Foto: Leo Nucci Rolando (Francesco Foscari) - Paolo Guerzoni /Fondazione Teatro Comunale di Modena.
Massimo Crispi
Prima opera del Festival Verdi di Parma 2009, I due Foscari ha occupato tutto il mese di ottobre insieme a Nabucco. Noi abbiamo assistito alla recita nella sua trasferta modenese, ossia al Teatro Pavarotti, che ha coprodotto lo spettacolo insieme al Regio di Parma. L’allestimento era del Teatro Verdi di Trieste e del ABAO di Bilbao, a firma di William Orlandi per scene e costumi, Joseph Franconi Lee per la regia e Valerio Alfieri per le luci. I due Foscari è un’opera molto cupa di Francesco Maria Piave e parte da un ancor più cupo dramma di Byron, dove gli intrighi di corte, la ragion di stato e gli affetti familiari sono legati a filo doppio. Non è certamente una delle opere verdiane più popolari, né una delle più riuscite, ma già prelude, musicalmente soprattutto, a quello che sarà il Verdi successivo, quello di Rigoletto, Trovatore, Traviata. L’opera in sé dal punto di vista drammaturgico è un po’ noiosa, tutto è già accaduto e si gira e si rigira intorno alla sorte di Jacopo e dei suoi cari, ma già si sa che sarà condannato, che la moglie soffrirà etc etc. L’allestimento di Orlandi era elegante, con un enorme contenitore cilindrico dalle pareti scorrevoli che diventava ora Palazzo Ducale, ora carcere, ora tribunale, ora spazi non meglio definiti, ma che ben dava il senso della claustrofobia e dell’inviolabilità della sala del consiglio dei Dieci o delle prigioni; quando era necessaria più ariosità, come nella scena della festa, si aprivano vasti cieli pittorici o ampie vedute sulla laguna. Elegantissimi erano anche i costumi, pur se di epoche indefinite, un po’ ottocenteschi un po’ quattrocenteschi, e intesecantisi, chissà perché. Le luci di Alfieri davano ulteriore profondità agli spazi, che per il palcoscenico del teatro di Modena erano forse un po’ arrischiati nel proscenio, e riuscivano a inquadrare il carattere dei personaggi e le loro interazioni. La regia di Franconi Lee ha ottenuto un bel risultato soprattutto a livello attoriale, ma anche le scene di massa col coro erano ben gestite e i coristi hanno risposto con coerenza e diligenza, mostrandosi inoltre musicalmente preparatissimi (maestro del coro Martino Faggiani). Unica cosa forse superflua era, in un palcoscenico già affollato, fare muovere dei danzatori che, seppure pregevoli, non aggiungevano nulla all’atmosfera della festa in maschera. La parte del leone l’ha fatta naturalmente Leo Nucci, il doge Francesco Foscari, che ha reso il ruolo con una forza e una potenza anche solo stando immobile o muovendo solo un sopracciglio: è il carisma che sempre gli è appartenuto ma che in età avanzata e in ruoli come questo diventa sempre più intenso. Vocalmente superbo, doloroso come solo un padre che è costretto dalla ragion di stato a mandare a morte il figlio può essere, con mille lacerazioni, la sua partecipazione era sempre presente e la sua figura dominava ogni cosa. Un particolare per tutti: quando Lucrezia porta i figli suoi e di Jacopo al cospetto del suocero, per spingerlo a far qualcosa, il doge, seduto in trono cerca di accarezzarli sulla testa come farebbe un tenero nonno, ma subito ritrae la mano per un pudore repentino, perché si rende conto che in quel momento sta togliendo loro il padre, che poi è anche suo figlio... Come Nucci ha espresso con due gesti quasi impercettibili questo contrasto di sentimenti ci ha commossi. Immenso artista. Lucrezia Contarini era Tatiana Serjan, bella donna e grintosissima, che ha dato una carnale interpretazione, in ogni momento, della moglie, della madre e della nuora disperata che non sa cosa fare per salvare il marito, con una presenza vocale notevole ed educata. Purtroppo la declamazione risentiva di una non completa sicurezza della lingua italiana e non erano infrequenti fonemi poco chiari e vocali un po’ generiche, oltre a un vibrato molto stretto che ogni tanto confondeva le colorature. Ma il personaggio c’era, eccome! Jacopo Foscari, Roberto De Biasio, la cui voce ha un interessante registro centrale, è risultato discontinuo. Vocalmente, a parte qualche appannamento occasionale nel registro acuto, e dei falsetti un po’ dubbi anziché degli autentici piano, non era indegno, ma ciò che disturbava un po’ era la sua perpetua assenza tra una frase e l’altra. Era come se riemergesse nel suo ruolo di tanto in tanto, dopo le pause, più intento alle note che alla continuità del personaggio e questo soprattutto si notava, talvolta, nelle relazioni cogli altri personaggi nei brani d’insieme. Musicalmente ha fatto cose di pregio nelle due arie, sostenuto anche dalla buona orchestra del Regio diretta da Donato Renzetti, che ha diretto discretamente tutta l’opera, con due magnifici concertati. Discreto il Loredano di Roberto Tagliavini. Unica perplessità, nella scenografia. Nell’ultimo atto si vede il panorama dal Palazzo Ducale sulla laguna e sull’isola di San Giorgio, che sarebbe quello a cui tutti siamo abituati. Peccato che nel 1457, anno in cui si svolgerebbe la vicenda, la facciata del Palladio della chiesa di San Giorgio non esistesse... la realizzazione del progetto fu iniziata nel 1597 e fu terminata dopo poco più di dieci anni. È stato come mettere la Tour Eiffel nell’Andrea Chenier. Grande successo di pubblico.
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