Foto: Edoardo Piva
Renzo Bellardone
Inventare,
senza stravolgere è certamente una dote importante per i registi d’opera. Dopo
anni ed anni di produzione, viene certamente il desiderio di innovare, nel
rispetto della composizione. Quando sentivo il nome Brockhaus, per assonanza
germanica mi immaginavo una casa da spaccare ed invece in questa Traviata, la
casa non viene spaccata, ma anzi raddoppiata se non immillata. Come anticipato nella prefazione di questa recensione emozionale, la casa parigina, quella di campagna, il
letto di morte non vengono spaccati, ma raddoppiati nell’immagine: un grande
specchio inclinato a fondo palco riflette appunto il palcoscenico e gli
interpreti che si muovono su teli
dipinti al pavimento: ripresi dagli specchi vengono a produrre la scena con la
rilucente duplicazione della stessa. Vincitrice del premio Abbiati 1993 la famosa
Traviata degli specchi dallo Sferisterio Opera Festival di Macerata approda con
successo al Regio di Torino. Fin dall’inizio i colori dei costumi ricchi
e sicuramente appropriati per sfarzo e design ideati da Giancarlo Colis movimentano sinergicamente la scenografia ingegnosa per semplicità e
grande effetto di Josef Svoboda, ripresa
da Benito Leonori. La regia di Henning Borckhaus è assolutamente
efficace e nulla a da vedere con altre ideazioni similari, ma non di tale resa; alla prima scena ci si ritrova
quasi in un baccanale ottocentesco a rimarcare la realtà della situazione senza
falsi moralismi e pregiudizi. All’impazzare del carnevale poi ed ancor più alla
danza delle zingarelle con i vivaci movimenti coreografici ideati da Valentina Escobar sale l’eros del
momento, giustamente a contrasto con l’immediato svolgimento della narrazione.
La regia risulta ricca di particolari come all’Addio al passato quando Violetta indossa un cappello per
simbolicamente ripercorrere i momenti brillanti della sua vita e poi su una
nota decisa, lo scalza dal capo con un gesto altrettanto deciso, a cacciare
quel travagliato passato.
Dell’orchestra del Regio e del superbo coro
diretto da Andrea Secchi, si può
solo continuare a dirne bene! L’orchestra è magistralmente diretta da Donato Renzetti e vien da dire “un
nome, una garanzia” infatti conduce con la tranquillità dei grandi traendo
mirabili suoni dal suo gesto armonioso. Il Coro è sicuramente tra i migliori
del panorama operistico nazionale e sempre è pietra angolare della messa in
scena. Irina Dubrovskaya è Violetta che interpreta con begli accenti, voce squillante, timbro
vivido e carica emotiva, indissolubile dalla dama delle camelie: le agilità le
riescono dinamicamente e valorizza i duetti quali croce e delizia con Alfredo interpretato dal tenore Giulio Pelligra: man mano che la
vicenda incalza questi acquisisce sempre più tono fino ad un bel volume che
contribuisce all’impeto di alcune pagine come in de’ miei
bollenti spiriti. Damiano Salerno
interpreta il padre Germont con fermezza e buon fraseggio Di Provenza il mare il suol, fino all’accoratezza finale. Elena Traversi è il contralto che
interpreta egregiamente Flora Bervoix, mentre il celebre ruolo di Annina è
affidato ad Ashley Milanese, come sempre efficace ed interessante. Bene
anche gli altri interpreti Luca Casalin,
Paolo Maria Orecchia, Dario Giorgelè, Mattia Denti, Luigi Della Monica, Franco
Rizzo e Riccardo Mattiotto. Al finale il grande specchio inclinato si
alza per porsi quasi verticale ed in questo modo riprende prima l’orchestra e
poi la platea che diviene un eclatante tutt’uno con la fine di Violetta e poi con
gli applausi al proscenio.
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