Roberta Pedrotti
Non c’è pace all’ombra di Castellor: per i superstiziosi questo tormentato Trovatore che ha inaugurato il Festival Verdi 2010 potrebbe fare invidia alla Forza del destino; per chi si affida alla razionalità resta la riflessione sui parecchi problemi abbiano condizionato l’intera produzione. Già alla generale si erano avute le indisposizioni del baritono titolare, Claudio Sgura, e della prima Leonora, Norma Fantini, sostituiti in extremis da Leo Nucci, impegnato nelle prove dei Vespri siciliani, e Teresa Romano, già prevista in seconda compagnia. Nucci sosterrà anche la prima, che vede il rientro della Fantini ma anche pesanti contestazioni all’indirizzo dell’unica Azucena in cartellone, Marianna Tarasova. Ed ecco che alla vigilia della seconda recita viene annunciato “seguito all’acutizzarsi dell’indisposizione” del mezzosoprano subentrano per tutta la produzione Mzia Nioradze e Irina Mishura. Abbiamo ascoltato la prima, cui va reso l’onore delle armi anche in virtù della vigorosa partecipazione scenica, che ne ha fatto un’Azucena insolitamente pugnace e aggressiva. La voce ha qualche spigolo, ma risolve comunque la parte in maniera tutto considerato attendibile. Un’ulteriore variazione nel cartellone ci ha accolti in teatro la sera del 5 ottobre, con Teresa Romano nuovamente chiamata a riprendere la Fantini, afflitta da una tracheite. Proprio il caso del venticinquenne soprano, vincitrice del concorso Voci Verdiane a Busseto nel 2008, è drammaticamente emblematico e impone una riflessione, se la critica ha un senso che non sia solo quello della cronaca d’un successo o di un insuccesso. Perché la signorina Romano è giovanissima, ha un certo temperamento, qualche bella intuizione di fraseggio e una voce con grandi potenzialità, ma è gettata in un cimento rischiosissimo (ricordiamo che non era una copertura o una sostituzione dell’ultimo momento, ma che partiva già con quattro recite su otto in cartellone e che nella scorsa estate è stata Leonora nella Forza del destino a Macerata) senza averne minimamente i mezzi tecnici, ma risolvendo dolorosamente ogni salita nel pentagramma con vere e proprie urla sovente stonate. In una parte come questa che impegna intensamente il registro acuto questa mancanza di controllo tecnico (giacché l’impressione non è di una voce “corta”, ma di un’organizzazione precaria) la espone a una serie di cadute al limite del disastro. Lo scriviamo con grande dispiacere ma solo per rimarcare come il mercato attuale, ché di mercato si tratta, possa nuocere ad un potenziale giovane talento, cui sarebbe stato da raccomandare uno studio intenso sui propri oggettivi problemi tecnici, cui sarebbero stati da suggerire e proporre ruoli meno rischiosi e più defilanti. Ci auguriamo che la signorina Romano abbia la forza la consapevolezza e la volontà per dire in futuro più no e soffermarsi a consolidare il proprio bagaglio tecnico. Il loggione, con galanteria, l’ha risparmiata, ma non si è potuto esimere dallo zittire con decisione l’applauso d’incoraggiamento che tentava di premiare un’esecuzione dell’aria del quarto atto che proprio per il bene della cantante non poteva e non doveva essere incoraggiata. Agli antipodi sta il Conte di Luna di Claudio Sgura, cui dobbiamo riconoscere ad ogni prova una scintilla artistica che vivifica ciascun personaggio, da Macbeth al Doge Foscari al tormentato fratello di Manrico. Non un interprete epocale forse, ma profondamente sincero e personale, qualità assai preziose che in questa occasione lo portano all’azzeccata caratterizzazione di un giovane cavaliere innamorato, reso intimamente fragile dal sentimento tenero e non corrisposto, un uomo della sua epoca, un condottiero in tempo di guerra civile come lo è il trovatore seguace d’Urgel, non certo, quindi, una figura negativa. Sotto il profilo vocale in una delle parti più acute e belcantistiche del suo repertorio si può segnalare una certa tendenza a comprimere il suono, che potrebbe invece trovare una più ampia e libera cavata, ma si è tratta di osservazioni marginali per quella che è stata comunque la prestazione migliore della serata. Più complesso il discorso per Marcelo Alvarez, che tornava al Regio nel ruolo debuttato con grande successo proprio nel Festival Verdi 2006: indubbiamente in questi anni ha approfondito il personaggio, ricercando un approccio sempre più personale soprattutto per quanto concerne i contrasti dinamici. Il risultato è evidente nel quarto atto, dove Alvarez punta su tratti perfino intimisti, alternando impeto e sussurro, passione e ripiegamento fin quasi ai limiti di un manierismo, nel quale per fortuna non scade.
