Roberta Pedrotti
Al momento dei ringraziamenti finali, Fernando Portari si inginocchia e bacia il palcoscenico. Sembra non crederci nemmeno lui, ma ha appena compiuto il suo debutto alla Scala, sostituendo all’improvviso l’indisposto Marcello Giordani nel ruolo di Faust, che su questo stesso palcoscenico era stato appannaggio di Lauri Volpi, Gedda, Kraus o Sabbatini. Gli va dunque reso l’onore delle armi, anche se no si può dire che, in termini oggettivi, la sua prestazione ci abbia entusiasmati: il legato è piuttosto carente – lo si avverte soprattutto in Salut demeure, dove anche l’emozione gioca la sua parte – l’emissione un po’ disordinata, l’espansione limitata e il colore un po’ generico. Molto, è vero, può dipendere dalla tensione del debutto, quindi il giudizio rimane aperto anche se la sensazione non è quella di trovarsi di fronte a un fuoriclasse, ma di un professionista alle prese con un esordio importante quanto precipitoso. Ricordiamo peraltro che il tenore brasiliano non è un Carneade delle scene italiane, avendo già al suo attivo produzioni importanti come quelle della Rondine e del Crociato in Egitto alla Fenice di Venezia, entrambe pubblicate in DVD.
Il problema che pone questa nuova produzione meneghina del capolavoro di Gounod è però molto più ampio del caso di una sostituzione d’emergenza: si tratta di constatare il livello complessivo della locandina proposta da quello che dovrebbe essere considerato uno dei primi teatri al mondo e di fare dunque il punto sullo stato attuale della vocalità. Perché se la Scala non è stata in grado di allestire un Faust migliore di questo allora dobbiamo porci un serio interrogativo sul futuro del teatro lirico. Seppure in fase declinante, la carriera di Roberto Scandiuzzi giustifica appieno la sua presenza sulla scena: è una delle ultime, rare voci di autentico basso e ancora ce lo fa sentire con belle frasi brunite e timbrate e una buona resa, per esempio, dell’invocazione “O nuit, étends sur eux ton ombre!”. Peccato che il trascorrere del tempo abbia segnato il registro acuto, spesso duro o debole, e che nel corso della recita si avverta un sensibile calo di resa, con intonazione non impeccabile e in particolare una serenata del quarto atto disordinata e decisamente mal riuscita. Irina Lungu si impegna moltissimo per rendere una Marguerite credibile, ma è questo il meglio che si possa ascoltare oggi? È una Marguerite all’altezza della Scala? La coloratura dell’aria dei gioielli è approssimata con prudenza, suonano meglio le frasi liriche, ma spesso l’acuto è tagliente e l’intonazione imprecisa: non v’è, per esempio, una sola ripetizione della frase “Portez mon ame au sein des cieux” nel terzetto finale che non possa dirsi calante. Un vero peccato. Una grande delusione viene anche da Nino Surguladze, che, per quanto la sua Carmen non ci abbia entusiasmati, è comunque avvezza a ruoli di ben altro spessore che non Siebel, reso, tuttavia, totalmente insignificante sotto il profilo teatrale (e spiace, perché la figura ha una sua fascinosa freschezza) sia sotto quello musicale (e spiace ancor di più, perché, eliminata senza pietà la romance del quarto atto, “Faitez lui mes aveaux” è una pagina deliziosa, scomparsa nell’indifferenza per una lettura priva d’anima e di smalto). Decisamente male anche il Valentin di Dalibor Jenis, che sta pagando pesantemente l’emissione eterodossa, con un registro acuto tutto compresso nel naso. I gravi e i piani sono assai deboli, la linea sgradevolmente frammentata fra suoni gutturali e adenoidei. Sciupata l’aria del secondo atto può parzialmente rifarsi con il declamato della scena della morte. La crisi delle voci è tanto grave da non offrire valide e abbondanti alternative per l’innamorato adolescente e il fratello di Marguerite? Sylvie Brunet è una Marthe di temperamento e Olivier Lallouette completa il cast come Wagner. Dirige Stéphane Denève, lo fa con precisione, infondendo impeto vigoroso alle scene corali, ma senza centrare altrettanto il bersaglio della leggerezza e dell’involo poetico, cosicché già la stretta “A’ moi les maitresses” manca di spirito e soprattutto il terzo atto rischia in più punti la noia.
