
Foto: Leif Ove Andsnes © Simon Fowler ©
Florestano e, soprattutto, Eusebio riappaiono prepotentemente nel pianismo di Leif Ove Andsnen la cui paletta timbrica rapisce anche per una rara abilità nel dosaggio dei pesi sonori, soprattutto quando si avvicinano le regioni del piano e del pianissimo (ma nella breve selezione da Játékok di Kurtág, e segnatamente in Aus der Ferne II e in Hommage a Farkas Ferenc II, Andsnes riesce anche a reinventarsi il timbro del pianoforte trasformandolo inopinatamente in uno strumento a pizzico!). Il pianista norvegese predilige la bassa voce, l’intimità delle mura domestiche, una narrazione che sa trasfigurarsi in colloquio intimo. In tal senso paradigmatica è parsa l’interpretazione della Kinderscenen (il programma di sala recupera la scrittura originaria con la lettera c in luogo della z) in cui il tono crepuscolare si fonde perfettamente con quello sguardo di nostalgica lontananza sul mondo dell’infanzia che permea queste pagine. A dire il vero, nella seconda parte del concerto, la poetica chopiniana viene come fagocitata da questa visione e i Valzer sembrano così ancora propaggini straniate dell’universo onirico schumanniano: niente salotto, inteso come superficiale e ammiccante resa del dettato musicale, ma un’intimità limpida e sentita che sa comunicare confidenzialmente e che unita ad una tecnica salda e brillante permette a Leif Ove Andsnes di schivare le vacue sirene virtuosistiche puntando decisamente sulla poesia.

Foto: Murray Perahia ©Copyright © 2008 SONY BMG MUSIC ENTERTAINMENT
Con Murray Perahia eccoci, infine, di fronte alla nobiltà del porgere, all’eloquenza del gesto, alla sicurezza del fraseggio, alla rotondità del suono (anche in Bach… e i filologi forse hanno storto un po’ il naso). Senza stravolgimenti interpretativi, senza escursioni dinamiche esasperate ed esasperanti, tutto suona giusto, eufonico e ognuno si può sentire cullato nelle proprie certezze. Perahia non ostenta, ma il lavoro di cesello è continuo e senza posa. Nessun rischio di sentimentalismo nel suo Chopin, dunque, e nessuna gigionata, via i facili istrionismi. E la penultima Sonata di Beethoven è scorsa con un occhio rivolto alla tenuta complessiva del brano e l’altro all’espressione sempre nitida, cantante e vera per un’interpretazione caratterizzata da estrema naturalezza, affabile e profonda.
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