Roberta Pedrotti
Autodidatta di genio e pertanto parricida per necessità; assillato dal sospetto d’una nascita illegittima, smanioso di emanciparsi dai padri artistici (soprattutto da quel Meyerbeer ebreo come ebreo riteneva il presunto genitore naturale Geyer), Richard Wagner sviluppa vita e poetica di teatralissima concretezza. L’ambizione dell’arte totale lo porta a una definizione talmente minuta d’ogni gesto, d’ogni stato d’animo, ma, nel contempo, una tale polivalenza di significato (sia questo primario, allegorico o simbolico) da offrire all’interprete un codice precisissimo e dettagliato e parimenti la più ampia libertà d’azione. La riflessione di Adorno, secondo qui Wagner scrive per il direttore d’orchestra, può essere applicata anche alla messa in scena, poiché indubbiamente Wagner scrive anche per il regista e realizza in partitura quel che Verdi realizzava nelle sue disposizioni sceniche. Per questo il suo dramma musicale funziona sia che sia letto in chiave mitica, romantica, sia in chiave psicanalitica, o borghese, o simbolica. L’unica visione che parrebbe reggere a fatica è quella scrupolosamente letterale, ma da questa si dipartono infinite possibilità interpretative, dovute anche alla fondamentale incoerenza dell’uomo Wagner, anarchicamente fedele solo al culto di se stesso (il passaggio ideologico dall’aria di Bakunin a quella di Nietzsche, del quale fu a sua volta padre ripudiato, è evidente nel corso del Ring, ma non è l’unica chiave di lettura possibile). Quella che abbiamo apprezzato alla Scala, per l’inaugurazione della stagione 2010/2011 è stata senza dubbio una visione originale della Walküre, ma non volutamente di rottura, non marcatamente programmatica, bensì naturalmente conseguente dall’alchimia delle personalità artistiche in locandina. Barenboim ne coglie infatti profondamente le potenzialità e le inclinazioni e declina una Walküre al femminile, dominata dalla triade composta da Waltraud Meier, Nina Stemme e Ekaterina Gubanova, tre generazioni wagneriane a confronto, tre diverse bellezze, tre autentiche primedonne, i tre poli magnetici fra i quali si può iscrivere l’intera opera. La Meier torna a Sieglinde e ne fa un originale modello di forza femminile, il complemento simbolico del dualismo dei gemelli Welsunghi allorché contrappone la sua saggezza, la sua riflessività, il suo intuito (è evidente che lei per prima, fin dall’apparire dell’ospite misterioso, abbia presentimento della sua identità) all’inquieto, inesausto, tormentato agire e peregrinare di Siegmund. Questi è lo Streben rivolto all’esterno, la primavera che esplode nella natura, Sieglinde è la passione e l’interiorità, la consapevolezza che giunge perfino al lacerante senso di colpa non già per l’incesto (che, anzi, sarebbe purissimo esempio di un vitalismo al di là del bene e del male) quanto per il disonore dell’unione forzata con Hunding che non l’ha consegnata intatta al predestinato sposo fratello. A fronte dell’intelligenza musicale, teatrale, artistica della Maier i segni che il tempo ha impresso alla sua voce (qualche durezza in alto, un centro un po’ impoverito) appaiono marginali e insignificanti, anche perché resi funzionali a un personaggio ben più maturo e autorevole di quanto non si sia abituati a immaginare. Per contro abbiamo in Nina Stemme una Brünnhilde di soggiogante freschezza, non un’algida dea guerriera che si tramuta in donna, ma una fanciulla, un’adolescente piena d’energia, simbioticamente legata al padre e incapace di concepire inganno o menzogna, solo di agire secondo la verità dei propri sentimenti e del proprio senso di giustizia, una fanciulla che gradualmente diverrà una donna. Non avremo così da lei bagliori d’acciaio fiammeggiante nel grido di battaglia di sortita (che affronta però ben conscia della radice belcantista di una scrittura che non disdegna il trillo), né un registro grave poderoso, ma un fraseggio eccellente, uno smalto timbrico di singolare dolcezza, accuratamente dosato nella mirabile scena con Siegmund e ancor più nel duetto (se così si può chiamare) con Sieglinde e nel lungo confronto finale con Wotan, forse i momenti più alti dello spettacolo. Una Brünnhilde davvero difficile da dimenticare, perfettamente antitetica all’altra forza motrice dell’agire del sovrano degli Asi, la Fricka notevolissima di Ekaterina Gubanova, appena trentunenne, solenne, statuaria, vocalità solida, imponente, capace, con una sapiente stilizzazione della parola cantata di evitare il rischio di freddezza o l’eccesso di rigidità, lasciando apprezzare la rotondità del timbro e la severa femminilità dell’inflessibile dea. Barenboim ama queste tre donne, è evidente: la sua non è una concertazione semplicemente lirica, non ricerca lo slancio epico, né si lascia tentare da estenuati abbandoni decadenti, né, ancora, il suo è un approccio analitico novecentesco.
