Giosetta Guerra.
L’allestimento delle opere rare al Teatro delle Muse di Ancona crea sempre un forte impatto visivo, che rimane negli occhi anche a distanza di tempo. Quindi è azzeccata la scelta di non far seguire nient’altro alle opere rare, seppur brevi o brevissime come nel caso di Hin und Zurück e L’heure espagnole che insieme durano solo 75 minuti. Eravamo un po’ perplessi prima di entrare, ma siamo usciti convinti e soddisfatti, anche se, come è consuetudine da qualche tempo, l’allestimento scenico prevale sulla musica. E Stefano Poda nelle vesti onnicomprensive di scenografo, regista, costumista, coreografo, disegnatore luci, si è imposto all’attenzione del pubblico. La bellezza delle scene, visionarie ma attinenti, incollate ai protagonisti ma in continua evoluzione con l’ausilio di proiezioni e di cambi di luci, la sobria eleganza dei costumi femminili e l’austerità con qualche stravaganza di quelli maschili, la simbologia dei movimenti meccanizzati (nell’opera di Ravel una breve teoria di uomini in bianco scandisce i minuti con passettini e scatti, in quella di Hindemith alcuni personaggi gesticolano e non ho capito perché), la presenza dell’alter ego dei personaggi in un gruppo speculare e contrapposto in quella di Hindemith, l’uso di soli tre colori a forte contrasto (nero, rosso e bianco), con l’aggiunta dell’argento lavico per le pareti e gli ingranaggi dell’orologio della seconda opera e del nero traslucido delle pareti a specchio e del pavimento riflettente per la prima, contribuiscono a captare l’attenzione degli spettatori su queste due storie tra loro contrastanti (la prima drammatica ma sdrammatizzata se vista al rovescio, la seconda piccante e intrisa di amaro opportunismo), ma unite dal tema del tempo che va a ritroso nell’opera di Hindemith e va avanti in quella di Ravel. Due letti neri alla turca ai lati del palcoscenico e tante lettere dell’alfabeto argentee traslucide dondolanti dal soffitto sono gli elementi scenografici della prima opera, il passaggio alla seconda avviene gradualmente con l’introduzione di un grosso pendolo argenteo filigranato oscillante, di una serie di clessidre di cristallo sospese, di due metronomi che segnano il tempo e si trasformano in pendole, di una fantastica cascata d’acqua sul retro, di un grosso ingranaggio d’orologio che scandisce le ore, di una calda pioggia di petali rossi sulla protagonista alle prese col primo amante, petali che formano un prato rosso sul pavimento nero. Non manca la seminudità degli uomini nell’opera di Ravel. Tutto in un’atmosfera visionaria di grande fascino. Il lavoro di Stefano Poda è una sorta di work in progress, perché scivola dalla prima alla seconda opera gradualmente senza stacchi, toglie, aggiunge, modifica gli elementi scenici con la complicità delle luci, sì che lo spettatore, in attesa di un intervallo dopo la prima opera (anche se di soli 12 minuti), si domanda perché i protagonisti riprendano a cantare se la vicenda era conclusa, poi si rende conto invece di trovarsi in un’altra atmosfera perché sente che la musica è cambiata e si accorge solo dopo che anche gli elementi scenici hanno un altro significato. Una mente geniale. Vediamo le trame.
L’HEURE ESPAGNOLE (L’ora spagnola), farsa boccaccesca di Franc-Nohain sulle peripezie di una giovane sposa di Toledo, fu vista all’Odéon da Maurice Ravel che ne restò fortemente impressionato, sì che la mise in musica in breve tempo e ne fece una commedia musicale in un atto, rappresentata per la prima volta a Parigi, Théâtre National de l’Opéra Comique, il 19 maggio 1911. Parla dell’orologiaio Torquemada che ogni giovedì, sempre alla stessa ora, ha l’incarico di regolare gli orologi del municipio, delle chiese e delle torri del paese. E la moglie ne approfitta per ricevere i suoi amanti. Ma questo giovedì, mentre sta per uscire, si presenta Ramiro, un giovane e vigoroso mulattiere, per farsi riparare un orologio. Conception, la focosa moglie di Torquemada, esorta il marito a sbrigare il suo incarico municipale, lui va dicendo a Ramiro di aspettarlo lì in bottega. Conception, contrariata, cerca un escamotage per usufruire della sua ora di libertà: chiede a Ramiro di portare una grossa pendola nella sua camera da letto al piano superiore. Puntuale arriva il poeta Gonzalve e Conception lo fa nascondere in un’altra pendola. Ramiro ritorna e la donna lo prega di riportare giù la prima pendola e di portare su in camera la seconda con dentro Gonzalve. Frattanto si presenta un altro amante, il ricco banchiere Don Inigo Gomez, ma lei non gli dà retta e accompagna Ramiro con la pendola occupata da Gonzalve al piano superiore. Don Inigo si nasconde allora nella prima pendola. Conception si intrattiene col poeta che si prodiga in effusioni liriche, ma non arriva al sodo, perciò fa riportare la pendola con il carico inconcludente al piano inferiore e fa trasportare in camera sua quella con dentro il vanesio Don Diego, che però è incapace di uscir fuori dalla pendola e così Ramiro deve riportare giù anche la pendola con Don Inigo. Conception comprende a questo punto che il prestante Ramiro è l’unico in grado di appagare i suoi desideri e chiede al mulattiere di seguirla in camera da letto senza pendola. Al suo ritorno Torquemada potrebbe immaginare cosa sia successo, ma troppo grande è la sua gioia quando scopre nelle sue pendole due clienti ai quali potrà venderle a caro prezzo. Per questo dittico gli interpreti, tutti all’altezza dei loro ruoli, sono gli stessi. L’unica donna cantante è il noto mezzosoprano Sonia Ganassi (Helene moglie di Robert e Concepcion moglie di Torquemada), al suo debutto in scena nel repertorio del 900, che calca il palcoscenico con l’allure della primadonna (buffa in questo caso), interpreta con grande precisione i due personaggi, esibisce il suo bel timbro brunito, vibrante e ricco di armonici, una tessitura acuta luminosa, una zona grave non sempre sonora, voce agile ed estesa, fluidità d’emissione, incisività d’accento e di fraseggio. Lo spagnolo Vicenç Esteve (Robert e lo studente Gonzales) esibisce una vocalità estesa e limpida di tenore chiaro e brillante che si espande in filati; l’inglese Nicolas Rivenq (Il professore e il mulattiere Ramiro tutto muscoli) è un baritono leggero; Giovanni Battista Parodi (L’infermiere e il banchiere Don Inigo Gomez che entra spargendo banconote) possiede una bella voce di basso, corposa ed estesa; il francese Thomas Morris (Il saggio e l’orologiaio Torquemada) è un tenore che usa anche il falsetto; Cristiane Hunger è la cameriera e Gilda Bartoccetti la zia Emma che non canta. A preparare e a dirigere l’Orchestra Filarmonica Marchigiana per queste opere “nuove” viene sempre chiamato ad Ancona il M° Bruno Bartoletti, sempre aperto alle novità nonostante i suoi 84 anni, che coglie la tinta delle partiture e non invade mai il palcoscenico con sonorità debordanti.
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