Foto: Ramella&Giannese - Teatro Regio di Torino
Renzo Bellardone
Con un atto di
superbia che non mi è né consono nè abituale, asserisco che nulla mi interessa
dei conservatori e dei detrattori in
riferimento alla conteporaneizzazione della messa in scena delle opere liriche
dei secoli scorsi. Senza visione, curiosità e forte introspezione prospettica di
’analisi del mondo che ci circonda, si resta ancorati a tempi che non tornano
più e che i più giovani non possono nemmeno più comprendere. La salvaguardia
della trama ed il profondo rispetto della scrittura sono sacri, ma EVVIVA a chi
sa analizzare, creare , amare, divulgare e magari anche far discutere! Ebbene
dopo aver visto la Turandot al Regio di Torino con la maestosa direzione orchestrale
di Gianandrea Noseda e la visionaria messa in scena di Stefano Poda, credo che si possano definitivamente mandare
in soffitta archetipi ammuffiti e
stereotipate convinzioni! Per chi non l’avesse capito …ne sono uscito stregato
! E non perché (come dice qualcuno) parteggio per gli amici, ma perché le opere
d’arte vanno riconosciute ed io non metto bende sugli occhi, paraorecchi e
cerniere chiuse alle labbra…. Ed in grande rispetto ho atteso qualche giorno
prima di trasferire le emozioni, per non cadere nella trappola dell’eccessivo
entusiasmo scatenatosi nell’immediato.
La sublimazione di Turandot è avvenuta! Si,
Turandot, Liù e tutti i personaggi della narrazione sono stati sublimati e da uno
status che tutti gli amanti dell’opera conoscevano, si è passati ad un etereo
livello impalpabile, ma tremendamente reale. Quando a dirigere è un ispirato
Gianandrea Noseda e la messa in scena è realizzata genialmente da Stefano Poda
ben poco resta da aggiungere, salvo voler essere cavillosi, pretestuosi e conservatori a tutti i costi! Arcieri in bianco, il colore dominante
della scena insieme al nero, appaiono sul palco e vigorosa prorompe la
musica ed il primo livello di
beatidutine viene raggiunto. Rebeka
Lotar nel ruolo del titolo si vede sottratto il
finale, ma riesce comunque ad esprimere la limpidezza del suono e la sicurezza
nell’emissione. Liù commuove fino all’ultima corda grazie alla voce di Erika Grimaldi (cui il pubblico riserva
il più ampio tributo): è poesia allo stato puro, con modulazioni soffici e
vellutate armonizzate da un forte sentimento partecipativo ‘Signore ascolta...’ Jorge de León cresce man mano che l’opera procede per
giungere al ‘Nessun dorma’ del principe ignoto con convinzione e gradevolezza.
Timur è molto ben interpretato da In-Sung
Sim che esprime una cifra notevole per colore, autorevolezza e grazia.
Antonello Ceron è l’apprezzato
Imperatore Altoum, parimenti a Roberto
Abbondanza nel ruolo di un mandarino. Le tre maschere sono interpretate da
voci interessanti, anche Luca Casalin
per il quale hanno annunciato in apertura la non piena forma vocale, ma che ben
sa rendere Pang, come Mikeldi
Atxalandabaso nei panni di Pong; mi sento di spendere un particolare
positivo accenno a Marco Filippo Romano
che con sicurezza vocale e timbricità possente realizza Ping con la giusta
impronta portandolo con autorevolezza ad essere protagonista. Validi tutti gli interpreti ed un plauso al
coro che ogni volta miracolosamente incanta, quindi un plauso anche al
direttore Claudio Fenoglio. Gianandrea
Noseda, visibilmente soddisfatto canta tutta l’opera
mentre la dirige con una particolare dolcezza, votata alla totale sensibilità
in un crescendo di emozioni: se ancora serviva la prova che il maestro si
attesta fra le stelle di massima grandezza del firmamento musicale, dopo la
direzione di Turandot, non se ne ha più
bisogno! In sintonia epidermica con
l’orchestra trae echi di solennità imperiale che affascinano, quasi fosse la
prima volta che quei suoni si odono! Dalla buca e dal gesto di Noseda , si
alzano emozioni evocative dal sapore quasi intimisticamente religioso, di
grande suspense e di totale avvolgimento. L’atmosfera si fa a tratti rarefatta,
complici la musica e l’essenzialità delle scene del creatore Stefano Poda, il quale con la collaborazione
di Paolo Giani Cei ha curato regia,
scene, luci, costumi e coreografie. Le scene: il bianco è imperante e si
replica anche nei costumi, contaminati da qualche tratto di nero; anche le
parrucche sono bianche ed anche i succinti costumi che impediscono la nudità
totale. A questo proposito desidero sottolineare che l’utilizzo del nudo in
questo caso è frutto di ricerca ed indagine psicologica e di comunicazione; pur
trattandosi di una realizzazione sensuale risulta una delle più asessuate, per
scelta registica (vedi nota di regia riportata sotto). L’utilizzo del Butō
con la tenebrosità dei movimenti lenti ed improvvisamente convulsi e
frenetici affascinano e sorprendono sempre, così come è interessante la
moltiplicazione dei personaggi che muovendo la bocca paiono cantare all’unisono,
rendendo addirittura difficile l’individuazione dell’esatto punto di canto.
Forte l’immagine dei tavoli da obitorio con i cadaveri dei giovani decapitati
per ordine della ‘fredda’ Turandot e particolari le luci che la fanno da
padrone con suggestione ed avvolgente scelta. Della regia si può solo pensare
a tutto il tempo che è stato necessario
per raggiungere una narrazione visionaria, che partendo dalla favola del Gozzi,
arriva al novecento e lo supera proiettandosi verso spazi indefiniti e forse
solo sognati.
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