Tuesday, September 20, 2022

Il Matrimonio Secreto - Teatro alla Scala, Milano

Foto: Brescia&Amisano

Massimo Viazzo 

Che Il Matrimonio Segreto di Cimarosa fosse un grande capolavoro l’avevano ben capito quella sera a Vienna - alla première del 7 febbraio 1792 o forse alla seconda rappresentazione - quando l’opera fu ripetuta dall’inizio alla fine, unico caso nella storia dell'opera lirica. Mozart era morto da un paio di mesi e Rossini sarebbe nato poche settimane dopo. Il Matrimonio Segreto si pone non solo temporalmente ma anche stilisticamente a metà strada tra la vicenda artistica dei due celebri compositori. È straordinario godere ancora degli echi mozartiani, nei concertati o nella sinfonia ad esempio, ma anche delle aperture liriche più italiane o dei sillabati stretti che diventeranno il marchio di fabbrica del Cigno di Pesaro. Un’opera unica, clamorosamente in bilico tra due stili, che resterà anche il maggior risultato operistico di Domenico Cimarosa, uno dei maggiori rappresentanti della Scuola Napoletana. Alla Scala questo titolo mancava da più di quarant’anni ed è stata una buona idea affidarlo ai giovani cantanti e strumentisti dell’Accademia, un’operazione che viene effettuata ogni anno per valorizzare l’alta scuola di formazione annessa al teatro. Attorno ad un cantante di chiara fama, in questo caso Pietro Spagnoli, viene radunato un cast di giovani speranze che con studio, talento, e con la verve dell’età sanno rivitalizzare anche titoli meno consueti. Il Matrimonio Segreto in effetti alla Scala (in realtà alla “Piccola Scala”, una sala storica, una vera bomboniera, che ormai purtroppo non esiste più) è stato eseguito diverse volte nel corso del XX secolo ma la sua presenza nel cartellone del teatro milanese ormai latitava. Come dicevo, Pietro Spagnoli ha interpretato Geronimo, in questa realizzazione un vero e proprio capo malavitoso, cantando con una dizione assolutamente perfetta, secondo la miglior tradizione italiana che comincia da Sesto Bruscantini. Il suo Geronimo è parso meno macchiettistico del solito, più personaggio moderno, anche arrogante: quando ad esempio vuole convincere il Conte Robinson a sposare la figlia gli punta addirittura una pistola alla tempia! In effetti l’idea registica di Irina Brook è proprio quella di rendere attuale la vicenda del libretto, libretto gigantesco che campeggia sul fondale del palcoscenico mentre sul davanti si svolge l’azione in un ambiente contemporaneo. La regista però carica un po’ l’allestimento di gag e situazioni a volte un po' esagerate tralasciando completamente la stilizzazione settecentesca così peculiare di questo lavoro. È vero, si ride abbastanza guardando la scena, ma forse si sarebbe potuto ottenere lo stesso effetto alleggerendola un po'. Spesso le Arie si sono trasformate in veri e propri Duetti con un secondo personaggio muto a fare da interlocutore, e a volte sul palco un andirivieni di mimi distraeva non aggiungendo molto alla resa visiva.Tutti i cantanti dell’Accademia si sono impegnati al meglio per rendere plausibili i loro personaggi, dalla Carolina di Greta Doveri, la migliore in campo per timbrica, proiezione vocale e sicurezza, a Francesca Pia Vitale, una Elisetta puntuta ma a volte forse un po’ tenue, e poi la Fidalma di colore brunito di Mara Gaudenzi, il Paolino di Paolo Antonio Nevi più a suo agio nel canto elegiaco, per finire con il Conte Robinson di Sung-Hwan Damien Park un po’  a disagio con la lingua italiana e dalla timbrica un po’ monocorde. Ottavio Dantone ha diretto con finezza, leggerezza e giusto brio la preparata Orchestra dell’Accademia per un buon successo di pubblico. 

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