L’orchestra però suona benissimo e il coro istruito da Bruno Casoni (uno dei migliori preparatori oggi in circolazione) è davvero eccellente per musicalità e impasto timbrico. Ecco finalmente l’alto livello artistico di cui essere orgogliosi a livello internazionale. Qualche ulteriore dubbio viene invece dalla messa in scena, che pure coltiverebbe, nel coinvolgimento del lituano Eimuntas Nekrosius, alte ambizioni. Proporzionale alla fama del regista e alla dovizia di dettagli giustapposti è la perplessità destata da un allestimenti che non sembra nemmeno tendere alla realizzazione di un’idea forte, condivisibile o meno che sia. Potrebbe paradossalmente esser definito teatro del pensiero debole, per la quantità di materiale esposto in maniera quasi casuale (o studiatamente casuale?) alla libera interpretazione del pubblico. Un teatro faticoso, perché non c’è istante in cui il dettaglio di un costume o il gesto di un figurante non ci costringano a soffermarci su un simbolo, su una speculazione del regista senza però scioglierne il nodo. I simboli restano spesso vuoti simulacri, irrelati sovente fra loro. La prima scena, con le due fughe prospettiche delle strutture lignee e il pavimento disseminato di libri aperti sfogliati dal vento, lascia ben sperare, ma poi tutto si perde, fra qualche immagine azzeccata (la scena della chiesa, l’uccisione di Valentin, l’abbraccio di Faust da cui Marguerite si libera solo alla proclamazione della sua salvezza) e molte altre gratuite se non incomprensibili, come il salto della corda durante il valzer del finale secondo. Il lavoro sugli attori è minimo, dichiaratamente rinunciatario: Nekrosius afferma di voler lasciare liberi i cantanti e difatti la loro azione è per lo più convenzionale; afferma di non essere troppo preparato musicalmente e infatti non si rende conto che nella prima scena del quarto atto gli archi stanno rappresentando il movimento dell’arcolaio, per cui il regista non è obbligato certo a rispettare rigorosamente l’immagine goethiana di Marguerite intenta a filare, tuttavia sarebbe auspicabile un’azione scenica che assecondi e traduca in teatro quel ritmo ossessivo. Allo stesso modo il coro dei soldati nasce come esaltazione dello spirito del Secondo Impero, della grandeur di Napoleone III, su cui però pesa imminente il presagio della disfatta di Sedan. Non si auspica, ancora una volta, una lettura storicistica, ma quei soldatini di piombo dai gomiti insanguinati non riescono nemmeno a muovere al sorriso. Ci si annoia, ancora una volta, e questo a teatro è un peccato mortale. Non basta associare Marguerite all’azione del ricamo (ed eccola rimbalzare come un ago, eccola sempre con un tombolo nei dintorni o con un abito tutto a punto croce), non basta munire Méphistophélès di un palo smisurato simbolo del suo potere o circondarlo di grotteschi aiutanti, o fare di Siebel un povero sciancato.
Lo spettacolo non funziona, non convince se manca la seduzione del male, se fra Faust e Marguerite non spira quella sensualità che nel finale terzo dovrebbe lasciare senza fiato, se, soprattutto, l’impressione costante è quella di un catalogo un po’ sconclusionato di intuizioni estemporanee del regista. Peccato davvero. Citiamo per dovere di cronaca l’impianto scenico, potenzialmente assai interessante, di Marius Nekrosius (figlio del regista), i costumi poco accattivanti di Nadezda Gultiajeva (moglie del regista) e le luci di Mario Filibeck. Al termine dello spettacolo applausi cordiali con una sola uscita (oltre allo scarso entusiasmo destato bisogna anche dire che le recite si concludevano a mezzanotte, con oltre mezz’ora di intervallo prima dell’ultimo atto, ridotto a una ventina di minuti per i tagli radicali nella Nuit de Walpurgis). Spiace dover riferire che il comunicato sindacale dei lavoratori della Scala è stato accolto quasi con aggressività da parte del pubblico. Caso più unico che raro fra tante dimostrazioni di solidarietà nelle altre città italiane. Che succede a Milano?
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