Foto: Anna Caterina Antonacci © Serge Derossi/Naïve
Firenze, Teatro della Pergola. Amici della Musica, L’arte del Canto (XXXI). Recital di Anna Caterina Antonacci e Donald Sulzen.
Massimo Crispi
Quando si assiste a un recital di Anna Caterina Antonacci ci si rende conto, prima o poi, di essere parte di un evento. Già da quando lei mette piede in palcoscenico qualcosa accade. La presenza, la classe, la straordinaria avvenenza incorrotta di quest’artista annunciano che un rito speciale sta per compiersi: la sacerdotessa della musica, del gesto e della parola è lì per iniziare qualche nuovo adepto e per suscitare i sogni più variegati a chi già la conosce. Si ha sempre l’impressione che canti per te e solo per te… L’artista lascia sempre a bocca aperta per la sua capacità di mettere in vibrazione le corde più segrete di ognuno di noi e, soprattutto, si ha la strana sensazione che, per chi ascolta, il tempo si fermi. Viene il dubbio, a ben pensarci, che per lei il tempo si sia veramente fermato in un’età aurea, Anna Caterina Antonacci sembra non appartenere ad un oggi fatto di velocità e distrazione. Questa fatale creatura d’un’altra epoca è forse la dimostrazione che è possibile una connessione spazio-temporale colla dimensione del temps perdu, chissà quanto in lei consapevole e non innata.
Il programma scelto per Firenze seguiva due temi, molto cari ad Antonacci.
Uno dei suoi repertori d’elezione, per ricchezza timbrica e per possibilità espressive, è il barocco e, infatti, colla struggente passacaglia del “Lamento della Ninfa” di Claudio Monteverdi, che apriva il programma, già dai primi accenti il pubblico era catturato nel vortice emotivo - accentuato dal ripetersi del basso ostinato e dalla melodia che vi si avvolge intorno - che solo lei sa creare in questa forma e con quest’intensità. Rinunciando alla filologia, che esigerebbe un basso continuo e un coro maschile che compiange la ninfa, stemperando il suo pianto disperato e creando una stereofonia timbrica, viene fuori una cosa nuova, assolutamente indipendente dalla partitura originale ma che funziona benissimo anche col pianoforte: il madrigale diventa quasi un’aria moderna, con libertà interpretative e ritmiche indicate peraltro dallo stesso autore, che giungono dritto al cuore di chi ascolta.
Dunque: i temi scelti da Antonacci per il programma. Il primo era svolto sul barocco e i suoi epigoni, titolandosi “In stile antico”, e parodie dello stile antico sono le arie di Ottorino Respighi e Stefano Donaudy, autore di una raccolta di brani su testi sei e settecenteschi in stile arcaicizzante, spesso eseguiti distrattamente e genericamente da molti cantanti. Antonacci ha tirato fuori da queste arie una tale poesia da restare ipnotizzati: moderna Armida, ci attirava e ci faceva perdere nel suo giardino incantato della voce, facendoci assaporare ogni sillaba, raccontandoci storie mai notate prima, anche se quei pezzi li abbiamo magari ascoltati altre volte e da altri interpreti. Sembravano nuove, ecco, ci si accorgeva di quanta musica e di quanti ulteriori affetti quelle arie sono portatrici. Antonacci ha il grande merito di dire, narrare i suoni, le frasi e i fonemi, calandosi integralmente nel testo da trasmettere, inventando situazioni e dipingendo caratteri, o anche solo trasmettendoci sensazioni, sentimenti, brividi. Quanti colori può avere uno stesso suono lei lo dimostra con facilità, quante trame sono nascoste tra i versi di un’aria lei ce le illustra con l’amore di chi sa di raccontare aneddoti preziosi e speciali, rarità da intenditore spiegate con olimpica chiarezza per garantire l’accesso a tutti, pur senza perdere la classe inarrivabile che la caratterizza. Classe, alla fine, fatta di semplicità.
Il suono, dicevamo. Il suono così particolare di Anna Caterina Antonacci, che sfugge (per fortuna) alle classificazioni, che comprende, senza fratture, le tessiture di soprano e mezzosoprano, pieno di sfumature e di timbri, a seconda dell’affetto che lei vuole esprimere, è una delle più grandi ricchezze di quest’artista che ha piegato la sua voce all’espressione teatrale in ogni cosa che canta e che dice.
Il programma, coi suoi rimandi interni tra Cesti e Respighi, Cilea e Pizzetti, Mascagni, Refice e Tosti, scelto con intelligenza e con un evidente scopo narrativo, era pieno di sorprese e di scoperte, eclissando la banalità di molti programmi vocali in circolazione, spesso stantii perché ripropongono quasi sempre e solamente i cicli storici schubertiani o schumanniani, splendidi, per carità, ma come se non esistesse che quello.
