Massimo Crispi
Per il ciclo l’Arte del canto (XIII appuntamento), rassegna interna alla stagione degli Amici della Musica di Firenze si è svolto alla Pergola il secondo recital di Matthias Goerne, sempre nel nome di Franz Schubert (il terzo secondo il calendario, ma secondo perché il primo è stato annullato e sarà recuperato il prossimo marzo). Schubert è particolarmente congeniale a Goerne, e il baritono tedesco ha saputo trasportarci nella sua visione di Schubert, che è un po’ diversa da quella che correntemente si ascolta. La sua superba voce, che non ci dispiace definire regale (se per regale si intende qualcosa di superiore, qualcosa di autorevole, qualcosa di benevolente e paterno in qualche modo, al di là di ogni considerazione filomonarchica da cui siamo distanti anni luce), se non addirittura imperiale, dai connotati netti eppure sfuggenti allo stesso tempo, ha illustrato con grande convinzione questo punto di vista. E Schubert ha una grande importanza sul lavoro che attualmente interessa l’attività di Goerne: una quasi integrale edizione della sua produzione liederistica, accompagnata da recital, quasi a confermare che non è solo una scelta di lasciare una documentazione ma anche una necessità di comunicare a un pubblico dal vivo le sue interpretazioni, col pathos e il coinvolgimento che solo il recital dal vivo può creare. Il programma che Goerne ha scelto era suddiviso in quattro parti, in cui si svolgevano alcuni tra i più importanti temi seguiti da Schubert nella sua sterminata produzione. Il primo era dedicato alla classicità e alla visione del mondo antico e mitologico che ne avevano i poeti neoclassici e romantici. E il titolo che Goerne ha dato al suo ultimo CD è proprio Heliopolis, Eliopoli, la città dell’arte in un Egitto dedito al culto della luce, che illuminava gli artisti, i suoi figli più cari. E verso questa luce Schubert era sempre teso, così come verso una terra ideale, sempre in un metaforico viaggio, attraverso il tema del Wanderer, e come pure alla ricerca di un altro da sé, il tema del sosia, del doppio, dell’addio, di una felicità che non albergava nella sua misera stanzetta e nella solitudine artistica nel centro di una Vienna molto oscurantista e conservatrice sotto l’impero di Francesco II/I. I poeti dei brani di questa serata erano i più frequentati da Schubert, Mayrhofer e Goethe in primis, oltre che il quasi omonimo Franz Schober. Die Götter Griechenlands era il Lied che apriva questo viaggio schubertiano di Goerne, seguito da Philoktet, Fragment aus dem Aischylos, Der etnsühnte Orest e i due Aus Heliopolis. Poi An die Leier, Meeres Stille, Atys e lo Schifferers Scheiderlied. La seconda parte, eccezion fatta per Der König inThule, era più sul tema del viaggio, della natura e degli addii, con Wanderers Nachtlied, Der Hirt, Das Heimweh, Der Kreuzzug e l’ultimo, straziante Abschied. La chiave interpretativa di Goerne in generale era una malinconia di base con dei momenti di rasserenamento e di apertura verso quell’anelito alla luce e alla felicità, una Sensucht che tanto caratterizza l’opera di Schubert e che il baritono ha espresso magnificamente. La maniera in cui passava da frasi gravi ricche di armonici e sonore, mai spinte ma sempre accompagnate dal sapiente uso dellla respirazione e cesellate con una grande perizia tecnica, al registro acuto sempre morbido e utilizzando un registro misto al falsetto, indugiando sui gruppetti e sulle ornamentazioni, scandendo ogni singola nota in un legato magistrale (chi ha detto che in tedesco non si può legare il canto?), era assolutamente impeccabile e il lavoro di palato e di cavità che riusciva a creare Goerne per dare lo spazio ai suoi mille colori diversi era unico. L’atteggiamento corporeo era quasi allucinato, una faccia spiritata, quasi percepisse i fantasmi schubertiani nel buio della sala davanti ai suoi occhi, impressionante, anche se talvolta il suo sottolineare le sillabe e le vocalizzazioni con piccoli movimenti del corpo poteva apparire un po’ fuori luogo. Si è detto spesso che Matthias Goerne è l’erede di Fischer Dieskau. Noi non siamo d’accordo. A parte il fatto che la voce di Goerne è molto più interessante di quella di Dieskau, in Dieskau era meno frequente il vero canto, mentre albergava una precisione a livelli maniacali della pronuncia, sacrosanta. Apprezzabilissimo, per carità, però alla lunga Dieskau riusciva a risultare freddo se non gelido, pur se l’artista ha segnato un punto fermo nell’interpretazione del Lied e una sua rinascita. Goerne della pronuncia se ne fregava, al contrario, per privilegiare il canto e in effetti è difficile ascoltare oggi quanta musica ci sia nel canto schubertiano, con una tavolozza di colori sonori a cui non siamo abituati. Che se ne fregasse è naturalmente un’esagerazione per dire che anche se qualche parola e qualche frase non erano eccessivamente chiare o messe a fuoco perché il suono coperto non consentiva un’articolazione idiomatica così precisa, il risultato era comunque eccellente ed emozionante perché, appunto, Goerne faceva scaturire dalla linea vocale schubertiana tutta la sua carica espressiva e immaginifica. Ma non vorrei che si pensasse che vogliamo tralasciare l’altra metà di questa serata emozionante e a cui Goerne deve certamente parecchio: il pianista Alexander Schmalcz. Dei pianisti con cui lavora abitualmente Matthias Goerne questo è forse il più schubertiano di tutti. Se il baritono tirava fuori tutti i colori del cielo e della terra il pianista tirava fuori anche quelli di tutti gli altri pianeti del sistema solare. Raramente abbiamo ascoltato i liquidi arpeggi di Meeres Stille e la corsa ondeggiante dello Schifferers Scheidelied, eseguiti così appropriatamente e preparatori alla linea del canto, ora sospesa, ora malinconica, ora intrepida. E lo sposalizio della tastiera colla voce di Goerne era sempre all’altezza, mai un punto in più o un punto in meno: l’energia bellica dell’inizio di An die Leier e i successivi molli arpeggi della lira che ha la necessità di cantare solo l’amore offrivano un contrasto di tocchi e di sentimenti che ci hanno affascinato. Der König in Thule, la ballata arcaicizzante che canta Margherita, la triste storia del re e della sua amata che, morendo, gli lascia la coppa da cui lui beve la vita che gli resta giorno dopo giorno, riempiendola di lacrime, ha raggiunto da parte di entrambi altissimi livelli intepretativi così come l’infrequente ascolto di Atys, che offre anche un raro postludio del pianoforte solo, è stato anch’esso uno dei momenti più emozionanti di tutto il recital. Ma uno dei punti di massima tensione, per i pianissimi e per l’atmosfera rarefatta in attesa di una fine che si intuiva ma che non si voleva giungesse, era l’ultimo Lied, Abschied, appunto, Addio. Qui cantante e pianista si sono reciprocamente superati, entrando l’uno nello strumento dell’altro, e, siamo convinti, con una reale partecipazione emotiva. Pubblico contento, inutilmente in attesa di un bis. Con Abschied si era detto tutto.
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