Tuesday, May 10, 2011

Turandot di Puccini - Teatro alla Scala, Milano.

Foto: Marco Brescia & Rudy Amisano

Roberta Pedrotti


Il teatro è un luogo profondamente giusto: quali che siano i motivi, di merito o meno, che portano gli artisti ad esibirsi sarà sempre e solo l'effettiva qualità e capacità a parlare sul palcoscenico. Non è un luogo egualmente democratico, poiché le gerarchie sono rigorose e perché in genere si riconosce sempre una personalità intorno alla quale verte l'intera produzione. Questa dovrebbe coincidere con la sintonia fra regista e concertatore, cui spetta d'imprimano unità d'intenti e coerenza d'intenzioni a tutta la compagnia. Più raro, e a rischio di un assieme sbilanciato, il protagonismo assoluto di un divo, che comunque dovrebbe sempre rientrare in un disegno comune secondo sotto la guida dei responsabili e coordinatori della lettura scenica e musicale anche in considerazione delle caratteristiche dei singoli artisti. Nel caso di questa Turandot scaligera, purtroppo, è proprio una guida forte e sicura che è venuta a mancare a causa dell'alternanza sul podio fra Valery Gergiev e Daniele Callegari, l'uno responsabile delle otto recite di aprile, sostenute dopo aver presenziato a pochissime prove, l'altro in cartellone per le quattro date di maggio. Ascoltando proprio la seconda rappresentazione affidata al direttore milanese l'impressione nettissima è stata proprio quella di una Turandot senza personalità, una Turandot che in realtà non appartiene a nessun concertatore, forse proprio perché ne ha avuti troppi. L'impronta più tardoromantica che novecentesca ci fa riconoscere la predilezione di Callegari per il repertorio italiano verdiano e postverdiano, ma purtroppo l'idea è solo abbozzata e la sensazione resta quella di una produzione di routine nella quale la principale preoccupazione resta quella di arrivare al termine senza troppi problemi. Qualche incidente di percorso si verifica (per esempio in “Non piangere Liù” orchestra e tenore prendono strade diverse), ma soprattutto una partitura di tale ricchezza e complessità è risolta in un tono di generale uniformità dove non spiccano gli interventi delle maschere, privi della necessaria verve ficcante, né altrove si effonde il necessario abbandono espressivo. Così una pagina forse non abbastanza apprezzata, ma in realtà splendido esempio della nostra cultura operistica nei primi decenni del XX secolo, il duettone finale di Alfano, risulta la più penalizzata: “O fiore mattutino” è staccato con un tempo rapido piuttosto sbrigativo e intonata con eguale indifferenza e mancanza di sensualità da Stuart Neill; affidato a Lise Lindstrom il Primo pianto è tutto spigoli e asprezza. Lo sciogliersi all'amore della Principessa di gelo dovrebbe essere il nodo fondamentale dell'opera, quello stesso che Puccini non riuscì a risolvere – e chissà se l'avrebbe fatto se fosse vissuto qualche anno in più; purtroppo invece vengono qui al pettine tutti i problemi di questa produzione e il duetto scivola nella totale assenza di emozioni. La Lindstrom, che peraltro ha bella presenza scenica ed è visivamente una Turandot ideale, assai convincente anche come attrice, vanta una buona facilità in acuto, per natura sicuro e penetrante, d'un metallo la cui freddezza ben s'attaglia al ruolo, ma non è altrettanto solida nel centro e nel grave, dove ricorre facilmente al parlato (“La speranza che delude sempre”, che dovrebbe invece esser icastico e terribile), e soprattutto incontra difficoltà con ogni frase legata, vuoi nel citato Primo pianto, vuoi in “Principi che a lunghe carovane”, risolvendo in una linea dura e frastagliata una parte concepita per una cantante di solidissime basi belcantistiche come la grande Rosa Raisa e affidata nei primi tempi soprattutto a grandi voci di scuola e di stile italiano.
