Foto: Massimo D’Amato, Firenze / Teatro Verdi di Pisa
Massimo Viazzo
Le opere del ‘600 entrate stabilmente in repertorio si contano sulla punta delle dita di una mano. E forse non servono neanche tutte le dita… Le disgrazie d’Amore di Antonio Cesti non pretendono certo di stravolgere questo striminzito elenco, ma rappresentano comunque una riproposta ragguardevole nell’ambito del progetto Tesori Musicali Toscani curato dal flautista Carlo Ipata e dal suo ensemble filologico Auser Musici. «Er galt als einer der größten Komponisten seiner Zeit» recita la frase che conclude l’encomio sulla targa esposta nella Domplatz di Innsbruck davanti a quella che fu l’abitazione del musicista aretino (di fianco alla Jakobskirche) nel suo secondo soggiorno in Tirolo. Chi mastica un po’ di storia dell’opera sa delle leggendarie (e faraoniche) rappresentazioni de Il pomo d’oro tenutesi a Vienna nel 1668 in occasione del matrimonio tra l’imperatore Leopoldo I e Margherita Teresa di Spagna. Ma tornando all’insegna della Domplatz e cioè al fatto che Antonio Cesti «è considerato uno dei più importanti compositori del suo tempo» mi chiedo se possa bastare un solo lavoro (Il pomo d’oro, appunto) a procurare fama perenne al suo autore… Oltre ad una settantina di cantate e a qualche mottetto il catalogo delle opere di Cesti comprende anche una decina di titoli operistici. La curiosità di ascoltarne uno in prima esecuzione moderna non può essere quindi liquidata come semplice chicca o curiosità. Oltretutto l’operazione Le disgrazie d’Amore non pare improvvisata avendo lo stesso gruppo di interpreti atteso qualche mese fa ad una registrazione discografica (Hyperion). In breve si tratta di un dramma giocosomorale, più giocoso che morale a parer mio, su libretto (molto divertente) di Francesco Sbarra, lo stesso de Il pomo d’oro, andato in scena nell’ambito dei festeggiamenti biennali riferiti al matrimonio imperiale di cui sopra. Ma a differenza della sfarzosa «festa teatrale» ci troviamo qui di fronte ad un plot di chiara matrice allegorica, con le allegorie stesse tendenti alla personificazione. Così, ad esempio, Avarizia è l’ostessa che gestisce una locanda, Inganno un ciarlatano e Adulazione l’indovina che legge il futuro. Amore, invece, è fatto merce di scambio, venduto, comprato, barattato, imbrigliato e imbrogliato sullo sfondo dell’esilarante vicenda coniugale dell’improbabile coppia costituita dall’avvenente e vanesia Venere, nella visione di Medcalf un’attricetta egocentrica intenta solo a curare il proprio aspetto esteriore, e dall’attempato e claudicante Vulcano un imprenditore del settore metallurgico sempre in doppio petto grigio con set di trolley al seguito in tallonamento perenne della moglie farfallona. Naturalmente nel Prologo Allegria mette in guardia tutti dagli Dei falsi e bugiardi, ma alla fine dell’opera la stessa Allegria ci libera da ogni vizio e perversione a colpi di croce cristiana consumando così la vittoria, ovvia, del Cattolicesimo. Stephen Medcalf predispone un’attualizzazione «dolce» (niente Regietheater…) costruendo uno spettacolo di facile lettura, immediato e, viste le reazioni del pubblico, molto apprezzato. Lo spazio scenico rimane sostanzialmente vuoto, pochi gli oggetti in vista, mentre i vari ambienti (la fucina di Vulcano nel primo atto o il bosco dove tramano Inganno e Adulazione nel secondo) vengono definiti attraverso un uso azzeccato delle luci. E poi gli stessi solisti e strumentisti sono parsi davvero all’altezza della situazione. Carlo Ipata, che ha operato solo alcuni tagli sui recitativi del secondo e del terzo atto, ha lavorato con perizia sulla resa del basso continuo (inutile sottolineare la lacunosità del manoscritto in termini di strumentazione) declinandolo, senza strafare, in combinazioni timbriche variegate, ma sempre sobrie, atte principalmente a sottolineare l’entrata di un personaggio o il mutamento di una situazione. Ottima, come dicevo, la squadra dei solisti di canto con una menzione particolare per Furio Zanasi, un Vulcano scontroso ma anche rassegnato, che ha cesellato le frasi con la consueta dizione pregiata, e Maria Grazia Schiavo, una Venere capricciosa, lunatica, esuberante in scena e sicura vocalmente. Ma ciò che conta è che Le disgrazie d’Amore sul palcoscenico funzionano! La partitura è esuberante nel suo proporre sempre nuove soluzioni formali (anche, e soprattutto, inattese). E poi le sinfonie strumentali sono veri e propri gioielli. Alcuni brani potrebbero addirittura diventare degli hit del teatro barocco (come l’Aria di Avarizia Io non mi lusingo, oppure lo sfogo quasi händeliano di Vulcano Signor bravo o ancora il Duetto fiorito tra Vulcano e il ciclope Bronte nel primo atto O mostro rabbioso). Ma di pagine riuscite la partitura è proprio zeppa. Dunque nell’attesa che Carlo Ipata e i suoi garbati Auser Musici accrescano la nostra consapevolezza sulla grandezza del compositore toscano non ci resta che proferire un bel… Viva Cesti!
