Massimo Crispi
L’incoronazione di Poppea con una corona d’oro falso.
Io adoro l’incoronazione di Poppea. Per me è il paradigma del melodramma, un libretto perfetto, letterariamente autonomo, pieno di concetti e di poesia, un libretto che descrive un mondo antico, metafora di un mondo contemporaneo, talmente universale da essere valido ancora oggi. Gli spunti per una messa in scena sono davvero infiniti, suggeriti a ogni piè sospinto dai versi di Busenello, si opti per una messa in scena tradizionale o un’altra rivoluzionaria, ma il valore dei versi è lì, versi che hanno una tale potenza da schiacciare qualsiasi deriva personale, qualsiasi audacia esibizionistica da parte di un regista. La forza del libretto, e di conseguenza della messa in musica di Monteverdi che, alternando recitativi, concitati, ariosi in un mélange straordinario e affascinante di sensualità, di quel libretto esalta i pregi e i virtuosismi idiomatici, fa apparire inutile qualsiasi travisamento. Per una messa in scena, diciamo così, almeno corretta, forse bisognerebbe studiarselo bene, questo libretto, forse bisognerebbe aver chiari i rimandi poetici e retorici, nonché culturali, che c’erano nella Venezia del 1642, anno del debutto dell’opera del divino Claudio. Non sembrava per nulla, se non ogni tanto, a tratti, che questo fosse avvenuto nella recita fiorentina, nell’ambito del Maggio Musicale, ripresa di uno spettacolo già eseguito a Madrid, operazione affidata a due grandi vati del teatro musicale barocco, o, almeno, considerati tali da molta critica musicale e teatrale, come Pier Luigi Pizzi e Alan Curtis. Come si fa a rendere noiosa L’incoronazione di Poppea? Basta, appunto, non prendere in considerazione le mille sfaccettature del libretto, fonte inesauribile d’idee registiche e interpretative per dei cantanti-attori accorti e consapevoli. Ma quanti lo erano davvero in questa messa in scena? Neanche la lussuosa Susan Graham, che pure io adoro in altri repertori, mi ha convinto fino in fondo come Poppea, pur se dotata di voce affascinante. Era come se quasi tutti gli artisti coinvolti fossero distratti: come, per esempio, nel caso di Ottone, interpretato da Anders Dahlin. Ottone dovrebbe arrivare di sottecchi, da un esterno, da un buio notturno, che poi è il buio della sua anima, oscurata dal suo non più corrisposto, se mai lo è stato, amore per Poppea. Invece Pizzi, autore anche dei costumi, parecchio discontinui, lo fa arrivare vestito come un manovale albanese che ha smarrito la fermata dell’autobus che dovrebbe portarlo al suo posto di lavoro o alla festa degli emigranti: “scusate, ma che ci faccio davanti alla casa di Poppea, io dovevo andare in un’altra opera in un altro teatro!” Orrendo costume, uguale per tutta l’opera, che ci dimostra che anche un grande e acclamato decoratore, almeno così era noto Pizzi, può commettere degli errori grossolani. Non parliamo poi del cantante… un disastro vocale, con dei suoni inventati che nel passaggio dalla voce vera, la sua parte migliore, al falsetto si sgranavano sguaiati senza alcun senso musicale e scenico. Possiamo sapere come e, soprattutto, con che criteri è stato scelto un artista così? E non è una particina di sfondo, Ottone. La magia del canto disperato di Ottone, che apre l’opera, si dovrebbe svolgere nel buio notturno, o in un crepuscolo mattutino che annuncia un’alba ancora non ancora vicina. Guarda le stelle, Ottone, si lamenta col cielo della sua sventura, con preziosi sottintesi galileiani e copernicani nascosti nei versi. Alla Pergola, invece, tutto era illuminatissimo e non si capiva come facesse Ottone a non accorgersi dei due soldati di Nerone dormienti: ci passava e ripassava accanto così tante volte che la reazione di chi assisteva avrebbe potuto essere: ma sei ciucco dalla sera prima che non li vedi? Poi, a un certo punto, siccome il libretto dice che ci sono due soldati, Ottone mostra di notarli. Insomma, non proprio un grande inizio. Ma gli sfondoni registici già iniziavano dal prologo, colla presentazione delle tre figure retoriche della Fortuna, Virtù e Amore. A parte il brutto costume leopardato (che, giuro, sembrava comprato su una bancarella di cinesi), di Fortuna, una anche vocalmente poco convincente Serena Malfi (pure nel ruolo di un Valletto ugualmente poco convincente), era proprio la relazione tra le tre che appariva casuale, con movimenti scenici abbastanza ridicoli e impropri. Virtù era Anna Kasyan, di discreta voce e presenza scenica (successivamente anche Pallade, alla quale forse gli elettricisti si sono dimenticati di accendere una luce), castigatissima con una palandrana nera, e Amore era Francesca Lombardi Mazzulli, con in braccio un bambino equipaggiato di chiome bionde e freccia… perché? Sembrava una mamma con bambino (Venere? La Madonna del Divino Amore, appunto?) o forse un ventriloquo col suo pupazzo. Non è Venere il personaggio: è Amore, Eros, il di lei figlio. Le tre erano poste, come spesso Pizzi usa fare, su tre distinte pedane animate da mimi nerovestiti che si contorcevano per muoverle sulla scena. Visto e rivisto, e pure non molto efficace in uno spazio ristretto come quello, passiamo avanti. I due pretoriani di Nerone (Juan Sancho e Nicholas Phan, quest’ultimo anche Lucano, voce interessante), risvegliatisi dal torpore, a un certo punto decidono di mimare atti sessuali per rimarcare didascalicamente ciò che Nerone stava facendo nell’alcova con Poppea.
Cui prodest? Non è scritto e neanche sottinteso nel testo… A parte il fatto che i due soldati dovrebbero spiegare al pubblico un antefatto e per questo si dovrebbero rivolgere direttamente agli astanti per renderli partecipi della vicenda. E invece no, scherzano tra loro e basta, e per finire mimano un atto sessuale utilizzando le spade come membro virile. Le attività omoerotiche invadono, senza alcuna ragione, il duetto tra Nerone e Lucano. Anche perché nel testo non esiste alcun appiglio, nonostante Pizzi affermi il contrario, ripetutamente e con convinzione, nella sua intervista sul programma di sala. Ci dispiace per le ossessioni senili di Pizzi ma i due dovrebbero cantare le lodi di Poppea, secondo Busenello, che non fa nessun riferimento, sottinteso o esplicito, ad atti omoerotici. Macchè, un certame poetico tra i due, peraltro con evidenti parodie di stili poetici precedenti, dallo stilnovismo al petrarchismo, è troppo scontato, avrà ragionato il regista. E allora inventiamoci una scena dove Nerone e Lucano si dicono le cose più dolci, più sensuali, più spinte, in un groviglio di abbracci e baci e rapporti orali mimati, travisando irrimediabilmente il tutto e confondendo il pubblico. Né d’altro canto la storia, attraverso Tacito o il più pettegolo Svetonio, né tanto meno il testo di Busenello ci illustrano che Lucano e Nerone fossero amanti. Perché un arbitrio così fuorviante? Épater les bourgeois lo riteniamo veramente superfluo, al giorno d’oggi. E poi, azzarderei un suggerimento. Qualora si voglia mettere ad ogni costo una scena di erotismo tra Nerone e Lucano, si vada comunque fino in fondo, si abbia coraggio e coerenza: si faccia eseguire ai cantanti una reale scena erotica, completa di masturbazione e tutto il resto, e non due carezzucce anodine o un petting accennato sopra i vestiti: chi si scandalizza più oggi, dopo le orgissime di Caligola di Tinto Brass o dopo Ultimo tango a Parigi di Bertolucci? È solamente ridicolo e nuoce all’opera. Lo stesso errore aveva già indotto in tentazione Gilbert Deflo, anni fa, giungendo agli stessi penosi risultati, facendo forse peggio, avendo a disposizione un Nerone mezzosoprano, e quindi evidentemente inidonea ad un coitus a tergo (nella parte attiva)... Insomma, se si hanno delle ossessioni sessuali le si realizzino in luoghi più adatti oppure in opere dove sia evidente e funzionale, piuttosto che a sproposito, come qui. Ma queste sono solo alcune tra le più evidenti incongruenze di una superficiale messa in scena, dove le idee latitavano, aggirandosi smarrite, peraltro, in una scenografia rotante in bianco e nero abbastanza brutta, fatta di pareti e colonne malamente marmorizzate che sapevano veramente di poco e ricordavano più una sepoltura gentilizia con profluvio di finti marmi di cattivo gusto.
