Laura Aikin: «Lulu non morde…»
Massimo Viazzo
Laura Aikin ritorna alla Scala, teatro in cui tutto sommato non ha cantato moltissimo (pur risiedendo con la famiglia nei dintorni di Milano). Ricordo un’esuberante Zerbinetta (Ariadne auf Naxos) sotto la direzione del compianto Sinopoli, una Marzelline pepata (Fidelio) diretta da Riccardo Muti e una toccante Costance (Dialogue des Carmélites) sempre con Muti. Ora è la volta di Lulu, un ruolo che fa tremare le vene e i polsi…
Come è nata la Sua storia musicale con Lulu? Un coup de foudre o è stata aiutata dall’analisi della partitura? Oppure, ancora, un suggerimento da parte di qualche amico…
Ho iniziato a studiare Lulu nel 1995 in primo luogo per capire se il ruolo mi poteva interessare, impiegando, poi, tre mesi per mandarla a memoria aiutata da un’amica pianista di Berlino. Per meglio comprendere lo sviluppo del personaggio abbiamo deciso di partire dall’analisi delle strutture musicali: un lavoro duro, ma affascinante! Dopo, nel 1997, fui invitata dalla Staatsoper di Berlino e lì ho debuttato. Quella di Peter Stein (in scena alla Scala dal 6 aprile, nrd.) è la mia quinta produzione. La musica del ‘900 mi ha sempre incuriosita e l’ho cantata spesso anche perché mi piace da morire affrontare la sfida per impararla. Trovo, inoltre, che ci sia una certa libertà quando si canta qualcosa fuori dal repertorio tradizionale. Nessuno può sentenziare, ad esempio: «si deve cantare così»… Mi sento più libera e il pezzo diventa più mio. E Lulu è stata mia fin dal primo giorno. Anche il suo carattere mi attrae. Ho elaborato nella mia testa tutta una storia sulla sua vita: come era da bambina, la sua nascita, la madre… Così quando sono in scena e metto le sua pelle sopra la mia, respiro con il suo corpo, amo con il suo cuore, canto la sua anima. Ho 5 sorelle, sono la più piccola, e ci sono sempre stati piccoli «drammi» familiari a casa mia. Comprendo piuttosto bene il modo di pensare delle donne innamorate e disperate. Non ho bisogno che nessuno mi dica come ragionano le donne…
Lulu è considerata alle nostre latitudini un’opera ancora ostica. Cosa può dire agli appassionati per invogliarli a venire alla Scala, dove il capolavoro di Alban Berg manca, tra l’altro, ormai da trent’anni…
Questa musica è così piena di passione che mi vengono i brividi a pensarlo. Il plot è quello di un noir in cui si alternano momenti grotteschi ad altri tragici, ma sempre con grande passione. Io amo Berg perché è capace di esprimere i colori dell’amore in così tante forme. Venite, non abbiate paura, Lulu non morde! Forse un pochino… ma non fa male!
Come si studia un ruolo così arduo e faticoso?
Intanto devo dire che fisicamente bisogna essere al top, e non intendo solo l’aspetto fisico… Devo usare tutta la mia esperienza per dosare al meglio le forze in un ruolo che è una vera ed estenuante maratona.
C’è qualcosa di Lulu in Laura Aikin?
Tanto! Non ho vissuto, naturalmente, tutte le situazione estreme di Lulu, ma capisco la sua passione, la sua disperazione, capisco la violenza mascherata come amore, capisco il dolore, e so come difendermi. Un’attrice non ha bisogna di uccidere qualcuno per recitare nella parte di un’assassina. Basta capirne le motivazioni: gelosia, disperazione, paura, rabbia. Quelle fanno parte della vita di tutti i giorni…
Lulu è un’opera per cantanti o, vista la sua complessità strutturale, è un’opera soprattutto per il direttore d’orchestra, che in questo caso sarà Daniele Gatti?
Bisogna lavorare in team. Certo, il direttore d’orchestra resta la figura centrale. Noi abbiamo senz’altro bisogno di lui e Lulu è una sfida molto impegnativa per le bacchette anche più smaliziate. Ho cantato da poco Lulu Suite con il M° Gatti e sono rimasta molto impressionata dal calore con cui l’ha diretta. Bellissimo!
Questa è la Sua ennesima produzione di Lulu,,un’opera con la quale Lei si è ormai identificata (taglio capelli alla Louise Brooke compreso!). Quanto tempo impiega a rimetterla «in voce»?
Una settimana, come per tutti i miei ruoli. Non sono sicura esattamente di quante volte io l’abbia cantata... non ho mai contato.... direi 50 volte, non di più.
C’è un allestimento che Lei ha particolarmente amato?
Quello di Zurigo per l’armonia che aveva regnato fin dall’inizio. Sven-Eric Bechtolf, alla sua prima regia d’opera, rimase conquistato dal mio modo di vedere il personaggio e lo adottò. E Franz Welser-Möst respirava con noi… Ma anche la produzione di Stein (creata l’anno scorso a Lyon, ndr.) la amo molto, innanzitutto perché recupera il terzo atto e, in secondo luogo, per l’estrema fedeltà al dettato drammaturgico dell’autore. Stein non pone interrogativi. Il pubblico viene completamente inghiottito dal dramma, scenograficamente molto chiaro, preciso e forse molto più umano.
Oggi le orecchie del pubblico sono più esercitate nei confronti della musica del XX° secolo. E non é scontato, come dicevo prima, avere l’opportunità di vedere Lulu in una produzione così lineare, in cui è l’anima dei personaggi ad emergere. Stein non ha paura di raccontare. Tanti registi impongono la loro interpretazione impedendo all’opera di parlare da sé. Stein non ha senz'altro fatto questo. E credo che con Daniele Gatti sul podio sarà davvero una Lulu da non perdere!"
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