Versión en español
Foto: Massimo D’Amato, Firenze / Teatro Verdi di Pisa
Versión en español
Foto: Massimo D’Amato, Firenze / Teatro Verdi di Pisa
Massimo Viazzo
Las operas de inicios del siglo diecisiete que se mantienen constantemente en repertorio, se cuentan con los dedos de una mano. Aun así, es probable que tampoco sirvan todos los dedos. Le disgrazie d’Amore di Antonio Cesti, sin pretender agraviar al fugaz elenco, representó ser una importante reposición en el ámbito del proyecto Tesori Musicali Toscani liderado por el flautista Carlo Ipata y su ensamble filológico Auser Musici. «Er galt als einer der größten Komponisten seiner Zeit» recita la frase que concluye el elogio en la placa expuesta en la Domplatz de Innsbruck frente a la que fue la residencia del músico aretino (al lado de la Jakobskirche) en su segundo estancia en el Tirol.
Quien mastica un poco de historia de la opera sabe de la legendaria (y faraónica) representación de Il pomo d’oro representada en Viena en 1668, con motivo del matrimonio entre el emperador Leopoldo I y Margarita Teresa de España. Pero volviendo a la insignia de la Domplatz y al hecho que Antonio Cesti «es considerado uno de los compositores mas importantes de su tiempo» me pregunto si puede bastar una sola obra (Il pomo d’oro, apunto) para procurarle fama perene al autor. Además de alrededor de setenta cantatas y algunos motetes, el catalogo de Cesti comprende también una decena de títulos operísticos. La curiosidad de escuchar uno de ellos en su primera ejecución moderna no puede ser, por lo tanto, liquidada como una simple perla o rareza. Encima de ello, la operación Le disgrazie d’Amore no parece ser improvisada cuando el mismo grupo de interpretes realizó hace algunos meses una grabación discográfica (para el sello Hyperion). En resumen, se trata de un drama giocosomorale, mas jocoso que moral a mi parecer, con un libreto (muy divertido) de Francesco Sbarra, el mismo de Il pomo d’oro, llevada a escena en el ámbito de los festejos bienales pertenecientes al ya mencionado matrimonio imperial. A diferencia de la opulenta «festa teatrale» nos encontramos de frente a un plot de clara raíz alegórica, con la alegoría misma propensa a la personificación. Así, por ejemplo, Avarizia es la hostelera que administra una posada. Inganno, un charlatán y Adulazione una adivinadora del futuro. A su vez, Amore hace intercambio de mercancías, compra, venta, trueque, trabado y enredado, sobre el fondo del excitante acontecimiento conyugal de la improbable pareja constituida por la atractiva y engreída Venere, que en la visión de Medcalf es una actriz egocéntrica deseosa de cuidar solo su propio aspecto exterior, y por el avejentado y claudicante Vulcano, un empresario del sector metalúrgico siempre con doble pecho gris, con set de trolley que siguió de cerca perennemente a la engañosa mujer. Naturalmente en el Prologo Allegria nos puso en alerta a todos de los dioses falsos y mentirosos, y al final de la opera, fue la propia Allegria quien nos liberó de cada vicio y perversión a golpe de cruz cristiana, consumando así la victoria, obvia, del catolicismo. Stephen Medcalf propuso una actualización dulce «dolce» (nada de Regietheater…) construyendo un espectáculo de fácil lectura, inmediato y, en vista de las reacciones del publico, también muy apreciado. El espacio escénico permaneció sustancialmente vacío, con pocos objetos a la vista, mientras los variados ambientes (como la fundidora de Vulcano en el primer acto o el bosque en el que intrigan Inganno y Adulazione en el segundo) se definieron por medio del uso de rayos de luz. Además, los propios solistas y músicos parecieron verdaderamente estar a la altura de la situación. Carlo Ipata, que realizó solo algunos cortes a los recitativos del segundo y tercer acto, trabajó con pericia en la interpretación del bajo continuo (aunque es inútil subrayar las lagunas del manuscrito en términos de instrumentación) declinándolo, sin sobrepasarse, y con abigarradas variaciones timbricas, siempre sobrias, y encauzadas principalmente a enfatizar la entrada de un personaje o el cambio de una situación. Óptima, como ya señalé, estuvo la escuadra de solistas de canto, con una mención particular para Furio Zanasi, un Vulcano hosco pero también resignado, que cinceló las frases con su habitual y preciada dicción, y Maria Grazia Schiavo, una Venere caprichosa, lunática, exuberante en escena y segura vocalmente. Pero lo que cuenta es que Le disgrazie d’Amore sobre el escenario ¡funciona! La partitura es exuberante y propone siempre nuevas soluciones formales (que también son sobretodo, inesperadas). Las sinfonías instrumentales son verdaderas joyas, y algunas piezas podrían verdaderamente convertirse en hits del teatro barroco (como el aria de Avaricia Io non mi lusingo, o también el desfogue casi händeliano de Vulcano Signor bravo, y aun el florido dueto entre Vulcano y el ciclope Bronte del primer acto. O mostro rabbioso). Con sus paginas exitosas, la partitura es un justo parte aguas. Por lo tanto la expectativa de que Carlo Ipata y su comedida agrupación Auser Musici acrecentaran nuestro conocimiento de la grandeza del compositor toscano no nos lleva mas que proferir un gran….¡Viva Cesti!
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