Roberta Pedrotti
La stagione 2011 del teatro Comunale di Bologna si inaugura senza una guida, assente il sovrintendente e direttore artistico uscente Marco Tutino (che sta seguendo a Palermo le prove della sua nuova opera Senso), ancora in attesa della nomina del successore, giunta fortunatamente un paio di giorni dopo: è Francesco Ernani al quale va il nostro sentito in bocca al lupo. Si inaugura nel segno dell’austerità, senza addobbi floreali, omaggi e buffet e solo una manciata di mises stravaganti; unica autorità il commissario straordinario Anna Maria Cancellieri, al solito eccellente nel reggere le sorti del comune in attesa delle elezioni di primavera. L’inno di Mameli, dunque, non è in omaggio a un ospite, ma alla stessa, vituperata e mai abbastanza celebrata Costituzione, il cui articolo 9 (“La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”) è letto in apertura di serata. L’esecuzione del canto degli Italiani non è inappuntabile, più che per demerito del coro, si suppone, per problema tecnico dei riporti che avrebbero dovuto permettere un miglior sincrono con l’orchestra ai cantanti celati dietro al sipario. Infine il sipario si leva e la stagione si apre ufficialmente lasciando spazio al Wagner di Tannhäuser in una produzione inedita in Italia, firmata registicamente da Guy Montavon e proveniente da teatro di Erfurt. La crisi dovrebbe portare ad aguzzare l’ingegno e ottimizzare le risorse, purtroppo porta anche a improvvidi ricicli e acquisti avventurosi dettati più dal prezzo che dalla qualità. Pare che l’allestimento sia stato comprato in blocco per una cifra irrisoria: un affare sulla cui bontà ci permettiamo di avanzare qualche dubbio, visti i risultati (che comunque non avrebbero dovuto essere una sorpresa, visto che lo spettacolo è stato prodotto nel 2006). L’unica idea che pare trasparire è la riflessione successiva all’incendio della storica biblioteca della Duchessa Anna Amelia di Weimar, avvenuto nel 2004. Una tragedia che purtroppo ci ricorda tanti drammi italiani, dall’alluvione di Firenze (e dalla stessa strage di via dei Georgofili) ai righi del Petruzzelli e della Fenice, dal terremoto di Assisi con il devastante crollo della Basilica Superiore a quello dell’Aquila e al disfacimento di Pompei. Dolo, incuria, o fatalità, sono tutte ferite aperte nella memoria. Tuttavia non si può negare che per il pubblico italiano del 2011 l’incendio tedesco abbia un impatto emotivo piuttosto modesto, e soprattutto che s’inserisca più come citazione commemorativa che come vera idea portante che possa reggere uno spettacolo di mediocre routine teutonica. Impianto essenziale, un Venusberg immerso fra proiezioni di onde marine, più isola di Calipso (il parallelo è evidente anche nel testo) che luogo di delizie e perdizione, la Wartburg è una biblioteca in disfacimento, con tomi sparsi per la sala, nella vallata i cantori si aggirano fra transenne mentre i pellegrini tornano da Roma afflitti da evidente cifosi e alla fine, dopo che una pioggia purificatrice ha sancito la redenzione di Tannhäuser, il fondale nero si apre e svela una libreria di foggia moderna, con un bimbo che si appresta alla lettura lasciando cadere un pallone (tanto simile al pianeta – Venere? – che volteggiava sulle onde del Venusberg – Venusmeer). I costumi di Amélie Hass sono francamente brutti, trovarobato teutonico di cappotti e soprabiti; la scena di Edoardo Sanchi nella sua essenzialità potrebbe funzionare anche bene, come dimostra la prima parte del terzo atto, con quel taglio di luce (dello stesso Montavon) a sottolineare la silouette di Elisabeth sullo sfondo, ma per una prossima ripresa si auspicano almeno una revisione del dissolvimento iniziale del Venusberg (il pianeta viene inghiottito da un gorgo che ricorda lo scarico di un lavandino) e l’eliminazione delle transenne, della libreria moderna con il bimbo lettore e del pompiere che “con scenica scienza” spegne le ultime fiamme destate dallo scandalo dei nobili di Turingia per i versi di Tannhäuser. E sì che quest’opera, così controversa fin dalla tortuosa gestazione, offrirebbe il destro per letture suggestive e non banali sulla figura del tormentato cavaliere cantore, artista maledetto, isolato e irregolare, lacerato da diverse pulsioni e dal contrasto con una società omologata e ipocrita, filistea come poche nelle sue professioni sterili di virtù.
