Credito: Studio Amati Bacciardi – Rossini Opera Festival
Roberta Pedrotti
L’Agnus Dei si spegne nella sala del teatro Rossini e l’orchestra sigla la conclusione dell’estremo capolavoro rossiniano, pochi secondi di silenzio interlocutorio e un Buu tuona dall’alto, partono gli applausi, che si trascinano senza entusiasmo frammisti a sparsi dissensi. In effetti questa edizione della Petite Messe Solennelle non si può dire abbia chiuso in gloria il trentesimo Rossini Opera Festival e le sole prove degli interpreti maschili si sono dimostrate all’altezza della situazione. D’altra parte non è una sorpresa se quando Francesco Meli apre bocca è come se sorgesse il sole e una pioggia d’oro inondasse il teatro come Giove nella stanza di Danae. Senza sforzo apparente, con irresistibile naturalezza, la voce si espande magnifica e dipana generosa e schietta le preziosità del Domine Deus come di tutti gli assieme. Qui gli fa da contraltare Mirco Palazzi, che ci restituisce il piacere di una voce di basso autentica e morbidamente italiana che non teme gli estremi della tessitura e s’impone con accento nobile e autorevole; così il Quoniam è l’altro, indiscutibile vertice della serata. Il resto si pone diversi gradini al di sotto, sorprendendoci in negativo con una Kate Aldrich dimentica della grinta sfoderata in Zelmira, piuttosto timida e spaesata alle prese con un Crucifixus e un O salutaris hostia stentati e scolastici. Nominalmente mezzosoprano, come tale viene scritturata per un’eroina Colbran e nella stessa edizione del festival compare come soprano nella Petite Messe; non siamo fanatici della classificazione vocale – tutt’altro – e riteniamo la bella cantante del Maine un Falcon potenzialmente interessante, ma ci pare che nella gestione della sua carriera ci sia una confusione poco fruttuosa. Mezzosoprano di nome e di fatto sarebbe Anna Bonitatibus, anch’essa poco convincente vuoi per l’eccessivo vibrato, vuoi per il timbro troppo secco, vuoi per lo scarso coinvolgimento emotivo. Il peggio, però, è nella bacchetta di Paolo Carignani, che dopo il risultato non esaltante del Comte Ory ritroviamo sul podio dell’Orchestra del Comunale di Bologna, condotta con pesantezza e dinamiche piatte (il solito generico forte o mezzoforte buono per tutti gli usi) e sbrigative. Il suono è francamente brutto, ma quel che più rincresce, in un tale gioiello nel quale l’intreccio significativo del testo collima con la perfetta astrazione d’una polifonia che è la summa della storia della musica sacra e prelude a traguardi d’avanguardia, è l’imprecisione e dell’intonazione e dei contrappunti, che sortiscono, proprio nelle architetture cristalline e grandiose (siamo sempre nella versione orchestrale scritta nella Parigi di Berlioz) del Gloria, del Credo, dell’Et resurrexit e del Cum Sanctu Spiritu uno spiacevole effetto di marmellata sonora. A completare un quadro purtroppo desolante, l’esecuzione del tutto insufficiente di Giovanna Franzoni (indisposta? impreparata?), all’organo per il Prelude réligieux. Increduli e addolorati per questa triste chiusura di festival partiamo serbando almeno le conferme delle qualità di Meli e Palazzi, nonché la confortante consapevolezza che il pubblico è ancora vivo e non teme di esprimere con forza il dissenso come il gradimento. Anche questa è una forma d’amore per il Festival e Rossini, guai se si scivolasse nell’indifferenza.
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