Foto: Lucie Jansch
Massimo Viazzo
Con L’Incoronazione di Poppea si conclude la
trilogia monteverdiana affidata all’accoppiata Rinaldo Alessandrini/Bob Wilson
e messa in programma ancora dalla gestione precedente del Teatro alla Scala, e
cioè dall’ex sovrintendente Stéphane Lissner. E’ vero che si sono impiegati ben
cinque anno e mezzo per portarla a termine, ma alla luce del risultato finale
si può affermare che ne sia valsa la pena. L’estrema cura della realizzazione
musicale, affidata all’Orchestra del Teatro alla Scala rimpolpata per
l’occasione da elementi del Concerto Italiano (per la realizzazione del basso
continuo), si è notata anche in quest’ultimo spettacolo. Alessandrini bandisce
anche qui i facili edonismi sonori e le ritmiche che ammiccano alla musica
etnica preferendo una stringatezza nell’incedere e una severità espressiva che
a volte poteva anche essere scambiata per aridità. Visivamente lo spettacolo
firmato da Wilson è elegante e sobrio, ambientato in un luogo astratto
delimitato da un fondale retroilluminato, qualche parete mobile, con pochissimi
elementi scenici, e governato da un uso magistrale delle luci. La poetica del
regista americano viene fuori in tutta la sua più algida purezza, una poetica
che aspira ad un coinvolgimento dello spettatore più a livello mentale che
emotivo. La coppia dei protagonisti non
ha deluso: Miah Persson ha incarnato una seducente Poppea cantando con buona
dizione e timbrica soave, mentre Leonardo Cortellazzi (Alessandrini ha deciso
di affidare il ruolo di Nerone ad una voce tenorile) pur con una personalità
vocale non debordante è riuscito ad entrare con efficacia tra le pieghe
caratteriali dell’imperatore romano. Di
grande impatto emotivo,poi, la prova di Monica Bacelli che ha vestito i panni
di un’Ottavia turbata e adirata, mentre più dolente e afflitto è stato l’Ottone
di Sara Mingardo. Andrea Concetti ha saputo interpretare un Seneca autorevole
pur mancando la sua voce di risonanze profonde nel registro più grave, mentre
Maria Celeng è stata una Drusilla spigliata ed estroversa. Tutto il cast ha
mostrato nel complesso di conoscere lo stile monteverdiano. Molte le parti di
fianco tutte molto ben a fuoco, con una nota di eccellenza per Furio Zanasi (il
miglior Orfeo e il miglior Ulisse degli
ultimi anni) qui impegnato in tre ruoli. Ascoltarlo è stato un piacere: il suo
modo di realizzare il recitar cantando
resta ancora un esempio per tutti.
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