Si sceglie di mettere in scena la versione di Dresda, più sintetica per quel che concerne il quadro del Venusberg, e la stessa esecuzione è inevitabilmente indirizzata ad un linguaggio più asciutto, che ci ricorda come l’autore fosse un giovane ambizioso sulle orme di Weber, Marschner e Meyerbeer, di cui riprende il linguaggio rimanendo ancora ancorato a forme prossime al poi vituperato numero chiuso. In questa linea Stefan Anton Reck non cerca un ampio respiro di fraseggio, non cerca colori suggestivi e finezze dinamiche, tanto da apparire al fine rigoroso ma poco incisivo anche sotto il profilo drammatico e spento nel suono orchestrale. L’idea di un Wagner – segnatamente di questo Wagner – sottratto alla tradizione epica e iperromantica è senza dubbio condivisibile, ma richiederebbe altro passo teatrale, altra fantasia, altra sensibilità musicale. Perfino la celeberrima Ouverture (qui senza il contraltare del baccanale, ampliato a Parigi) passa senza particolari emozioni. Nel cast si segnala la vocalità assai interessante di Guanqun Yu che, ascoltata nel canto del pastore, ci lascia con il desiderio di ritrovarla in ruoli più importanti. Miranda Keys ha il giusto colore per Elisabeth e canta piuttosto bene, ma la sua prova è segnata da un debito d’intonazione pressoché costante in acuto. Problema che, senza limitarsi a un solo registro, affligge anche la Venus di Patrizia Orciani, a suo agio nella tessitura ma troppo irruenta e spigolosa musicalmente, meglio nel primo che nel terzo atto. Fra gli interpreti maschili la palma del migliore va a Martin Gantner, voce di pasta assai chiara, secondo la tradizione d’oltralpe che, non conoscendo l’evoluzione da basso cantante a baritono verdiano prima e verista poi, distingue principalmente fra basso baritono e baritono lirico acuto. Il suo Wolfram, poeta non insensibile dietro l’apparenza di occhialuto professorino, merita le approvazioni più convinte della serata. Serata che Ian Storey, Tannhäuser, conquista con un percorso in salita, scaldandosi di scena in scena: la voce è sicuramente importante e indubbia la dimestichezza con il repertorio, anche se l’impressione è sempre quella di un’amministrazione prevalentemente stentorea e muscolare del proprio strumento. Caso raro anche nei nostri teatri, oltre alle corifee nei panni dei paggi (Rosa Guarracino, Fanny Fogel, Nidia Pirazzini e Lucia Michelazzo) erano ben quattro i solisti italiani in locandina. oltre alla citata Orciani, il langravio Hermann di Enzo Capuano, piuttosto stanco in acuto ma capace di dispensare una bella linea di canto nelle tessiture più comode, il Reinmar von Zweter di Christian Faravelli e l’acerbo Walther di Gabriele Mangione, ridotto purtroppo a personaggio quasi caricaturale. Più convincente il Biterolf di Valdis Jansons e con lui l’Heinrich der Schreiber di Armaz Darashvili. Per la prima produzione preparata con il nuovo maestro del coro Lorenzo Fratini la compagine felsinea appare prodiga di buone intenzioni, ma ancora in via di completa rifinitura. Successo pieno, alla prima, per direttore, coro, orchestra e solisti, contestazioni accese per gli autori della messa in scena.
Si sceglie di mettere in scena la versione di Dresda, più sintetica per quel che concerne il quadro del Venusberg, e la stessa esecuzione è inevitabilmente indirizzata ad un linguaggio più asciutto, che ci ricorda come l’autore fosse un giovane ambizioso sulle orme di Weber, Marschner e Meyerbeer, di cui riprende il linguaggio rimanendo ancora ancorato a forme prossime al poi vituperato numero chiuso. In questa linea Stefan Anton Reck non cerca un ampio respiro di fraseggio, non cerca colori suggestivi e finezze dinamiche, tanto da apparire al fine rigoroso ma poco incisivo anche sotto il profilo drammatico e spento nel suono orchestrale. L’idea di un Wagner – segnatamente di questo Wagner – sottratto alla tradizione epica e iperromantica è senza dubbio condivisibile, ma richiederebbe altro passo teatrale, altra fantasia, altra sensibilità musicale. Perfino la celeberrima Ouverture (qui senza il contraltare del baccanale, ampliato a Parigi) passa senza particolari emozioni. Nel cast si segnala la vocalità assai interessante di Guanqun Yu che, ascoltata nel canto del pastore, ci lascia con il desiderio di ritrovarla in ruoli più importanti. Miranda Keys ha il giusto colore per Elisabeth e canta piuttosto bene, ma la sua prova è segnata da un debito d’intonazione pressoché costante in acuto. Problema che, senza limitarsi a un solo registro, affligge anche la Venus di Patrizia Orciani, a suo agio nella tessitura ma troppo irruenta e spigolosa musicalmente, meglio nel primo che nel terzo atto. Fra gli interpreti maschili la palma del migliore va a Martin Gantner, voce di pasta assai chiara, secondo la tradizione d’oltralpe che, non conoscendo l’evoluzione da basso cantante a baritono verdiano prima e verista poi, distingue principalmente fra basso baritono e baritono lirico acuto. Il suo Wolfram, poeta non insensibile dietro l’apparenza di occhialuto professorino, merita le approvazioni più convinte della serata. Serata che Ian Storey, Tannhäuser, conquista con un percorso in salita, scaldandosi di scena in scena: la voce è sicuramente importante e indubbia la dimestichezza con il repertorio, anche se l’impressione è sempre quella di un’amministrazione prevalentemente stentorea e muscolare del proprio strumento. Caso raro anche nei nostri teatri, oltre alle corifee nei panni dei paggi (Rosa Guarracino, Fanny Fogel, Nidia Pirazzini e Lucia Michelazzo) erano ben quattro i solisti italiani in locandina. oltre alla citata Orciani, il langravio Hermann di Enzo Capuano, piuttosto stanco in acuto ma capace di dispensare una bella linea di canto nelle tessiture più comode, il Reinmar von Zweter di Christian Faravelli e l’acerbo Walther di Gabriele Mangione, ridotto purtroppo a personaggio quasi caricaturale. Più convincente il Biterolf di Valdis Jansons e con lui l’Heinrich der Schreiber di Armaz Darashvili. Per la prima produzione preparata con il nuovo maestro del coro Lorenzo Fratini la compagine felsinea appare prodiga di buone intenzioni, ma ancora in via di completa rifinitura. Successo pieno, alla prima, per direttore, coro, orchestra e solisti, contestazioni accese per gli autori della messa in scena.
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