Foto: Maggio Musicale Fiorentino
Massimo Crispi
Il Maggio Musicale è in crisi profonda, dovuto in parte agli annosi sperperi
precedenti e ai conti “bizzarri” della passata sovrintendenza, in parte alla
crisi economica che ha investito l’Europa e il nostro paese in particolare. Il
Don Carlo d’apertura si fa in forma di concerto, così come accadrà anche a Maria
Stuarda, Abbado e Gatti dirigono gratis per solidarietà. Il nuovo Teatro
dell’Opera di Firenze, costato centinaia di milioni e incompiuto, resta chiuso
per gli enormi costi gestionali per la Fondazione, insostenibili. E quasi resta
lì, in bella mostra, come il simulacro di questi anni di sperperi. Il
Farnace di Vivaldi, terza opera del cartellone del festival, invece, passa
dalla versione concertistica a quella scenica e dal Teatro Goldoni allo
sterminato Comunale, che pensavamo ormai passato a miglior vita. Ne curano
rispettivamente la parte musicale e scenica il maestro Francesco Maria Sardelli
e Marco Gandini. Gran
battage è stato fatto sull’importanza della riproposta in tempi moderni
dell’opera forse più fortunata di Vivaldi, un’opera che ebbe addirittura almeno
otto edizioni diverse (ne sopravvivono due), perché in ogni città dove si
rappresentava vi erano cambiamenti e aggiunte, addirittura cambi di registro
vocale, eccetera. La versione presentata a Firenze era quella di Ferrara del
1739, l’ultima di Vivaldi. Ma, ahimè, monca del terzo atto, perché perduto. La
versione concertistica era quindi la migliore possibilità che si aveva per
riportare alla luce quest’opera dimenticata ma al Maggio hanno voluto un po’
strafare e decidere, diciamo non proprio all’ultimo momento ma quasi, per una
versione in scena. O semiscenica, più precisamente, perché, non avendo avuto i
cantanti, avvisati anch’essi probabilmente all’ultimo momento del cambio di
destinazione, la possibilità di mettere la partitura a memoria, la presenza di
imbarazzanti leggii sparpagliati ovunque in scena rendeva quest’ultima un
percorso a ostacoli. Ostacoli accentuati da una regia (?) di Gandini che,
volutamente, almeno secondo quanto lui dice del teatro barocco, cioè che non bisognerebbe
classificarlo come tale, prescindendo quindi dalle convenzioni, dai linguaggi,
dalle relazioni che ne compongono la struttura e il significato, forse per
rendere contemporanei (?) gli affetti descritti nel libretto, ignora che la
lingua usata nel libretto di Antonio Maria Lucchini è comunque una lingua aulica,
in versi, con una prosodia, e, soprattutto, con versi che esprimono determinate
cose e rapporti, con metafore, allegorie e figure retoriche tipiche del barocco.
Le indicazioni (?) date agli artisti e, soprattutto le loro relazioni in
palcoscenico apparivano assai schizofreniche e casuali.
Ma in realtà è peggio
di così. Va bene che, con le ristrettezze economiche del caso, ti danno delle
frattaglie di scenografie precedenti pensate anche per altre opere (il Don
Carlo di Ronconi dell’inaugurazione; ci è sembrato di riconoscere avanzi della
Clemenza di Tito di Balò di qualche anno fa, con modellini di rovine romane…)
che non si sono compiute a causa dei rubinetti rimasti all’asciutto per la
carestia di fondi, va bene che ti danno anche pochissimo tempo per mettere in
piedi qualcosa che nasce già monco drammaturgicamente, senza un atto completo,
addirittura, va bene tutto. Ma utilizzare in modo casuale tutti gli ingredienti
e far diventare questo Farnace una colossale inutilità è veramente troppo. È un
soufflé sgonfio, un dolce senza zucchero, un arrosto bruciato. È innanzi tutto
il totale scollamento tra chi propone e chi viene a vedere e ascoltare. I fari
da stadio abbaglianti sul pubblico, come se fosse il vero nemico, i leggii su
trabiccoli illuminati da luci al neon spostati imprevedibilmente da tecnici,
enormi e rumorose tende di plastica (che si sarebbero potute sfruttar meglio
con adeguate luci), illuminazioni casuali, gesti inconsulti degli artisti, personaggi
fuori luce, proiezioni di volti inespressivi (mah!) che nulla avevano a che
vedere con ciò che succedeva in scena, erano il perenne agguato alla pazienza
dello spettatore. Ma
lo spettatore ormai si accontenta, è abbastanza pacifico, comprende che il
Maggio è in difficoltà per il pareggio, e si fa commuovere dall’appello che
Sardelli lancia in sostegno del festival più longevo d’Italia prima di iniziare
l’opera. Un po’ ruffiano, si può dire? Casomai, si proclama dopo… Dal
punto di vista acustico le cose non andavano così tanto meglio. La soffice
musica vivaldiana necessitava giustamente di uno spazio più raccolto, per tutte
le sfaccettature di cui abbonda la partitura e ben rese da Sardelli, anziché lo
spazio sterminato del Comunale. Quante sfumature della musica napoletana
dell’epoca, insolite in Vivaldi… interessante.
