Monday, April 12, 2010

Sogno di una notte di mezz’estate di Mendelssohnn - Teatro Regio di Parma

Foto Roberto Ricci Teatro Regio di Parma

Roberta Pedrotti
Prima la musica e poi le parole? Nell’epoca della musica di consumo che invade ogni spazio possibile, perfino i sottopassaggi delle stazioni ferroviarie, è opinione comune che la musica d’arte vada eseguita e fruita in concertistico, sacrale raccoglimento. Ma se è vero che il valore del silenzio e della concentrazione vanno salvaguardati oggi più che mai, è anche vero che molti capolavori non rifuggono affatto nella concezione originale una destinazione strumentale che non solo accetta, ma bensì presuppone un’azione e un contesto che a noi oggi potrebbero parere di disturbo. È così, per esempio, per la danza, è così soprattutto per le musiche di scena, genere fecondo (possiamo dimenticare, per esempio, l’Edipo a Colono rossiniano o il Mozart del Thamos re d’Egitto?), ma troppo spesso allontanato dallo spirito originale e tramutato in una sorta di poema sinfonico con al massimo interventi narrativi di raccordo. In questo senso il secondo titolo in cartellone al Regio di Parma può apparire un esperimento, quando, semplicemente, porta in teatro le musiche di scena Mendelssohnn per il Sogno di una notte di mezz’estate semplicemente per quello che sono.

Certo, l’esecuzione è di quelle indimenticabili, e verrebbe da dire lussuosa per essere un mero accompagnamento all’azione, ma è semplicemente la loro natura che viene rispettata, l’intima interazione fra la commedia shakespeariana e il sentire musicale colto e sofisticato di un compositore che ne aveva vagheggiato il mondo sonoro da quando, diciassettenne, ne compose l’ouverture, fin quando, trentaquattrenne, porterà a termine la partitura. Partitura, che, appunto, viene esaltata dalla lettura di Yuri Termikanov, di discografica perfezione anche grazie alla prestazione maiuscola dell’orchestra del Regio e del coro femminile con soliste Anna Maria Chiuri ed Elena Monti. La leggerezza della Elfenmusik trova una piena definizione preromantica e all’incanto della notte fatata possiamo associare felicemente aromi notturni, sensualità e morbidezze. Parrebbe un azzardo, ma la linea classica, perfettamente equilibrata, le trasparenze e l’olimpica chiarezza di scrittura non sembrano poi così ignari e alieni dall’esperienza di Weber e Marshner; semplicemente privilegiano il fiabesco sul gotico. Ci troviamo nell’atmosfera del Faust secondo, insomma, più che del Faust primo, ma come Goethe anche Mendelssohn è compartecipe dello spirito che dall’illuminismo sentimentale e sensista traligna al romanticismo. E basti ad esempio citare l’attacco del notturno, con i timbri più caldi dei legni e degli archi gravi per ricordare uno dei momenti più emozionanti dello spettacolo, un incantato, sinuoso squarcio onirico nel quale, illustrando il sonno di ciascun personaggio, pian piano s’insinuano anche le voci più acute, alte e leggere come la materia di cui son fatti i sogni. Temirkanov peraltro riesce a farci ascoltare perfino la marcia nuziale di Teseo e Ippolita come se fosse la prima volta, ma soprattutto si pone al servizio dell’azione, la segue divertito e, senza uscire dal suo ruolo, senza esporsi con cadute di gusto, accoglie anche gli ammiccamenti di Puck.

Perché il Sogno di una notte di mezz’estate è teatro, teatro di parola, d’azione e di suono, senza che un aspetto predomini o soccomba. Anzi, orchestra e attori si integrano con disinvoltura, senza timore e il risultato è sorprendente, perfino straniante rispetto alla prassi che separa musica e prosa. Per la nuova versione ritmica italiana di Luca Fontana, la mise en espace curata da Walter Le Moli avvolge l’orchestra sul palcoscenico – grazie anche a Tiziano Santi, che sfrutta benissimo gli spazi – e permette una rappresentazione fresca e agile, con un’ottima compagnia di attori giovani ben caratterizzati dai costumi di Gianluca Falaschi: tuta blu per gli artigiani, abiti da sera per i giovani amanti, tagli più ottocenteschi per Teseo e Ippolita (che appare, ovviamente, in un’elegante tenuta da amazzone), fantasie più provocanti con tocchi punk per fate e folletti, tutti in nero con inserti luccicanti. Le luci di Claudio Coloretti fanno il resto in un impianto minimale ma non penitenziale, scaldato e dalla bellezza stessa dell’orchestra come elemento scenico e dalla vitalità degli interpreti. L’Ensemble della Fondazione Teatro Due cresce nel corso dello spettacolo e regge benissimo il ritmo e le difficoltà dei diversi registri espressivi della commedia shakespeariana. Filippo Gessi, per esempio, riesce ad essere un naturalissimo Flute, pessimo attore dilettante en travesti che quando abbandona il falsetto per declamare il lamento di Tisbe sul corpo di Piramo trova accenti di verità pur senza trasformarsi di punto in bianco in un grande dicitore. E bisogna essere veramente bravi per restituire questa varietà di intenzioni senza tradire il personaggio del semplice artigiano attore per caso. Ma è solo un esempio che non vuole far torto al Bottom/Piramo di Nanni Tormen, schietto e un po’ spaccone ma mai gigione, al Quince di Antonio Tintis, ai surreali Massimiliano Sbarsi, Snout, Marco De Marco, Snug, e Sergio Filippa, Starveling. Molto ben caratterizzati anche gli amorosi Demetrio e Lisandro, Francesco Gerardi e Gianluca Parma, come le non meno fresche e convincenti Federica Val (Ermia) e Ippolita Baldini (Elena). Massimiliano Sozzi differenzia bene Egeo e Filostrato, così come Alessandro Averone e Paola De Crescenzo, impegnati nelle due coppie regali, umana e fatata. Il regno di Atene e quello delle fate sono forse lo specchio onirico l’uno dell’altra? Il rigore dell’etichetta trova forse sfogo sensuale nel mondo notturno magico e disinibito dove gli amori e le coppie si intrecciano? Forse le performance speculari di Avarone e De Crescenzo come Teseo/Oberon e Ippolita/Titania, stanno a suggerirlo mostrando figure diverse eppure vicine e simili. Un ottimo lavoro, non c’è che dire, nel quale non si può dimenticare il Puck di Luca Numera, perfetto esempio di attore brillante della nuova generazione, molto fisico, molto energico, un folletto terragno diametralmente opposto al diafano Ariel della Tempesta. Alla fine il successo è pieno, entusiastico, e se un po’ spiace che il teatro e il loggione non fossero esauriti, siamo lieti dell’intreccio fra il pubblico degli habitué della prosa e della musica in un’unione ideale per un piccolo gioiello in un bel pomeriggio di fine inverno.

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