Roberta Pedrotti
L’elisir d’amore, Nemorino, Rolando Villazón. Una voce brunita, virile e un aspetto quasi fiabesco, giocoso e ingenuo si sposano in un connubio singolare, dove l’arte e la poesia colmano lo iato apparente, perché Nemorino è anche un uomo, un uomo che freme, che ribadisce con vigore, nel duetto con Adina, che non gli è possibile rinunciare al suo amore, ma è un uomo semplice, cosciente dei suoi limiti culturali, che compensa quindi con i gesti, con il linguaggio del corpo l’insufficienza della parola al suo desiderio di comunicare. Villazon con una sincerità, una semplicità disarmanti, crea un personaggio complesso e profondo, un piccolo poeta surreale che si muove con la leggerezza di un bambino, ma non è infantile, piuttosto è partecipe dello spirito veggente e artistico del fanciullino pascoliano. La forza è proprio nel pensiero complesso che sta a monte delle sue interpretazioni, nell’elaborazione intellettuale e nella gestione intelligente di un istinto geniale, ma non incontrollato, bensì dominato nell’equilibrio e nella sinergia fra mente, cuore e corpo. Villazon è Nemorino, fa vivere Nemorino in ogni minimo gesto, in ogni espressione del volto, in ogni inflessione della voce, ed è musicalissimo, perché non v’è azione che non risponda a un suggerimento della partitura, perché il suo fraseggiare è sempre e comunque nella musica. Non in senso classico, magari, ma estremamente personale e infine entusiasmante per l’energia plastica che sa imprimere alla frase, per quell’intreccio unico fra rigore e libertà, fra pensiero ed emozione, per il pathos concentrato nel gesto di un Pierrot ritratto da Picasso. Un artista come questo, unico e irripetibile, immediatamente riconoscibile, lunare e solare, uomo e fanciullo, reale e fiabesco, è inevitabile si imprima anche al canto, al fraseggio, un’impronta inimitabile. Un’impronta tale da porre in secondo piano l’inevitabile prudenza nell’emissione da parte di chi, ricordiamo, ha subito pochi mesi fa un intervento alle corde vocali per la rimozione di una ciste congenita (giacché, è giusto ribadirlo, a differenza di noduli e polipi, l’eziologia delle cisti è del tutto indipendente dall’uso più o meno intenso dell’apparato fonatorio e dall’impostazione tecnica); ma non è la perfezione strumentale che si chiede a Villazon, che peraltro è musicista scrupoloso, nonché ricercatore attento e curioso del repertorio, perché il tenore messicano riesce a rendere ogni suono, quale esso sia, vibrante d’espressione e di senso teatrale.
Un dono e una conquista artistico-intellettuale che impressiona soprattutto nell’epoca della superficialità e dell’emozione a buon mercato e a tutti i costi: l’emozione, in questo caso, proviene sì da un talento naturale, ma soprattutto da un percorso musicale e personale di grande profondità, deve la sua immediata comunicativa proprio dal pensiero che la origina. Non è un caso, quindi, che il tenore appaia attore duttile e versatile, capace di adattarsi ai più diversi allestimenti mantenendo la propria personalità ma senza ripetere se stesso come un cliché. Questo Nemorino che sembra impossibile non amare è lo stesso che abbiamo visto in DVD da Vienna con la regia di Otto Schenk, ma è anche nuovo, il Nemorino della visione di Laurent Pelly, che trasporta l’azione in un’assolata campagna neorealista del nostro secondo dopoguerra. Lo spettacolo in coproduzione con Londra e Parigi, con i costumi dello stesso Pelly e le scene di Chantal Thomas, ripreso da Hans Christian Rath è indubbiamente simpatico, simpatico come è – quasi – sempre L’elisir d’amore, opera nella quale è indubbiamente difficile dire realmente qualcosa di nuovo, ma della quale è parimenti pressoché impossibile offuscare la scintillante teatralità. Qualche passaggio non sembra ben risolto (per esempio non è chiaro perché il coro lasci solo Dulcamara nella sua sortita rientrando poi senza alcuna apparente ragione eccetto il pertichino che Donizetti gli impone di cantare), ma si sorride, l’azione è chiara, la scena, poco accattivante per chi desidera solo ridenti villaggi di fiaba, è molto azzeccata e ben realizzata per chi pensa che ci si possa stendere al sole, amare, stuzzicare, vivere e cantare anche fra balle di fieno e trattorie del XX secolo.
L’opera, dopotutto, parla a tutte le epoche e l’opera buffa soprattutto vive di un peculiare realismo incantato. Dal punto di vista visivo, poi, dal Nemorino tenero e vibrante di Villazon, al Dulcamara poco rassicurante di Maestri e alla bella semplicità dell’Adina della Irina Lungu, il cast appare visivamente efficace e ben amalgamato. Sotto il profilo strettamente vocale il soprano convince più che in precedenti occasioni: questa vocalità brillante non è propriamente la più congeniale ai suoi mezzi di lirico puro, ma la giovane rumena ormai italiana d’adozione cresce in corso d’opera e sigla un “Prendi per me sei libero” assai ben riuscito, con bel colore pastoso e ottimi acuti. È poi una bella ragazza, recita con garbo e naturalezza, non stupisce il successo che la premia anche a scena aperta. Resta più in ombra il puntuale Belcore di Gabriele Viviani, mentre Ambrogio Maestri si impone per la presenza colossale e la voce robusta, anche se non si tratta di un vero e proprio buffo quale la parte esigerebbe. Molto bene, infine, la Giannetta temperamentosa, in bell’evidenza vocale, di Barbara Bargnesi. Chi delude è il coro, che ha sempre bellissime sonorità, ma si mostra in quest’occasione meno preciso e coeso del solito, benché la regia non imponga più di qualche semplice coreografia o movimento coordinato, optando spesso per schieramenti statici senza troppe distrazioni. Bisogna purtroppo riconoscere che dalla buca è mancata la guida solida e sicura che ci saremmo aspettati da Donato Renzetti. Le sonorità spesso grevi dell’orchestra, il fragore della banda, la tendenza a coprire il canto e, generalmente, a non respirare con il palcoscenico ci hanno amaramente sorpresi. Non è questo lo standard qualitativo cui Renzetti ci ha abituati e aspettiamo con fiducia una nuova occasione per applaudirlo. Il successo è comunque caloroso e le uscite finali sono salutate con vero entusiasmo: il pubblico che gremiva il teatro non è stato deluso.
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