Tuesday, April 1, 2025

Tosca -Teatro alla Scala, Milano

Foto: Brescia & Amisano

Massimo Viazzo

Il Teatro alla Scala ha riproposto la Tosca di Giacomo Puccini (1858-1924) che aveva inaugurato la stagione 2019/2020. La regia di Davide Livermore è stata ripresa correttamente in questa occasione da Alessandra Premoli. Di quella Tosca si era già scritto su queste pagine a suo tempo, e oggi si può tranquillamente confermare il risconto molto positivo suscitato già allora dallo spettacolo creato dal regista italiano con il suo staff costituito da Giò Forma (scene), Gianluca Falaschi (costumi), Antonio Castro (luci) e D-Wok (video). Livermore ha dato un taglio cinematografico alla sua messa in scena utilizzando I mezzi tecnologici che gli sono abituali (davvero suggestivi e di grande impatto i continui sollevamenti e le rotazioni degli elementi architettonici) senza alcun stravolgimento del libretto. E in questi tempi è un grande merito, visto cosa succede su certi palcoscenici operistici dove non solo si fanno riletture cervellotiche della trama, ma sta diventando di moda modificare addirittura le parole del testo. E questo mi pare inaccettabile. Livermore è un musicista, un tenore per la precisione, e questo si nota sempre nei suoi allestimenti. I cantanti, infatti, sono sempre messi nella condizione di potersi esprimere al meglio in palcoscenico, senza bizzarrie insensate come quelle di farli cantare in bilico su una corda sospesa o a testa in giù. Quindi ben venga una Tosca come questa, ipertecnologica, che guarda al cinema, ma che guarda soprattutto alla musica, rispettandola e valorizzandola. E così la celebre vicenda dei due amanti Tosca e Cavaradossi e del brutale e lussurioso Scarpia, vicenda che si svolge a Roma il 17 giugno 1800 tre giorni dopo la vittoria di Marengo (Piemonte) delle truppe di Napoleone contro l’esercito austriaco di Melas (e l’esultanza di Cavaradossi «Vittoria! Vittoria!» durante il suo interrogatorio nel secondo atto, un gesto di sfida nei confronti di Scarpia, si riferisce proprio a questo avvenimento), scorre fluida e comprensibile, avvince e convince. Mentre la regia di Livermore ha nuovamente fatto centro, la direzione di Michele Gamba ha sofferto di una certa mancanza di tensione narrativa. L'incedere un po’ smorto (soprattutto nel primo atto), un tessuto orchestrale a volte un po’ sottotono, qualche scollamento tra buca e palcoscenico non hanno consentito una resa teatrale del tutto efficace. Ricordo anche che Gamba ha adottato la nuova edizione critica dell’opera (Parker) che si rifà alla prima rappresentazione assoluta avvenuta a Roma al Teatro Costanzi il 14 gennaio 1900, edizione già utilizzata da Riccardo Chailly nel 2019 e che recuperavapagine espunte da Giacomo Puccini dopo quella première. È stato possibile ascoltare, tra l'altro, una frase supplementare nel duetto del primo atto tra Mario e Tosca, anche un brevissimo dialogo a due al termine di Vissi d'Arte, pure una parte a cappella nel Te Deum, e qualche battuta in più nel Finale dell'opera. Nel ruolo della protagonista Elena Stikhina è piaciuta per l’incisività del suo canto. Una Tosca volitiva la sua. Ma una dizione a volte poco chiara e un canto spesso di forza, privo di flessuosità e morbidezze, le hanno impedito di tratteggiare un personaggio rifinito. Anche l’accento è parso un po’ monocorde con dinamiche tendenti spesso al forte. Il suo Vissi d’arte è parso quindi un po’ anonimo. Poco sfaccettato anche il Mario Cavaradossi interpretato da Fabio Sartori, un tenore che però vocalmente in scena non si risparmia mai, ma la cui linea di canto non pare molto variegata. La sua è stata comunque una prova in crescendo, culminata con un commosso E lucevan le stelle che ha meritato il più lungo applauso della serata. Vero mattatore è stato Amartuvshin Enkhbat, considerato oggi uno dei migliori baritoni sulla scena internazionale. Il suo Scarpia è piaciuto per rotondità timbrica, dizione curatissima, mobilità di fraseggio. Enkhbat ha offerto un ritratto del barone Scarpia di grande intensità drammatica, intelligente, mellifluo, lascivo e spietato. Del baritono mongolo hanno colpito la saldezza dell’emissione, la sontuosa proiezione vocale, la bellezza timbrica e la sua capacità di rifinire le frasi. Insomma, un fuoriclasse! Carlo Bosi è un maestro nelle parti secondarie di tenore, e il suo Spoletta è stato pressoché perfetto; come pure il Sagrestano di Marco Filippo Romano. Questi due artisti fanno della tecnica vocale e della dizione limpida e scandita un atout vincente riuscendo a dare il giusto rilievo a due ruoli così importanti spesso un po’ trascurati. Convincenti anche Huanhong Li nei panni di Angelotti, Costantino Finucci in quelli di Sciarrone, Xhieldo Hyseni (Accademia del Teatro alla Scala) come Carceriere e Valentina Diaz (Coro di Voci Bianche delTeatro alla Scala) come giovane Pastore. E sempre affidabile il Coro del Teatro alla Scala diretto da Alberto Malazzi.

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