Credito: Ramella & Giannese – Fondazione Teatro Regio di Torino
Roberta Pedrotti
Il Regio di Torino chiude il bilancio in attivo, non solo artisticamente, ma anche economicamente. Qualità, quantità e una gestione virtuosa si sono felicemente sposate in un teatro che vorremmo considerare un esempio più che una mosca bianca. Purtroppo l’annuncio si chiude con una nota di pessimismo in previsione del prossimo anno. Infatti, nonostante una stagione sempre ricca e interessante, ma costruita tenendo ben presenti le esigenze del portafoglio, i nuovi tagli al FUS e la politica del ministero per i bene e le attività culturali mettono a serio rischio la possibilità di chiudere il prossimo bilancio non solo in attivo, ma anche in pari. Una situazione emblematica, perché realtà come queste, ovvero una delle pochissime fondazioni nostrane a poter ambire a un reale respiro europeo, andrebbero invece incoraggiate e favorite. Anche il successo fragoroso di questa eccellente Adriana Lecouvreur, ultimo titolo di un cartellone che ha offerto tanti motivi di soddisfazione, conferma quanto la qualità paghi e come ogni singolo elemento della produzione – in buca, sul palco, dietro le quinte – sia fondamentale per l’esito finale di uno spettacolo. Anche e soprattutto per un’opera come questa, tradizionalmente legata a grandi voci e, massime, a una primadonna carismatica. Opera strana, l’Adriana, decisamente crepuscolare, in bilico fra finezza e cattivo gusto, con un libretto spesso incoerente del velleitario dannunziano Colautti (che però ci ammanisce in Acerba voluttà una delle pochissime arie in forma di sonetto) e il melodismo spesso facile di Cilea impregnato però di preziosità strumentali. Preziosità che a Torino non abbiamo mancato di delibare stilla a stilla, ma che Renato Palumbo sia un direttore del massimo valore lo scrissi già dieci anni fa su queste pagine, quando era un giovane di belle speranze con sulle spalle un’intensa gavetta all’estero. Da allora non ha deluso. Qui poi si mette in evidenza, come già nella Lucrezia Borgia e nel Trovatore, come la collaborazione con Marcelo Alvarez porti il tenore a ottenere i migliori risultati, valorizzando la malia del timbro e la sua natura lirica, limitando invece l’esuberanza talvolta eccessiva che, per esempio, nella recente Tosca parmigiana l’ha fatto apparire troppo guascone, se non gigione. A Torino no, mai. La dolcissima effige e L’anima ho stanca sono cesellate su un impalpabile e prezioso tappeto sonoro con accento schietto e comunicativo, ma mai scontato o strappa-applausi. Al contrario, mentre la sua vocalità lirica si espande con sonorità tale da permettersi d’approcciare questo ruolo drammatico, emerge vivissimo il ritratto del dandy seduttore Maurizio di Sassonia, afflitto da profondo taedium vitae. Anche la femminilità opulenta di Micaela Carosi ha modo di mettersi in risalto, anche lei trova nell’orchestra sostegno e stimolo coloristico e coglie accenti toccanti soprattutto in Poveri fiori, non mancando d’emozionare nell’invettiva di Fedra. Appare anche attenuata, in questa occasione, la sensazione frequente di potrei ma non voglio, ovvero di non completo sfruttamento di tali mezzi vocali, che talvolta suscitano le prove della Carosi, che è invece in quest’occasione una personale e completa Adriana. Marianne Cornetti difetta forse della sensualità della principessa di Bouillon, ma la voce è rara e dorata, di autentico mezzosoprano lirico spinto; viceversa il canto di Alfonso Antoniozzi è tutto al servizio del personaggio e il suo Michonnet è semplicemente un capolavoro e tocca al cuore con la sua discreta umanità. Fra i comprimari spicca il giovane e assai talentuoso Simone del Savio, che canta con eccellente timbratura e grande facilità la parte del principe di Bouillon: finalmente un giovane autentico basso baritono solido e timbrato! Insieme a lui citiamo i perfetti Luca Casalin (Chazeuil) e Carlo Bosi (Poisson), poi Diego Matamoros (Quinault), Patrizia Porzio (Dangeville) e Antonella De Chiara (Jouvenot). Splendido, pur nell’esiguità della parte, il coro, e ancor più l’orchestra, che coglie il risultato migliore della stagione insieme a quello dell’Italiana in Algeri con Bruno Campanella. Lì era un freschissimo Franciacorta, qui un Barolo o un Chianti profumato; preciso e brillante, il complesso torinese ha saputo esaltare dettagli strumentali che, nel caso dell’Adriana, rivelano persino suggestioni d’oltralpe, sempre naturalmente reinterpretati dalla Musa lirica di Cilea. Resta lo spettacolo di Lorenzo Mariani, illustrativo ma non troppo, elegante ma non troppo rifinito nella recitazione (la Bouillon potrebbe evitare di sbracciarsi come una diva del muto). Funzionale e tutto sommato piacevole, tale da consentire la piena espressione delle virtù, controverse ma ben vive, dell’Adriana, che difatti è stata salutata da ovazioni clamorose per tutti i musicisti.
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