Foto: Sara Mingardo (Galatea) e Cristina Banchetti (mimo)
Credito: Ramella & Giannese - Fondazione Teatro Regio di Torino
Massimo Viazzo
Aci, Galatea e Polifemo non è un’opera. Si tratta di una serenata a tre - un vero gioiello (il fatto che tutti i brani che la compongono siano stati riutilizzati dal «caro Sassone» in opere successive è una garanzia di qualità) - che fu composta a Napoli nel 1708 da un giovanissimo Händel per festeggiare, probabilmente, le nozze del Duca d’Alvito e Donna Beatrice Sanseverino. Un lavoro celebrativo, quindi, nello stile della favola pastorale tipico della poetica dell’Arcadia, accademia letteraria allora in ascesa. Drammatizzare una trama così esile (un triangolo amoroso, tratto dalle Metamorfosi di Ovidio, costituito dai due giovani innamorati Aci e Galatea contrastati dal rozzo Polifemo) rappresentava per Davide Livermore una vera sfida. Attualizzare il plot al giorno d’oggi è facilissimo. Livermore non si è limitato a raccontare una storia plausibile, ma compiendo un’intelligente operazione di «doppio sdoppiamento» è riuscito ad amplificare le affettività presenti nel testo musicale costruendo un interessante gioco di relazioni tra «doppi» umani, resi con bravura da tre mimi-attori, e «doppi» provenienti dal mondo animale (scelti in base a strette citazioni librettistiche) e precisamente un’aquila (Aci), una farfalla (Galatea) e un serpente (Polifemo), visualizzati fascinosamente su quattro schermi, unici sbocchi visivi in grado di mettere in comunicazione l’interno della villa settecentesca diroccata e sghemba (in cui Livermore, curatore anche della scenografia, ha ambientato la vicenda) e la rigogliosa natura circostante. Una lettura stimolante quindi, che ha trovato in Antonio Florio il giusto timoniere. Florio ha concertato con precisione e attenzione costante al respiro della pagina händeliana. Il fraseggio non è mai parso frenetico, né affannato e anche se La Cappella della Pietà de’ Turchini non è stata esente da pecche (le trombe, soprattutto) si può dire che nel complesso si sia trattata di una esecuzione convincente, mossa e scorrevole, mai secca o fredda. Tra le voci la palma del migliore spetta senz’altro a Sara Mingardo. Il contralto veneziano ha cantato con proprietà stilistica, timbro vellutato e consapevolezza dello stile patetico. La sua Galatea ci ha commosso e toccato nel profondo. Ruth Rosique ha sfoggiato una discreta coloratura anche se non è sempre riuscita a controllare l’emissione. In difficoltà, invece, Antonio Abete, un Polifemo di timbro troppo metallico, non in grado di rendere al meglio le sfaccettature malinconiche e dolenti connaturate al personaggio. Le sue agilità un po’ imprecise e una resa del legato insufficiente non gli hanno consentito una messa a fuoco ottimale dell’impervio ruolo.
VERSIÓN EN ESPAÑOL
Aci, Galatea e Polifemo no es una opera. Se trata de una serenata a tre- una verdadera joya (el hecho que todas las piezas que la componen fueron reutilizados por el
No comments:
Post a Comment
Note: Only a member of this blog may post a comment.