Una regia deludente che, soprattutto, non inventava nulla e non aggiungeva nulla alle realizzazioni precedenti dell’ Incoronazione di Poppea. Questa superficialità registica si rifletteva anche nella realizzazione musicale che ci è apparsa poco approfondita anch’essa. Il basso continuo, formato dal pregevole Complesso Barocco di Curtis, era abbastanza ricco e realizzato da strumenti copie di originali mentre i ritornelli orchestrali erano eseguiti da una ridottissima compagine di archi dell’orchestra del Maggio. Intonazione talvolta precaria e dinamiche spesso soporifere degli archi appesantivano l’esecuzione di Curtis. La preparazione retorica e declamatoria della maggior parte degli artisti era davvero insufficiente, nonostante una buona pronuncia da parte degli artisti stranieri. L’importanza che l’interprete dovrebbe dare a ogni verso, a ogni parola, soprattutto in quest’opera dove il libretto, così denso di spunti, di gesti vocali già negli stessi fonemi, è stata immensamente sottovalutata o comunque non pienamente realizzata, malgrado Curtis ne esalti vanamente la priorità nella sua introduzione nel programma di sala. Le uniche che avevano colto in pieno sia i personaggi sia la vocalità erano José Maria Lo Monaco, una splendida, dolente e irata Ottavia, con convincente consapevolezza vocale e maturità drammatica (ottimi “Disprezzata regina” e “Addio Roma”), e Ana Quintans, sinuosa Drusilla, appassionata nel suo canto come nel suo personaggio scenico. Nerone, Jeremy Ovenden , interessante voce tenorile capace di nuances e di colorature acrobatiche, non era però abbastanza isterico e aggressivo come il personaggio richiederebbe, assolutamente sempre e comunque sopra le righe. E questo era evidente soprattutto nel duetto con Seneca, Matthew Brook, il quale peraltro difettava di un maggiore spessore vocale nei suoni gravi, che non consentiva una maggior espansione al suo pur nobile recitativo. Il personaggio di Arnalta era giustamente affidato a un tenore caratterista, Krystian Adam, ma il risultato era troppo composto. Voce interessante, quella di Adam, che ha anche ben cantato “Oblivion soave” ma per fare la drag queen bisogna proprio lasciarsi andare, non bastano poche mossettine, ci vuole anche un gesto vocale convincente e Arnalta è un personaggio caratterizzato da volgarità e arrivismo. C’è una trasmissione televisiva diretta dalla regina assoluta delle drag queen, Ru Paul. Sarebbe stato utile dare un’occhiata alla trasmissione e prendere qualche idea, cosa che avrebbe giovato anche a Nicola Marchesini, la nutrice di Ottavia, che almeno, però, ci ha provato. Nei momenti altamente erotici, probabilmente a causa di indicazioni registiche, la sensualità non è mai davvero giunta a un parossismo, benché parossistici siano tutti i personaggi e soprattutto Poppea e Nerone. Toccare le tette di Poppea, per di più sopra gli abiti, è scontato, l’erotismo, quello vero, ha bisogno di altro e di parecchio. Però, diciamolo con affetto per i valorosi cantanti, a dispetto di una non così approfondita attenzione alla parola e ai fonemi, i duetti d’amore erano gradevolmente cantati da due voci belle, sonore e morbide come quella di Ovenden e di Susan Graham. Il duetto finale ci è apparso un po’ convenzionale, senza che la struggente passacaglia, attribuita nel tempo a Benedetto Ferrari, a Francesco Sacrati o a Francesco Cavalli, traesse dal basso continuo e dal canto tutta la sua travolgente sensualità. Sesso refrigerato. Roba da vecchi. Inutile. Ad ogni modo, applausi per tutti.
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