Sunday, September 29, 2024

L'Orontea di Antonio Cesti - Teatro alla Scala

Foto: Vito Lorusso

Massimo Viazzo

Nell’ambito del collaudato progetto di mettere in scena annualmente un’opera barocca, il Teatro alla Scala ritorna al ’600 proponendo uno dei titoli più importanti e più rappresentati dell’epoca, L’Orontea di Antonio Cesti (1623-1669), la cui première ebbe luogo a Innsbruck nel febbraio del 1656. L’Orontea, a differenza di molti altri lavori coevi nati con finalità allegoriche e celebrative per magnificare e lodare principi o monarchi (e un po’ complicati da recuperare oggi fuori dal contesto per cui sono stati pensati), è puro intrattenimento, puro svago, e anche divertimento, con un libretto romanzesco, a volte licenzioso, in cui la seduzione e l’amore sono i veri protagonisti. Ecco perché, uscendo dagli schemi encomiastici di molti altri lavori seicenteschi, e mostrando invece quella verve, quel dinamismo, quella vena drammatico-teatrale che sanno renderla così attuale, L’Orontea resta oggi un titolo del tutto appetibile. Alla Scala, precisamente alla Piccola Scala, era già approdata nel 1961 con la direzione di Bruno Bartoletti e Teresa Berganza come protagonista. Nell’ultima parte della stagione scaligera 2023/24 Robert Carsen da quel regista geniale che è, non si è fatto sfuggire l’occasione di allestirla rivestendola naturalmente di un nuovo abito. Nel libretto di Giacinto Andrea Cicognini, rivisto da Giovanni Filippo Apolloni, Orontea è la Regina d’Egitto, una donna forte e libera che dichiara la sua insofferenza verso le pene d’amore. Ella respinge ogni sorta di spasimante, salvo poi restare vittima di un inaspettato colpo di fulmine che le farà perdere completamente la testa per l’umile pittore Alidoro, una sorta di Don Giovanni un po’ svagato, un po’ annoiato al cui fascino sembra non resistere nessuna, e che alla fine, con grande soddisfazioni di tutti, attraverso l’immancabile scena d’agnizione, si scoprirà essere di origine nobile. Le vicende amorose si intrecciano a perdifiato tra scambi di persona, improvvisi voltafaccia, travestimenti, infatuazioni inaspettate... il tutto condito da gaiezza e ironia, in un clima di puro divertissement venato però sempre da un sottile velo di malinconia. E tutto questo si ritrova perfettamente nell’intelligente e spumeggiante spettacolo firmato da Carsen. Il regista canadese attualizza la vicenda del libretto ambientandola nella Milano di oggi, in una prestigiosa galleria d’arte moderna la cui proprietaria, capace e ambiziosa, è Orontea. Lo spettacolo è godibilissimo e le tre ore e mezza di durata volano via con una leggerezza entusiasmante. Merito di un grande lavoro di squadra tra regista, direttore d’orchestra e cantanti, tutti preparati e ottimamente inseriti nel congegno perfetto di questo allestimento. La recitazione era accurata, l’interazione tra i personaggi spontanea e credibile, ma soprattutto la comprensione del testo da parte degli interpreti e la sua conseguente resa in palcoscenico hanno mostrato un dinamismo e una vitalità teatralissime, cose del resto appartenenti a molte opere di quel periodo storico, vero scrigno di tesori che varrebbe la pena aprire più spesso. Giovanni Antonini dirigendo con grande cura e precisione l’Orchestra del Teatro alla Scala (che ha suonato su strumenti storici) ha creato il tessuto strumentale ideale per valorizzare al meglio sfumature, fraseggi, ritmi, senza mai mostrarsi predominante e autoreferenziale. Si potrebbe dire che Antonini si sia messo al servizio della partitura sostenendo il canto con intenzione e trasporto senza però mai soverchiarlo con inutili folclorismi filologici (o presunti tali) che purtroppo si ascoltano a volte quando si incontra questo repertorio. Molto spesso si era talmente concentrati e attratti da ciò che succedeva in palcoscenico che l’orchestra quasi spariva tanto era compenetrata con ciò che avveniva in scena. Una delizia quindi per gli occhi e per le orecchie. E la compagnia di canto ha risposto al meglio alle sollecitazioni di regista e direttore. Stéphanie d’Oustrac è stata un’Orontea altera ma anche fragile, dotata di un importante strumento vocale forse non duttilissimo ma dalla timbrica comunque brunita e abbastanza accattivante. Carlo Vistoli ha impersonato Alidoro con voce piena e ben timbrata dando al personaggio vigore, passione ma sapendo anche toccare le corde della tenerezza con un canto morbido e spontaneo. Francesca Pia Vitale ha interpretato Silandra con un tocco di civetteria ma anche di soavità. E’ piaciuta la purezza della timbrica e la sua capacità di rendere le frasi musicali con naturalezza e comunicativa. Convincente Hugh Cutting, un Corindo musicalissimo, dal colore vocale gradevole e omogeneo in tutta la gamma. Davvero una bella sorpresa. Luca Tittoto con vocalità potente, rotonda e profonda si è disimpegnato con estroversione disegnando un Gelone invadente, sfacciato e anche molto divertente. Brillante e molto attiva in scena Sara Blanch nei panni di Tibrino, luminosa e suadente la vocalità di Maria Nazarova nei panni di Giacinta, mentre è risultata giustamente spiritosa l’Aristea di Marcela Rahal che ha evitato di cadere nel caricaturale. Affidabile, infine l’esperto Mirco Palazzi nei panni dell’austero Creonte.Grande successo per tutti.



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