L’interprete vuole insomma distinguersi rispetto al Manrico deludente e monocorde ascoltato in Arena quest’estate ed è evidente che l’appuntamento con il pubblico parmigiano a quattro anni dal debutto abbia spinto il tenore alla massima concentrazione. Tuttavia, forte ora più dello splendore naturale del timbro che di autentico squillo, nonostante questa evoluzione e l’acquisita sicurezza, il cantante e il musicista si espongono a maggiori rilievi, evidenti soprattutto nel terzo atto, quello meno riuscito per Alvarez, che propone un “Ah sì ben mio” alquanto arbitrario nel fraseggio e nel solfeggio, tentando trilli piuttosto goffi – a questo punto si sarebbero potuti spianare, tanto più che non si trattava certo di un’esecuzione integrale e filologica –, nonché una Pira non solo orbata del da capo e delle frasi che precedono la puntatura finale, taglio già effettuato nel 2006, ma soprattutto abbassata, mentre al debutto l’affrontò in tono. Non era questo comunque l’unico colpo di forbice apportato ad una partitura che soprattutto in sede di festival dovrebbe vivere nella completezza delle sue proporzioni originarie, alterabili solo per occasionali e ben precise esigenze artistiche. Questo non ci è parso il caso della lettura di Yuri Temirkanov che purtroppo delude mostrando ben poca dimestichezza con il repertorio italiano e segnatamente verdiano, perdendo l’occasione di delineare un proprio percorso personale a partire dalla Traviata di tre anni fa, assai più levigata ed elegante, per quanto a nostro parere non memorabile. Non ritroviamo nemmeno il piacere sorridente di far musica e la partecipazione che avevano condotto il Mendelsohnn di Sogno di una notte di mezz’estate della scorsa stagione, né quella stessa perfezione discografica dello strumentale, che suona qui al di sotto delle note potenzialità dell’orchestra del Regio. Sembra quasi che il maestro russo non ami questa musica e si abbandoni a fragori e ritmi dei più scontati, delibando talvolta lentezze perfino estenuate, spesso perdendo la coesione dell’insieme e il senso del canto. Un vero peccato perché Temirkanov è, nel suo repertorio, direttore immenso, ma evidentemente non trova affinità con la struttura formale, l’afflato lirico ed epico del Trovatore. Poco contribuisce, peraltro, alla resa di questo afflato anche lo spettacolo pensato da Lorenzo Mariani, con i costumi – invero bruttarelli, specie per le donne – e la scena – un piano illuminato da una fredda luce lunare che occasionalmente si tinge di sangue – di William Orlandi. La regia si muove nel solco della tradizione e della convenzione, favorita dalle luci di Christian Pinaud, ma con almeno un paio di momenti che converrebbe perfezionare per una ripresa futura: l’apparizione di Manrico che da solo terrorizza tutti i seguaci del Conte nel finale secondo sfiora il ridicolo e consiglieremmo di rivedere la camera nuziale di Castellor, con il lettone circondato da immensi ceri elettrici a lampadina e Manrico che srotola una pergamena durante il suo cantabile (un testamento poetico? Il contratto nuziale?). Alla fine, comunque, benché non entusiastici, applausi per tutti gli interpreti, fra i quali dobbiamo ricordare anche il Ferrando di Deyan Vatchkov, che si disimpegna onestamente nel racconto del primo atto, suonando più fioco nel prosieguo; Cristina Giannelli, Ines; Roberto Jachini Virgili, Ruiz; Enrico Rinaldo un vecchio zingaro ruvido e vigoroso; Seung Hwa Park uno squillante messo. Il coro è sempre ottimamente preparato da Martino Faggiani, ma patisce un accordo non perfetto con il podio. Davvero un peccato.
