
Massimo Viazzo
Durante la “ripresa” nel primo movimento della Sonata op.31 n.2 ci sono un paio di recitativi la cui pedalizzazione originale ha messo in difficoltà schiere di giovani pianisti. E’ chiaro che il pianoforte si è evoluto. La “risonanza” ai tempi di Beethoven non può essere equiparata a quella che si ottiene oggi col pedale destro di uno Steinway Grancoda. Si tratta di una decina di battute in cui il pedale dovrebbe essere tenuto giù ininterrottamente, con l’inevitabile rischio, data la fluidità armonica, di minare la chiarezza del dettato musicale. Ebbene, la cifra tecnico-espressiva dell’interpretazione del grande pianista milanese nel primo recital del suo “progetto” scaligero va ricercata proprio qui. Usando il pedale in modo virtuosistico, e anche illusionistico, giocando con le risonanze (e le dissonanze!), Maurizio Pollini è riuscito a creare la percezione di un mondo “altro”, un mondo sonoro primigenio, quella pangea originaria sulla quale la spoglia melodia della mano destra stagliandosi, quasi galleggiando, prendeva vita. Ma anche l’inizio della “Tempesta”, il celebre arpeggio di la maggiore, mai l’abbiamo sentito così in pianissimo nascere dal silenzio, quasi un primo vagito, forse l’inizio della musica stessa? Chissà… Certo che Pollini dopo un interpretazione molto rigorosa, dritta come un fuso, ma non scevra di piccole ed entusiasmanti variazioni agogiche -vedi il piccolo rubato tra le prime due note del secondo tema del primo movimento- farà ripiombare la musica, siamo alle ultime battute della sonata, nel silenzio dell’assoluto con un impalpabile arpeggio di re minore sfuggente e quasi indistinto, risonante nell’infinito.

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