Foto: Maggio Musicale Fiorentino
Leonardo Monterverdi
Alla fine Puccini vince sempre… comunque la realizzi, comunque la canti, comunque la suoni, la musica della Bohème, ma anche la vicenda, molto attuale in un periodo di crisi che ai “nuovi ricchi” di qualche anno fa sta vedendo sostituirsi la classe sociale dei “nuovi poveri”, è talmente forte e resistente al tempo che funziona a distanza di oltre un secolo dalla sua prima. E così è stato anche per la rappresentazione del Maggio Musicale, una ripresa del dignitoso e agile allestimento di Francesco Zito (scene e costumi) e di Mario Pontiggia (regia), colle luci di Gianni Paolo Mirenda. L’allestimento fu pensato dalla direzione del Maggio per un’ingegnosa ministagione di opere di successo per i giovani, proposto in una chiave che strizzava l’occhio al cinema, con scene e costumi basici ed efficaci, non faraonica ma comunque suggestiva, che si intitolava “Recondita armonia”. La vicenda è trasportata dal 1830 all’epoca in cui Puccini la scrisse, intrisa così di atmosfere liberty e borghesi, che forse però non sempre si adattavano alla rappresentazione di una classe sociale povera e derelitta come quella della Parigi di Luigi Filippo. Elegante, comunque. La regia era abbastanza curata nei dettagli, degli artisti soprattutto, meno nelle scene di massa. I due cast che abbiamo ascoltato erano assolutamente all’altezza della situazione e abbiamo enormemente apprezzato le due Mimì, pur se con delle interpretazioni assai diverse. Carmela Remigio ha scavato il suo personaggio facendo leva più sulla malattia della protagonista, quasi ricercando anche nella voce una sonorità malata, affaticata, accompagnandola con gesti essenziali, faticosi anch’essi, dando una bella prova di sé, con invidiabili mezze voci di velluto nell’ultimo atto. Yolanda Auyanet, seconda Mimì, ha sfoderato la sua bella voce morbida e forse più brunita, ma sempre compatta e lirica, puntando anch’essa sulla tisi e sulla sofferenza, ma con un’intima e segreta scintilla di vitalità, che la Remigio aveva invece soppressa, in una visione assolutamente fatalista e oscura. E viene in mente Nicole Kidman in Moulin Rouge, abile pot-pourri di tutti i tipi di mélo d’ogni epoca, una tisica che però ha guizzi di vitalità da rassicurare gli amici e chi la ama. Il loro Rodolfo è sempre stato Lorenzo Decaro, apprezzabile per l’ottima dizione e declamazione, la cui voce, però, possiede più caratteristiche liriche che spinte; infatti l’emissione risultava un po’ meno sonora proprio nel passaggio al registro acuto, prevalentemente di testa e con un unico colore, senza l’intera gamma di armonici che ci si aspetterebbe da un tenore pucciniano. E la cosa era tanto più evidente in un teatro grande e sordo come il Comunale di Firenze.
Può lavorarci, perché il materiale è comunque di buona qualità, ma stando attento a non forzare, rischiando di rovinare il bel materiale. Scenicamente, ogni tanto troppi colpi di testa per sottolineare delle emissioni, hanno un po’ inficiato la sua notevole disinvoltura sul palco. Le due Musetta, Alessandra Marianelli e Rocio Ignacio, sono state imbattibili per la loro vivacità e proprietà sia vocale sia drammatica. Merita nota, oltre all’eccellente esecuzione del famoso valzer del secondo atto, quasi operettistico, la loro commovente partecipazione al disastro finale dell’opera, la preghiera, inutile ma sentita come ultima luce di speranza. Il Marcello di Stefano Antonucci si è distinto per l’eleganza e l’abilità di chi in scena sembra esserci nato, mentre quello di Devid Cecconi, pur dotato di voce interessante e sonora, era un po’ troppo dinoccolato e scenicamente gli nuoceva il piegare costantemente i ginocchi a quasi ogni emissione, oltre a una gestualità generica da curare molto per una carriera interessante a cui potrebbe essere avviato. Simone Del Savio era certamente a suo agio in Schaunard, e la sua bella voce morbida, disinvolta e spiritosa ha illuminato il musicista squattrinato del quartetto di amici, quasi essendo più lui che Colline il decano dei quattro, sempre interagendo cogli altri con discrezione e affetto. E lo splendido Marco Vinco ha disegnato un Colline fin de siècle, più vicino a un personaggio cinematografico che operistico, con i suoi interventi sagaci e pungenti, fino a una commovente “Vecchia zimarra”, aliena da tutti i birignai noti e arcinoti di bassi famosi. L’altro Colline, Felipe Bou, era un altro tipo di filosofo, più lontano dai drammi umani e distratto solo da sé, ma non meno presente vocalmente né meno interessante, e si distingueva per una declamazione più uniforme, senza particolari guizzi interpretativi, ma comunque corretto. I sempre ottimi complessi del Maggio, orchestra e coro, quest’ultimo diretto da Piero Monti, erano agli ordini di Carlo Montanaro, interessante bacchetta delle ultime generazioni di direttori italiani, che sembra aver assecondato l’idea dell’opera come un grande film con colonna sonora. Belle le sonorità dell’orchestra, in un equilibrato rapporto colla scena, anche se di tanto in tanto si percepiva che i cantanti avrebbero gradito essere seguiti un po’ di più, pena fiati supplementari e perdita di tenuta. Cosa che si è regolarmente verificata. A parte questo, ci è parsa una buona lettura della Bohème. Pubblico formato in gran parte di giovani, che significa che l’operazione di rinverdimento del pubblico fiorentino da parte del Maggio ha funzionato: entusiasta ma indisciplinato, questo pubblico non attendeva, prima degli applausi, la fine strumentale d’atmosfera dei brani vocali, che pure, in Puccini, sono così importanti. Speriamo che imparino. La presenza giovanile nelle stagioni fiorentine è una speranza per un pubblico di domani, specialmente in periodi di crisi, dove forse l’unica cosa che può ancora salvarci è proprio la musica, nostra e altrui, unico patrimonio mobile che fa conoscere nel mondo ciò che eravamo e che siamo incerti se potremo continuare a essere.
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