Foto: XII Festival Musicale Estense 2009
Massimo Crispi
Che cosa succede se il Reale Conservatorio dell’Aja decide di metter su come saggio finale degli allievi un’opera di Händel (il 2009 è il duecentocinquantesimo anno dalla morte), peraltro complessa e articolata come Agrippina? E che succede se viene rappresentata a Modena in forma scenica ma senza scene, solo con alcune pedane? Il rischio è grosso, oggi, perché non è facile far digerire a un pubblico molto diverso da quello dell’epoca un’intera opera settecentesca, con una gran massa di recitativi che, per l’appunto, sono interpretati da un cast per la maggior parte formato da artisti stranieri. L’intera “Operazione Agrippina” è un progetto del coltraltista britannico Michael Chance e quella di Modena era l’unica data italiana, inserita nel ricco festival Grandezze & Meraviglie, curato dall’Associazione Musicale Estense da ormai dodici anni. Quest’operazione è stata accolta con fervore dal direttore artistico Enrico Bellei, coll’intento di cercare di dare un’impronta più nazionale alla musica antica italiana, diventata da tanti anni, troppi, quasi esclusivo monopolio di operatori culturali e musicali di nazioni più avanti di noi nel campo della ricerca e della cultura ma che, per ovvi motivi linguistici e, appunto, culturali, hanno un approccio più difficile verso un’autentica dimensione idiomatica ed espressiva del nostro teatro musicale. Per questo Lavinia Bertotti, esperta esecutrice di barocco, ha istruito per due settimane i cantanti d’oltralpe nella declamazione, con discreti risultati, per lo più. Ma bisognerebbe farlo per molto più tempo e con uno studio accurato della dizione e della prosodia... e questo varrebbe anche per molti cantanti italiani che si mangiano le parole e che si ascoltano in produzioni internazionali, non solo barocche. I giovani artisti che componevano il cast formavano un melting pot di nazionalità e culture diverse ed era anche affascinante osservare come ognuno cercasse di esprimere il proprio Händel, più o meno adeguatamente. Quella che più ha colpito, per la sua disinvoltura linguistica, musicale e scenica è stata Stephanie True, Poppea. Non c’era una nota fuori posto neanche nei momenti in cui i dettami registici, non sempre funzionali, potevano squilibrare il suono e metterla in difficoltà. Il personaggio veniva ben fuori e lasciava trasparire che la True sarà una grande Susanna e Norina nel futuro immediato. In seconda fila la protagonista, Agrippina, cantata da Aylin Sezer, di grande carisma, bella figura e splendida voce. L’imperatrice spregiudicata e crudele, madre premurosa esclusivamente per ragioni di potere, moglie perfida e inaffidabile, sortiva dalla Sezer come se non avesse mai fatto altro nella vita. Le sue arie emergevano per un’eccellente attenzione al fraseggio e al timbro, con belle mezzevoci e suoni pieni nei forte, ma i recitativi, per motivi idiomatici e per un concetto di prosodia non perfettamente assimilato erano, purtroppo, un po’ trascurati e, alla lunga, siccome di recitativi ce n’è davvero tanti, a un orecchio italiano suonavano un po’ molesti. Eccellente anche il Nerone di Riccardo Strano, un giovane contraltista con grande energia che ha ben delineato il fanciullo capriccioso e inetto che viene fuori dal libretto di Vincenzo Grimani e, prima ancora, da Tacito e Svetonio. Si ripropone sempre e comunque il problema degli estremi acuti per i contraltisti, perché non c’è verso di sentirli ben cantati, mai. Alterno invece l’altro contraltista principale, Jan Kullmann, Ottone, i cui suoni erano talvolta non proprio a fuoco e i cui pianissimo eccessivi erano tutt’altro che teatrali, anche se il suo personaggio era scenicamente credibile.
Il povero Claudio, il basso Achim Hoffmann, doveva essere affetto da qualche malattia di raffreddamento stagionale e va elogiato per la sua resistenza fisica e interpretativa, oltre che per essersi prestato alla rappresentazione, pur se ingiudicabile dal punto di vista vocale, in questo caso. I due patrizi spasimanti di Agrippina, Pallante, David Greco, e Narciso, Santiago Cumplido, hanno ancora da imparare sia linguisticamente che come emissione, soprattutto il secondo, che ha esibito dei suoni di falsetto assolutamente sgradevoli e inventati. Tutti gli artisti erano perfettamente a proprio agio sul grande palcoscenico del Comunale di Modena ed è ammirevole il lavoro di rapporti tra i personaggi che il regista Floris Visser ha fatto sui giovani interpreti. Mancando però l’apparato scenico, che prevedeva una piscina e altri diversi elementi, non utilizzati nella recita di Modena, non si spiegavano i nudi e i costumi e il significato della sua regia ne soffriva. Da ciò che abbiamo compreso tutto era un po’ trattato come se si trattasse di un feuilleton all’americana, un po’ Dallas un po’ Beautiful, cogli intrighi di famiglia e i pettegolezzi tipici dei polpettoni televisivi, e, in effetti, quasi tutto tornava. Molto carina la presenza costante di Amore, un mimo, che scocca le sue frecce e segue ogni personaggio, facendo agguati e interagendo cogli amanti. Ed efficace anche come Agrippina, l’unica veramente incapace di amare nel suo egoismo senza limiti, lo metta fuori combattimento strappandogli le ali, alla fine. Ciò che ogni tanto, però, rallentava l’azione drammatica erano alcuni recitativi inutili e anche alcune arie non indimenticabili che avrebbero potuto essere tranquillamente omesse, così come si è omessa la parte cantata di Giunone, la dea ex machina che alla fine scioglie tutto e benedice gli sposi, sostituita da un mimo. Soprattutto in un allestimento senza scene, il tempo sembra non trascorrere mai e, infatti, la seconda parte dello spettacolo, dove avvengono più eventi, è risultata più scorrevole. Un’altra cosa che abbiamo trovato un po’ stucchevole e, soprattutto, inutile, erano le innumerevoli capriole da arlecchini goldoniani richieste a diversi artisti. Perché? E perché Narciso era presentato come uno spastico (capace di fare capriole, però, da atleta consumato)? Mah... Fa forse parte di una visione che del teatro settecentesco italiano potrebbero avere all’estero? L’orchestra del Conservatorio dell’Aja era diretta da Hernan Schvartzman che ha concertato il tutto in maniera convincente e con una grande attenzione ai fraseggi, da cui veniva fuori tutto il fascino timbrico e melodico della musica di un Händel trentaquattrenne, maturo, ma giovane e vitale al tempo stesso, intriso di italianità e di luce mediterranea. Questo, alla fine, pur essendo altamente professionale, era un saggio di conservatorio, ossia ciò che ogni conservatorio dovrebbe fare per i propri allievi che si dedicano alle arti rappresentative. Per di più con un’opera italiana del Settecento e quindi con uno sforzo culturale enorme in aggiunta. Tutto ciò ci dà la misura di come l’Italia, non investendo in nulla del genere mentre altri paesi di culture lontane e, forse, molto meno ricchi dell’Italia, lo fanno, sia ormai un paese barbarico. Ci permettiamo di citare l’ultracitato Marcel Proust che, a quanto pare, mostrava di avere una visione piuttosto chiara del mondo intorno a sé, già un secolo fa: “La vera terra dei barbari non è quella che non ha mai conosciuto l’arte ma quella che, disseminata di capolavori, non sa né apprezzarli né conservarli”. A buon intenditor
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