Foto: Gianluca Moggi
Massimo Crispi
In un Festival 2013, nella tenaglia dei tagli imposti dalle esigenze di
pareggio di una Fondazione commissariata, dopo aver cambiato nel giro di poche
settimane la programmazione del Barbiere di Siviglia con Il Cappello di paglia
di Firenze si è optato, alla fine, per The Rape of Lucretia una ripresa di un
allestimento dei Teatri di Reggio Emilia che si era già visto nello stesso
Teatro Goldoni nel 2001. Però la scelta obbligata dalle necessità non è apparsa
per niente un ripiego, anzi quanto mai opportuna per via delle celebrazioni del
centenario della nascita del compositore Benjamin Britten. Un allestimento
vincente, bisogna dire, perché sia la struttura scenica, essenziale ma, proprio
perché essenziale, completa, che non mostra i segni del tempo e che valorizza
il materiale drammatico e sonoro di quest'opera d'arte assai complessa e che
offre diversi livelli di lettura L'allestimento scenico, costumi e luci compresi, era di Gianni Carluccio
mentre la regia era sempre di Daniele Abbado. Dirigeva il complesso cameristico
del Maggio Musicale il maestro Jonathan Webb. Daniele Abbado mette subito le mani avanti, dicendo che questa messa in
scena parte già da un "tradimento" del testo dell'autore. Certo la
vicenda tratta da Tito Livio e poi filtrata da Shakespeare e, successivamente,
dal drammaturgo francese André Obey e per ultimo dal librettista Ronald Duncan,
che scrisse un testo di altissima qualità poetica e drammatica, è digerita
diverse volte e mostra, nel suo cammino, sempre più analogie con l'attualità.
In origine ci sarebbero i due cori, maschile e femminile, un tenore e un
soprano, che sono i veri protagonisti dell'opera, che leggono due libroni e
raccontano i fatti. I personaggi che agiscono sulla scena sono quindi una loro
proiezione, i cori sono gli osservatori di ciò che avviene, commentano,
spiegano al pubblico il significato di quelle azioni, dalla corruzione della
purezza ai sentimenti negativi come l'invidia e la perfidia che rovinano ogni
relazione umana. E di questi sentimenti e vicende giravano ancora in Europa le
oscure memorie a causa della seconda guerra mondiale appena passata, con i suoi
genocidi e le sue distruzioni, dove tutto sembrava che stesse per finire. Dov'è quindi il "tradimento"? Eccolo: accade che in questa messa
in scena i due cori non leggano libroni, non stiano immobili, impassibili
commentatori come impassibile è la Storia, ma partecipino e seguano i movimenti
di queste marionette che si agitano in palcoscenico, legandosi con esse e quasi
immedesimandosi nei loro problemi. Viene ribaltato il concetto del coro della
tragedia antica: Abbado rende il dramma, in questa maniera, più moderno, almeno
nelle sue intenzioni. Tutto, comunque, in scena funziona molto bene e lo
spettacolo fila liscio anche se, sia per l'argomento sia per il materiale
testuale musicale, è abbastanza impegnativo. Lo stupro di Lucretia è la
malvagità umana che sciupa la purezza, la bellezza e l'onestà solo per il
piacere di distruggerle, lasciando nella disperazione la stessa Lucretia e il
marito Collatinus. La tragedia terminerà col suicidio purificatore di Lucretia
che, pur incolpevole, non può sopportare l'onta. L'operazione di recupero dell’allestimento è stata un'ottima idea,
soprattutto in una fase di risparmio di energie, e il cast di questa produzione
si è particolarmente distinto. Bravissimi innanzi tutto i due cori, Gordon Gietz e Susannah Glanville,
sempre in scena a sottolineare sia col canto che col corpo ogni momento del
dramma.Collatinus era il basso Thomas Tatzl, ottimo e commovente, in perfetta
sintonia colla moglie Lucretia, Julianne Young, intensa e profonda,
un'autentica matrona di grande carisma. Juinius, Philip Smith, e Tarquinius,
Jacques Imbrailo, hanno svolto più che dignitosamente i loro ruoli, mai sopra
le righe, e la Bianca di Gabriella Sborgi era di grande presenza vocale e
scenica. Una luce sonora e visiva era la dolce Lucia di Laura Catrani. La direzione di Jonathan Webb di quest'organico minimo è stata sempre
eccellente senza alcuna caduta di tensione. Unica cosa forse superflua erano certi video (di Luca Scarzella) con
scene di guerra: inutili didascalie, c'era già il denso testo di Duncan
sublimemente intriso di orrori e di dolcezze e le sapientissime luci di
Carluccio che hanno reso ogni immagine più drammatica.
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