Le “Quattro canzoni d’Amaranta”, uno dei più notevoli cicli tostiani, erano così piene di pathos nell’interpretazione del duo, pur in una scelta di tempi piuttosto rapidi, che il tornado di emozioni non lasciava respiro: “L’alba separa dalla luce l’ombra” velocizzato seguendo appunto il ritmo del verso dannunziano, senza tutte quelle lungaggini e un eccesso di punti coronati a cui siamo abituati dalle correnti letture, soprattutto tenorili, era una fluida corsa contro la luce, che pure invadeva il canto di Antonacci, anzi forse piuttosto lo scontro di due luci, la luce del sole del giorno nascente e quella del canto che si eleva titanico, sovrastando l’amore perduto, il canto che vuole sottrarsi all’incontro inevitabile coll’avvenire, in un abbraccio notturno che si vorrebbe eternare. Forse un tempo più elegiaco nel primo dei brani, “Lasciami!”, già dall’introduzione pianistica, avrebbe giovato all’atmosfera e preparato la sopresa del secondo brano, ma sono dettagli.
Se lo stile antico e arcaicizzante caratterizzava la prima parte del concerto, i riflessi acquatici erano il tema della seconda. E quindi i riflessi lagunari della raccolta “Venezia” di Reynaldo Hahn, lui forse più che Proust il vero custode del tempo perduto, ci stavano proprio bene. La sapienza di Antonacci e di Sulzen, che si divertivano enormemente nel recitare entrambi, ognuno col proprio strumento, i testi in idioma veneziano (seppure non sempre foneticamente esatto), ha entusiasmato ulteriormente un pubblico che già dall’inizio aveva dimostrato (e come poteva essere il contrario) un profondo affetto verso i due artisti. Inarrivabile, per spirito e per sottigliezze, “L’avertimento” mentre “La biondina in gondoleta” (attenzione, nulla a che vedere colla nota canzone folclorica, tutt’altra musica) era un vero gioiello d’arte drammatica, intagliato e cesellato come meglio non si potrebbe fare.
I riflessi acquatici continuavano nel celebre “L’invitation au voyage” di Henri Duparc, dove la voluttà del verso di Baudelaire veniva accentuata in maniera sublime da Antonacci, quasi pittrice di paesaggi e liquide atmosfere, che proseguivano nei brani successivi di Gabriel Fauré, il delizioso “Cygne sur l’eau” e “Au bord de l’eau”, quest’ultimo in un’interpretazione così moderna da accentuare l’attualità di un autore spesso confinato a una considerazione salottiera e nulla più. Il ciclo “L’horizon chimérique”, coi suoi quattro brani, simmetrica conclusione in opposizione/congiunzione col ciclo tostiano di Amaranta, concludeva il recital con una forte emozione. Questo repertorio in lingua francese, dominato alla perfezione da Antonacci, forse meglio di cantanti di gallica madrelingua la cui scuola attuale è in grande decadenza, riportava a memorie che si credevano relegate a un passato remoto, a interpretazioni storiche come quelle di Charles Panzéra, Régine Crespin o Camille Maurane, dove la consapevolezza fonetica era tutt’uno con una vocalità degna di questo nome. E la vocalità piena, drammatica, pur capace di carezze improvvise, di Anna Caterina Antonacci era proprio il meglio che ci si potesse aspettare.
Non ha avuto un ruolo secondario il pianista Donald Sulzen, fornendo e prendendo spunti i due interpreti l’uno dall’altro, assecondandosi e suggerendosi idee di continuo. Sulzen creava un sentiero sonoro dove il passo felpato di Anna Caterina Antonacci avanzava senza indugi, planando senza colpi, fondendosi perfettamente e creando un’enorme tavolozza coloristica come raramente accade di sentire. Spesso si sottovaluta la presenza di un pianista “accompagnatore” sminuendone proprio il ruolo di “pianista”. Egli è invece il motore ritmico e armonico che sostiene il cantante e che gli permette di esprimere le magie vocali, come quelle con cui ci ha stregato la maga Antonacci. I brani di Fauré e Duparc evidenziavano, anche per una scrittura pianistica forse più densa che nella musica italiana, la sapienza del grande “accompagnatore”, mostrando il reticolo di voci interne che interagiscono colla voce del cantante e non solo quelle superficiali come talvolta accade. Pregevoli gli arrangiamenti di Sulzen di “Marechiare” di Tosti, spiritoso e in perfetta armonia coi riflessi sull’acqua del programma, e di Moon River, pensato e cantato da Antonacci come una lievissima carezza, quarto e ultimo dei bis generosamente concessi dal duo a un pubblico delirante che chiedeva con affetto che il sogno non finisse più. Anch’io mi sono risvegliato a malincuore.
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