ha imposto una lettura veramente personale e così l’opera è arrivata in fondo regalando pochissime emozioni. Šárka fu iniziata nel 1887 per poi essere dimenticata dallo stesso compositore (dopo il divieto di tradurla in musica posto dall’autore del dramma a cui si ispira il libretto). Ma quando Šárka ricomparve improvvisamente negli anni ’20 del Novecento Leoš Janáček, ormai notissimo, pensò che era finalmente arrivato il suo tempo e così dopo aver effettuato ritocchi sulla conduzione della linea melodica, incaricò un allievo di orchestrare l’ultimo atto e ne curò in prima persona l’allestimento. L’opera musicalmente è seducente: Šárka è una sorta di walkiria boema che vuole vendicarsi contro un mondo ormai caduto nelle mani degli uomini dopo la morte di Libuše (figura mitica immortalata nel capolavoro operistico di Smetana). Ma sarà proprio un uomo, Ctirad, a farla cadere, trafiggendola emotivamente. Šarka, dopo avergli teso un’imboscata ed averne sentenziato la morte cercherà l’estremo abbraccio (con uno Ctirad ormai cadavere) trafiggendosi per poi gettarsi, disperata, su quella pira (quasi wagneriana) che suggella l’ultimo atto di questo piccolo capolavoro. Ermanno Olmi sceglie la via della realizzazione quasi oratoriale. La regia non opera direttamente sul movimento dei cantanti o delle masse corali (coro -soprattutto la sezione femminile- non in perfetta forma), ma le pose sono per lo più statuarie nella ricerca di una solennità epica che pare ben definita nell’ultimo quadro. Ma Bruno Bartoletti non si lascia sedurre dalla malia dei colori della partitura né tantomeno dalla sensualità che trabocca da molte pagine realizzando nel complesso un’interpretazione troppo prudente per essere veramente coinvolgente. Sorprese positive, invece, dai due protagonisti, il tenore Andrea Carè (Ctirad) dalla voce di interessante smalto timbrico e il soprano Christina Dietzsch (Šárka) a suo agio soprattutto nelle parti più liriche. Un po’ stentoreo, invece, Mark Steven Doss nei panni di Přemysl e non più che corretto Shi Yijie (Lumír) che ha la responsabilità di dare l’avvio alla commovente preghiera finale.

Il Trittico de Puccini - Metropolitan Opera, Nueva York

Foto: Alessandro Corbelli (Gianni Schicchi), Patricia Racette (Suor Angelica). Ken Howard / Metropolitan Opera.

Ramón Jacques


Los tres personajes principales femeninos en “Il Trittico” de Puccini poseen cualidades actorales y vocales tan diversas que en la actualidad es poco común ver a una sola cantante interpretar a los tres en una sola representación. Pero esta situación ocurrió en la reciente reposición de esta trilogía operística en el Metropolitan, con la soprano americana Patricia Racette, quien posee las optimas cualidades vocalides y los dotes artisticos necesarios para interpretar a los personajes dramáticos puccinianos (como ya lo ha hecho en el pasado con Manon Lescaut, Tosca, y con el que se ha convertido en su especialidad Madama Butterfly). Vocalmente el color de su timbre es grato, y su voz es homogénea en cada registro. Esta situación quedo mejor evidenciada en su convincente interpretación de Suor Angelica, donde se le notó completamente involucrada con el personaje y donde su técnica vocal se mostró más segura y efectiva, particularmente en el aria “Senza mamma” donde pudo comunicar sentimientos y conmover. Por otra parte, su Giorgietta, fue solo correcta en lo vocal y lo escénico, y su Lauretta fue discreta, porque aquí su voz sonó pesada y por que mostró evidentes señas de fatiga. En Il Tabarro, participaron tambien: el tenor Salvatore Licitra, quien dio vida a un viril y autoritario Luigi con robusta entonación y volumen en su canto; y el barítono Željko Lučić que como Michele apostó solo por la fuerza y violencia de su emisión. La mezzosoprano Stephanie Blythe tuvo una destacada y generosa participación como Frugola. (Así como también lo hizo interpretando correctamente a la princesa en Suor Angelica y a Zita en Gianni Schicchi).
En la opera Gianni Schicchi, el papel estelar fue encomendado a Alessandro Corbelli quien dio vida a un divertido charlatán, porque es un cantante apto para este tipo de papeles, por su habitual carácter burlesco y jovial, y por su canto uniforme y pastoso. El tenor Saimir Pirgu, tuvo un esplendido debut en el Met como Rinuccio, por su luminosa y lírica voz de grato y calido timbre, elegante en el fraseo y la proyección. En escena se mostró artísticamente activo, dinámico y actuó con naturalidad. En el podio, Stefano Ranzani, concertó con gusto y entusiasmo, extrayendo la musicalidad y la tensión contenida en la partitura con mano segura. Finalmente un reconocimiento a la producción escénica, vista por primera vez en este escenario en el 2007, de Jack O’Brien (director de escena) y Douglas Schmidt (diseñador) que fue una majestuosa estampa llena de realismo, que ocupó todo el enorme espacio escénico del teatro, y que situó las tres operas en el siglo XX. Fue agradable ver el enorme barco al lado del río Sena, con Paris al fondo en Il Tabarro; el monasterio de Suor Angelica; y la opulenta mansión de Buoso Donati, con Florencia al fondo, en Gianni Schicchi. Esta costumbre de presentar producciones escénicas enormes y vistosas corresponde al Metropolitan de administraciones pasadas, y que desafortunadamente va a ir desapareciendo lentamente.