Dirige semplicemente con amore: può apparire una definizione banale, ma è proprio nella capacità di non renderla banale la sua grandezza. Ama le voci, che asseconda senza mai sopraffarle, ama questa musica, ama queste donne che incarnano le diverse anime ideali dell’opera: il diritto, la passione, la vitalità ribelle, la regina, l’amante, l’adolescente. Amore fraterno, filiale, carnale, ideale, solidarietà contro il rigore formale del diritto, libertà contro dovere e destino, Dioniso contro Apollo. Daniel Barenboim si schiera con i primi, è ovvio, e con le donne che li rappresentano, volgendo uno sguardo comprensivo anche alle ragioni di Ficka, sposa tradita e custode del nodo coniugale. La sua è una dolcezza non manierata, che sa esprimersi anche nella forza e trionfa in un terzo atto particolarmente intenso e poetico. In quest’ottica femminile le tre figure maschili non sono emarginate, bensì poste in eloquente rapporto dialettico con le tre protagoniste. In particolare colpisce il Wotan di Vitalij Kowaljow, che non ci fa rimpiangere l’inizialmente previsto René Pape: il suo è un dio intimamente dolente, ripiegato in se stesso, già sconfitto, disincantato, ancor più toccante, infine, quando lascia trapelare il suo sentimento e abbraccia per l’ultima volta la figlia ribelle. Peccato che la tendenza a mandare indietro soprattutto gli acuti penalizzi la sua prova limitando l’autorevolezza e la penetrazione della voce: corretto questo difetto abbiamo in potenza un interprete wagneriano di grande interesse. Più interlocutoria la prova del tenore Simon O’Neill, che esce a testa alta dal cimento in virtù dell’esperienza e di un registro acuto che gli permette di affrontare con sicurezza le corone di “Wälse” (meno, a dire il vero, la puntatura di “Wälsungen-Blut”), anche se Siegmund è parte che richiede ben altra cavata eroica nei centri. Il suo strumento è sicuramente versato a ruoli più lirici, o perlomeno che ammettano una vocalità più chiara e luminosa (Lohengrin, Parsifal, lo stesso Siegfried), ma Barenboim ancora una volta modella l’interpretazione per e con le voci e si realizza così un efficace contrasto con la Sieglinde della Meier, cui si contrappone anche l’Hunding duro, glaciale, autoritario e imperscrutabile di John Tomlinson, già Wotan con Barenboim nei primi anni ’90, oggi usurato vocalmente – e per di più reduce da un’indisposizione – ma sufficientemente padrone del mestiere per risolvere il primo atto nel declamato senza troppi danni, mentre più problematico risulta il secondo, là dove si richiede una più furiosa energia. I limiti individuali, in ogni caso, finiscono per elidersi nell’insieme, nella particolare atmosfera di sintonia artistica che si respira in sala, senza mai un istante di calo di tensione. Il successo che saluta quest’ultima recita è non meno che travolgente, con acclamazioni ad ogni finale d’atto da parte di un pubblico numerosissimo, che coinvolge anche l’ottetto delle walkirie composto da Danielle Halbwachs (Gerhilde), Carola Hoehn (Ortlinde), Ivonne Fuchs (Waltraute), Anaik Morel (Schwertleite), Susan Forster (Helmwige), Leann Sandel-Pantaleo (Siegrune), Nicole Piccolomini (Grimgerde) e Simone Schroeder (Rossweisse).
Un discorso a parte merita la messa in scena, che pure ha sollevato tanta attenzione mediatica per la cosiddetta impostazione ipertecnologica. Si sa che per i mass media la serata di Sant’Ambrogio è praticamente l’unico spettacolo operistico dell’anno e pertanto si ammanta inevitabilmente dell’aspetto visivo di crismi d’eccezionalità e nella tradizione e nell’innovazione. Guy Cassiers, scenografo e regista, con Enrico Bagnoli (scene e luci), Tim van Steenbergen (costumi) e Csilla Lakatos (coreografie, ridotte all’azione di due danzatori acrobati dietro un velario) lavorano principalmente sulle proiezioni esplorandone tutte le possibilità scenotecniche con intenti ora didascalici ora simbolici. L’azione è piuttosto statica – ma d’altra parte l’opera stessa consta principalmente d’una serie di duetti –, la scena tendenzialmente oscura, ma molti effetti sono davvero efficaci e suggestivi. Nulla è lasciato al caso, i riferimenti e le allegorie sono numerosi, perfino eccessivi, giacché le note nel programma di sala si rivelano una guida insostituibile per districarsi in un dedalo che pare esistere più nella mente del regista e dei suoi collaboratori che non nella realtà autonoma dello spettacolo. Potremmo attardarci nell’elenco delle citazioni, delle allusioni, dei significati nascosti diligentemente compilato dal dramaturg Erwin Jans, ma pensiamo sia esercizio ozioso ripetere che i parallelepipedi su cui si muovono le walkirie sono formati dalle piastrelle del parquet della casa di Hunding e rappresentano un mondo in disfacimento in cui il legno simbolizza il rapporto fra natura e cultura. O che le foglie e la rugiada della selva del secondo atto sono in realtà norme, codici, dati digitali cui Siegmund e Sieglinde tentano di sfuggire. Sono tutte bellissime idee, ma l’eccesso di chiose rischia il capzioso, mentre in realtà questa Walküre in teatro appare essenzialmente come caleidoscopica, pregevole illustrazione della partitura. Un’illustrazione non banale, ricca di stimoli, che esplicita bene l’aridità borghese del mondo di Hunding e il dissolvimento del regno degli Asi, che risolve bene sia il lungo racconto di Wotan sia la Cavalcata e le morti dei duellanti, ma non centra completamente l’Incantesimo del fuoco, ottimo nelle intenzioni, perfettibile nella realizzazione (basterebbe rivedere la forma delle luci rosse che scendono dall’alto). E il programma di sala resta quel che deve essere, non un manuale indispensabile per la fruizione dell’allestimento, ma un prezioso volume ricco e approfondito, con saggi e annotazioni di grande livello e piacevolissima lettura (unica pecca, la discografia: sarebbe molto più elegante evitare le chiose tautologiche ad ogni incisione).
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