Foto: Ekaterina Scherbachenko, Marco Spotti - Marco Brescia & Rudy Amisano.
Massimo Viazzo.
La Turandot secondo Valery Gergiev è una Turandot tellurica, barbarica, primitiva. Ma questa sera alla Scala non tutto ha funzionato al meglio. La direzione del maestro russo, infatti, è parsa priva di tensione narrativa, poco rifinita timbricamente (ottoni e percussioni troppo in primo piano e, spesso, fuori controllo), carente di equilibrio fra le sezioni orchestrali, le quali hanno evidenziato problemi d’assieme fin dall’inizio, ritmicamente incerto, dell’opera. Lo spettacolo firmato da Giorgio Barberio Corsetti, pur con qualche trovata tecnologica apprezzabile (le proiezioni “a vista” del secondo atto, ad esempio, effettuate direttamente sul palcoscenico con oggetti che si ingrandivano sullo sfondo creando immagini illusorie), non si discostava di molto dalla tradizione iconografica del capolavoro pucciniano. Interessante, invece, l’idea di far apparire tutta la vicenda come se avvenisse in sogno, il sogno/incubo del principe Calaf. Solida vocalmente, sicura sugli acuti, ma glaciale nell’accento e nel fraseggio, la Turandot di Lise Lindstrom è stata comunque apprezzata dal pubblico scaligero. Più lirico e commosso, all'opposto, il canto di Ekaterina Scherbachenko, una Liù fragile ed espressiva. Monocorde, invece, il Calaf di Stuart Neill, la cui prestazione è parsa comunque in crescendo nel corso della recita. Ben cantato il Timur di Mario Spotti e sostanzialmente corrette le tre Maschere interpretate da Angelo Veccia, Luca Casalin e Carlo Bosi, l’Imperatore Altoum di Antonello Ceron e il Mandarino di Ernesto Panariello. Ma il vero trionfatore della serata è stato l’impeccabile Coro del Teatro alla Scala diretto da Bruno Casoni. Insomma, una Turandot con qualche ragione di interesse, ma non perfettamente riuscita.
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