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Massimo Crispi
Il recital di
June Anderson e Jeff Cohen, in sostituzione di quello del basso Vitalij
Kowaliow, annunciato nel programma, era pensato per lo Châtelet di Parigi, come
ha dichiarato la stessa Anderson alla fine del concerto. Pensato per un
pubblico d’oltralpe, si dovrebbe quindi supporre, quasi per giustificare
l’assenza di repertorio italiano nel programma? Invece il programma misto di
mélodies francesi nella prima parte e di songs da Musical nella seconda si
annunciava ghiotto per gli appassionati di rarità e per i fans del soprano
statunitense le cui apparizioni in palcoscenico si sono, purtroppo, diradate
nel tempo. Diciamo che,
forse, le mélodies scelte dalla Anderson non erano tra le più adatte alla sua
voce di oggi, che, a sessantuno anni, non è più quella magia di preziosismi
vocali con cui ci aveva viziato. Diciamo anche che, forse, il mondo intimo e talvolta
contorto della mélodie tra i due secoli (Fauré, Debussy) non è proprio il mondo
in cui la Anderson si muoveva a occhi bendati, anche se la classe della star
debordava da ogni lato. Purtroppo il bel timbro si è opacizzato un po’ e molte
morbidezze della sua voce, necessarie in questo repertorio, si sono perse,
tanto da costringerla a fare un uso talora eccessivo di portamenti. O forse
solo perché in questa occasione la cantante/attrice non rendeva bene pezzi
astratti con testi poetici (e musiche!) splendidi ma lontani dalla
rappresentazione teatrale che più facilmente sembra essere la sua tazza da tè. Solo
con Poulenc finalmente si accendeva la fiamma dell’attrice di razza,
soprattutto nell’ultimo monologo, “La dame de Monte-Carlo” dove, forse a causa
della lunghezza e della poliedrica struttura drammatica della mélodie, la tigre
del palcoscenico si risvegliava e faceva andare in delirio il pubblico. È
esattamente ciò che il pubblico si attendeva da lei: dei personaggi. La seconda
parte del programma, tutta americana e tutta teatrale, era decisamente più
consona alla personalità del soprano, che ci ha regalato momenti magici con
Bernstein (“Dream of me”, da “Peter Pan” e “A little bit in love” da “Wonderful
Town”), autore a lei molto caro e che l’amava molto: fu lei la pirotecnica
Cunegonde della famosa registrazione di “Candide” diretta a Londra dall’autore
stesso, poco prima della sua scomparsa. Di seguito,
due canzoni di Stephen Sondheim, la seconda delle quali era la celebre “Losing
my mind”, in un’interpretazione intimista e commovente. I due brani di Kurt
Weill, la tappa successiva, sono stati mirabilmente risolti: sia “My ship” da
“Lady in the dark” che il tango-habanera in francese “Youkali”, l’isola seducente
e arcana che non si può raggiungere, metafora di un luogo utopico ove
rifugiarsi, hanno dato modo alla Anderson di sfoderare tutto il suo charme.
Gran finale con due brani di Jerome Kern: “Yesterdays” da “Roberta” e “Cant
help lovin’ that man” da “Show Boat”, quest’ultimo assai intenso. L’unico
appunto che si poteva fare all’artista era che la tessitura dei songs fosse
decisamente troppo centrale e piatta per l’estesa voce di soprano lirico
leggero della Anderson. Pecca perdonata, comunque, da una grande
interpretazione che l’età e l’esperienza arricchiscono, senz’ombra di dubbio.
Anche la parte pianistica di Jeff Cohen, che nel primo tempo appariva
semplicemente corretta, senza guizzi interpretativi degni di nota, nel secondo
è apparsa più partecipativa e coinvolgente. Bis, a voce
stanca ma con verve notevole, con l’amato Rossini: “Giusto ciel” da “Maometto
II” e la brillante aria “La fioraia fiorentina”, dove il pubblico ha ritrovato
l’abile belcantista a cui era affezionato. Teatro mezzo vuoto, chissà perché,
ma spettatori felici. E, in effetti, ascoltare degli immensi artisti come la Anderson,
alla fine della carriera ma ancora in buona forma vocale (come è successo per
Mariella Devia la settimana scorsa sempre qui a Firenze), può solamente
rassicurare i fans che la magia si prolungherà ancora.
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