Allo stesso modo Calaf esigerebbe maggiore morbidezza, maggiore varietà espressiva e dinamica di quelle esibite da Stuart Neill, tenore robusto che affronta ogni nota con forza (giusto gli acuti estremi della parte risultano un po' stretti e spinta proprio a causa di quest'emissione): lo fa con sicurezza, ma pensiamo che cantare significhi anche legare e fraseggiare, la voce inoltre ha corpo ma poca punta e poco squillo. La migliore in campo risulta così la giovane Maija Kovalevska, buon timbro e buona emissione nei centri, cui si consiglia soprattutto di lavorare sulle dinamiche e sulla mezzavoce per evitare che le arie di Liù scivolino nella monotonia di un unico mezzoforte. Ci delude invece il terzetto delle maschere, che pure allinea nomi che dovrebbero esser di garanzia (Angelo Veccia Ping, Luca Casalin Pang e Carlo Bosi Pong), ma nei fatti passa piuttosto inosservato senza rivelare né la brillantezza né la maliosa nostalgia di cui i Ministri sono portatori. Completano il cast il Timur di Marco Spotti, l'Altoum di Antonello Ceron, le ancelle di Maria Blasi e Barbara Lavarian, il principe di Persia di Jaeheui Kwon. Per tutti vale poi l'osservazione della scarsa proiezione delle voci, spesso sovrastate dall'orchestra o comunque in difficoltà a correre in sala, cui facevano eccezione praticamente solo la Kovalevska e gli acuti della Lindstrom. Purtroppo della Scala dopo il restauro non si è potuta apprezzare troppo l'acustica, l'orchestra, già naturalmente privilegiata, era spesso sovrastante e in molti casi abbiamo riscontrato limiti tecnici negli interpreti in palcoscenico. Non aiutava nemmeno l'allestimento di Giorgio Barberio Corsetti (coadiuvato da Cristian Taraborrelli per le scene e i costumi), sia perché dal punto di vista acustico il palcoscenico aperto con quinte parallele al boccascena risulta decisamente dispersivo (senza inconvenienti estetici sarebbe bastato cercare di inclinare le quinte per avere almeno un abbozzo di cassa di risonanza), sia perché sotto il profilo drammaturgico non era retto da un'idea forte che desse allo spettacolo quell'identità che il podio non è riuscito a dargli. L'opera è un sogno di Calaf, che troviamo accoccolato in proscenio al levar del sipario e lì lasciamo al suo calare. Oltre questo il nulla.
Un nulla popolato da abili funamboli, da tre mimi servi e doppi di Ping Pong e Pang (presenza ingombranti e stucchevoli, a dire il vero, per la coreografia di Ricky Sim), da proiezioni in chroma key (ormai marchio di fabbrica di Barberio Corsetti in collaborazione con Pierrick Sorin, anche a rischio di ripetitività) che hanno un effetto surreale da cartone animato o da technicolor anni '50 poco intonato con l'impianto ligneo di una scena piuttosto sobria, cui avrebbe giovato un più attento disegno luci (qui firmate da Frabrice Kebour). Soprattutto nel terzo atto, quando il palcoscenico resta praticamente sempre nudo sarebbe stato necessario pensare a qualche effetto luminoso per dare un'anima a questa azione. Invece, una volta riconosciuto, nei primi due atti, un abile uso dello spazio, con il continuo saliscendi di ponti mobili a creare e dissolvere gli ambienti, non resta nulla da dire della recitazione, decisamente trascurata, con cadute risibili come la scena degli enigmi, dove i commenti dei dignitari e le strette di mano di Calaf al popolo che lo sostiene ricordano immagini da reality show. Allora però si abbia il coraggio di fare una Turandot decisamente, ironicamente “televisiva” e postmoderna, non una Turandot tradizionale nell'impianto (alcuni costumi son davvero belli) senza però sapere alla fine che strada imboccare. Un dato però è confortante e dovrebbe far riflettere: il teatro è pieno all'inverosimile, il pubblico assai eterogeneo con molte presenze giovani. È una recita dedicata alle famiglie e agli under 30, è una pomeridiana domenicale, prova significante che non solo la politica di promozione funziona, ma anche che la Scala dovrebbe venire incontro al pubblico e programmare regolarmente, come tutti gli altri grandi teatri, recite pomeridiane nei fine settimana.

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