Il Trittico di Puccini - Metropolitan Opera, New York

Foto: Alessandro Corbelli (Gianni Schicchi), Patricia Racette (Suor Angelica). Ken Howard / Metropolitan Opera.

Ramón Jacques

I tre personaggi femminili de “Il Trittico” possiedono qualità drammatiche e vocali tanto differenti che attualmente è poco comune vedere una sola cantante interpretarli tutti e tre nel corso della stessa rappresentazione. Ma un caso simile è occorso nella riproposta recente al Met con il soprano americano Patricia Racette, che possiede un’ottima vocalità e le doti attoriali necessarie per interpretare i personaggi pucciniani (come ella ha già fatto nel passato con Manon Lescut, Tosca e Madama Butterfly, quest’ultima divenuta una sua specialità). Vocalmente il colore timbrico è piacevole e la sua voce è omogenea in ogni registro. E ciò lo si è notato al meglio in Suor Angelica dove si è immedesimata completamente con il personaggio e la sua tecnica vocale si è mostrata salda ed efficace, particolarmente in “Senza mamma” dove ha potuto comunicare sentimento e commuovere. Invece la sua Giorgetta è stata solo corretta sia vocalmente che sulla scena, e Lauretta discreta per una certa pesantezza del mezzo vocale in rapporto con la vocalità richiesta dal personaggio (e anche per i segni di una evidente affaticamento). Nel Tabarro ha convinto Salvatore Licitra che ha dato vita ad un Luigi virile e autoritario, di robusta intonazione e volume. Invece il baritono Željko Lučić, come Michele ha messo in mostra un canto solo muscolare e poco sfumato. Il mezzosoprano Stephanie Blythe ha dato una generosa partecipazione come Frugola (così come ha interpretato correttamente la Zia Principessa e Zita).
Gianni Schicchi è stato impersonato con divertita ciarlanateria da Alessandro Corbelli, adatto a questo tipo di ruoli di carattere burlesco e gioviale, con una voce omogenea e pastosa. Il tenore Saimir Pirgu ha fatto uno splendido debutto al Met come Rinuccio, con una voce lirica e luminosa di timbrica suadente, elegante nel fraseggio e nella proiezione. In scena si è mostrato attivo e dinamico, ma sempre con naturalezza. Sul podio Stefano Ranzani ha concertato con gusto ed entusiasmo estraendo con mano sicura musicalità e tensione dalla partitura. Infine un bravo va per l’allestimento scenico (creato nel 2007) al regista Jack O’Brian e a Douglas Schmidt, la cui maestosa scenografia molto realistica che occupava tutto lo spazio del palcoscenico proiettava lo spettatore nel XX secolo (con l’enorme barcone a lato della Senna a Parigi, il monastero di Suor Angelica e l’opulenta magione di Buoso Donati). Ma questa esuberanza scenica corrisponde ad un Met del passato che lentamente sta scomparendo.