Però, alla fine, la partitura non
risultava così indimenticabile come annunciato. Non tutte le arie erano
all’altezza e soprattutto non tutto il cast era all’altezza delle arie. Se i
ruoli di Farnace, Mary-Ellen Nesi, Tamiri, Sonia Prina, Gilade, Roberta Mameli,
e mettiamoci pure Selinda, Loriana Castellano, sono stati risolti decorosamente,
la furibonda Berenice di Delphine Galou, con fissità sonore che speravamo
obliate e démodé, e i due tenori (eroici???) Emanuele D’Aguanno, come Pompeo,
dal suono spesso nasale e dal debole registro grave, e l’improbabile Magnus Staveland,
che per di più colla prosodia e vocalità italiane non ha nulla a che spartire, erano
quasi da saggio scolastico. Quando
si affronta un’opera barocca, in genere, ormai, la si affida scriteriatamente
ai cosiddetti “specialisti” del repertorio. I quali “specialisti”, spesso senza
avere alcunché di speciale se non voci piccole e fisse, mancano di una cosa
fondamentale per il teatro in generale e per quello barocco in particolare: il
carisma vocale. Un’opera non è un madrigale e le opere barocche erano eseguite
dalle autentiche star di quel tempo. La dimensione della star la avevano solo
Prina, Nesi e Mameli, e lo hanno sufficientemente dimostrato, nelle loro arie e
anche in buona parte dei recitativi. Gli altri sembravano capitati lì per caso,
senza una coscienza del verso recitato né del personaggio, per non parlare della
vocalità vera e propria e della drammaturgia. Costoro, sperduti in un enorme
palcoscenico, con passerelle lontanissime, senza attrezzi e soprattutto senza
una guida registica degna di tale nome, alcuni già probabilmente carenti in
partenza di quelle qualità precipue che un cantante d’opera dovrebbe possedere,
hanno nuociuto enormemente allo svolgimento della rappresentazione. Meglio
assai sarebbe stata una soluzione in forma di concerto con una scelta di arie,
le più belle di tutte le edizioni del Farnace disponibili, con un vero attore (e
non con quell’improponibile voce fuori campo) che raccontasse le parti mancanti
o gli intrecci. Meno confuso, lasciando più spazio e meno intralci alla musica,
che in alcuni momenti era veramente sublime, e meno fastidioso di luci
inconsulte che accecavano inutilmente e arbitrariamente lo spettatore o
tralicci avanzi di magazzino che non avevano alcuna ragion d’essere. Ma per far
questo bisogna avere delle idee perché si è molto più scoperti e l’attenzione è
focalizzata sulla bravura degli interpreti e le idee, si sa, non si trovano ad
ogni angolo ma solo affidandosi a persone consapevoli. Sarebbe
certamente costato tutto molto meno, soprattutto in momenti di crisi, e con
migliori risultati. Apprezzatissime
e applauditissime, giustamente, le arie di Gilade (Mameli pirotecnica),
“Quell’usignuolo che innamorato”, le arie di Tamiri (Prina sublime), tutte, e
l’ultima di Farnace (Nesi intensa e magica), “Gelido in ogni vena”, struggente,
anche musicalmente, facendo penetrare realmente il gelo nello spettatore, che
ha chiuso la rappresentazione. Rimarchiamo che quest’ultima aria proveniva
della versione del 1727 ed è stata usata per dare una conclusione all’opera
monca. Non
nominiamo gli autori delle scene, dei costumi e delle proiezioni per “carità di
patria”. Disapprovazioni sonore al regista, almeno questo.
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