L’interprete vuole insomma distinguersi rispetto al Manrico deludente e monocorde ascoltato in Arena quest’estate ed è evidente che l’appuntamento con il pubblico parmigiano a quattro anni dal debutto abbia spinto il tenore alla massima concentrazione. Tuttavia, forte ora più dello splendore naturale del timbro che di autentico squillo, nonostante questa evoluzione e l’acquisita sicurezza, il cantante e il musicista si espongono a maggiori rilievi, evidenti soprattutto nel terzo atto, quello meno riuscito per Alvarez, che propone un “Ah sì ben mio” alquanto arbitrario nel fraseggio e nel solfeggio, tentando trilli piuttosto goffi – a questo punto si sarebbero potuti spianare, tanto più che non si trattava certo di un’esecuzione integrale e filologica –, nonché una Pira non solo orbata del da capo e delle frasi che precedono la puntatura finale, taglio già effettuato nel 2006, ma soprattutto abbassata, mentre al debutto l’affrontò in tono. Non era questo comunque l’unico colpo di forbice apportato ad una partitura che soprattutto in sede di festival dovrebbe vivere nella completezza delle sue proporzioni originarie, alterabili solo per occasionali e ben precise esigenze artistiche. Questo non ci è parso il caso della lettura di Yuri Temirkanov che purtroppo delude mostrando ben poca dimestichezza con il repertorio italiano e segnatamente verdiano, perdendo l’occasione di delineare un proprio percorso personale a partire dalla Traviata di tre anni fa, assai più levigata ed elegante, per quanto a nostro parere non memorabile. Non ritroviamo nemmeno il piacere sorridente di far musica e la partecipazione che avevano condotto il Mendelsohnn di Sogno di una notte di mezz’estate della scorsa stagione, né quella stessa perfezione discografica dello strumentale, che suona qui al di sotto delle note potenzialità dell’orchestra del Regio. Sembra quasi che il maestro russo non ami questa musica e si abbandoni a fragori e ritmi dei più scontati, delibando talvolta lentezze perfino estenuate, spesso perdendo la coesione dell’insieme e il senso del canto. Un vero peccato perché Temirkanov è, nel suo repertorio, direttore immenso, ma evidentemente non trova affinità con la struttura formale, l’afflato lirico ed epico del Trovatore. Poco contribuisce, peraltro, alla resa di questo afflato anche lo spettacolo pensato da Lorenzo Mariani, con i costumi – invero bruttarelli, specie per le donne – e la scena – un piano illuminato da una fredda luce lunare che occasionalmente si tinge di sangue – di William Orlandi. La regia si muove nel solco della tradizione e della convenzione, favorita dalle luci di Christian Pinaud, ma con almeno un paio di momenti che converrebbe perfezionare per una ripresa futura: l’apparizione di Manrico che da solo terrorizza tutti i seguaci del Conte nel finale secondo sfiora il ridicolo e consiglieremmo di rivedere la camera nuziale di Castellor, con il lettone circondato da immensi ceri elettrici a lampadina e Manrico che srotola una pergamena durante il suo cantabile (un testamento poetico? Il contratto nuziale?). Alla fine, comunque, benché non entusiastici, applausi per tutti gli interpreti, fra i quali dobbiamo ricordare anche il Ferrando di Deyan Vatchkov, che si disimpegna onestamente nel racconto del primo atto, suonando più fioco nel prosieguo; Cristina Giannelli, Ines; Roberto Jachini Virgili, Ruiz; Enrico Rinaldo un vecchio zingaro ruvido e vigoroso; Seung Hwa Park uno squillante messo. Il coro è sempre ottimamente preparato da Martino Faggiani, ma patisce un accordo non perfetto con il podio. Davvero un peccato.
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