Monday, August 26, 2013

Maria Stuarda al Maggio Musicale Fiorentino.

 
© Teatro del Maggio Musicale Fiorentino - Foto Gianluca Moggi, New Press Photo Firenze
 
Massimo Crispi
 
Quinta e ultima opera del 76° festival del Maggio Musicale Fiorentino 2013, è andata in scena al Teatro Comunale Maria Stuarda di Donizetti, in forma oratoriale. Maria Stuarda è un'opera legata al Maggio e che deve proprio al Maggio l'ingresso a pieno diritto nel repertorio di quasi tutti i teatri del mondo. Dopo più di un secolo di silenzio e una storia travagliatissima, dovuta a censure, a capricci di primedonne, a opportunità sfumate, ci fu una prima riscoperta a Bergamo nel 1958. Ma fu nel 1967, in uno storico allestimento di Giorgio De Lullo e Pier Luigi Pizzi, con Verrett, Gencer, Tagliavini, Ferrin e Molinari Pradelli al podio, che l'opera venne riscoperta in tutta la sua suggestione drammatica e melodica. Certo, con due regine come Verrett e Gencer il palcoscenico diventava un ring per due tigri, lasciando immaginare cosa sarebbe stata in seguito la storia di quest'opera con coppie come Turangeau-Sutherland, Cortez-Caballé, Baltsa-Gruberova, Farrell-Sills, Dupuy-Miricioiu fino ad arrivare più recentemente a Antonacci-Devia e Ganassi-Gruberova. Due figure regali in perenne competizione, con un peso vocale e una grinta che tiene fino alla fine, due primedonne "soprano" sebbene nella tradizione moderna si tenda ad affidare il ruolo di Elisabetta a un mezzo.  In quest'edizione fiorentina del 2013 Maria Stuarda era Mariella Devia ed Elisabetta Laura Polverelli. Avevamo già recensito il concerto splendido di Mariella Devia di due anni fa, a chiusura del Maggio 2011, dove presentò un'antologia delle regine donizettiane, e l'Anna Bolena dell'anno scorso, manifestando l’ammirazione incondizionata per il soprano ligure.  Il miracolo che Devia compie ogni volta, a sessantacinque anni suonati (o forse meglio dire cantati), è semplicemente soprannaturale. La sua Maria Stuarda è un manifesto di belcanto, di tecnica inarrivabile, una tecnica che le permette di affrontare le più ardue tessiture e colorature senza il minimo cedimento e con una matura e cosciente espressività. Ma non si percepisce solo la tecnica. La voce dell'artista è velata di malinconia. Qualcosa d’inafferrabile, un colore speciale: Malinconia, ninfa gentile. O, chissà, siamo noi che cogliamo questa malinconia perché ascoltiamo la Devia alla fine di una carriera stellare e vorremmo che non finisse mai la sua magia.  La dolente, innamorata ma pur capricciosa e orgogliosa regina di Scozia ha trovato qui a Firenze una delle interpreti più appropriate che, nella sua maturità artistica, arricchisce con accenti struggenti e intimistici questo ruolo ambito da molti soprani belcantisti. C'era, ascoltandola, una vitale disperazione ma non il patetismo, c'era la dignità della donna politica ma anche la mortificazione di quella dignità per amore di Leicester. La scena degli insulti, quella che fu censurata all'epoca di Donizetti perché neanche una regina poteva dare della "meretrice" a un'altra regina (parola che la Malibran, a Milano, invece, decise di proferire, incurante delle censure), era qui più profonda che altrove. Meno ferina e plateale, forse, dell'interpretazione di altri soprani, ma nella famosa frase "Figlia impura di Bolena, ecc.", detta dalla Devia, c'era tutta la stanchezza di Maria di essere stata provocata e vilipesa pubblicamente, oltre che imprigionata, dalla cugina Elisabetta, alla quale aveva peraltro chiesto aiuto. La regina d'Inghilterra era Laura Polverelli, uno dei mezzosoprani attualmente più quotati, che colla sua bella voce brunita e agile ha offerto una Tudor elegante (splendida l'aria di sortita "Ah! Quando all'ara scorgemi") anche se, forse, leggermente contenuta rispetto all'aggressività che il ruolo richiamerebbe. Accenti forti e sdegnosi, di una donna abituata al potere assoluto e gelosa dell'amore di Roberto Leicester, che doveva spartire colla detestata cugina (ma nella storia reale non fu così), erano presenti nella sua interpretazione, senz’alcun dubbio, e ci sono stati momenti musicali sublimi, ma nel confronto tra le due primedonne quella tracotanza che ti dà solo la sicurezza del potere (e la rabbia di essere arrivata a governare l'Inghilterra solo dopo le morti e le sventure di fratelli e sorelle, vivendo prima da prigioniera, sempre sola con se stessa), non era forse marcata appieno. Dettagli, comunque.  Notevoli certamente le arie delle singole regine e i brani d'insieme; il pentimento di Maria confessato a Talbot (un Gianluca Buratto dalla splendida voce scura e morbida, ricca e sonora e pur capace di soavità inaspettate, bravo in ogni suo intervento) era commovente negli accenti disperati, ma mai eccessivi, della Devia, che accompagnava ogni suono con una mano invisibile, sostenendolo fino all'inverosimile con dei fiati lunghissimi, come se avesse dentro di sé una riserva d'aria da nuotatore di profondità. O, forse, come se avesse una coscienza della realtà molto maggiore di ciò che appare in superficie. Leicester, il tenore, in questa lotta perenne di soprani drammatici di coloratura, finisce per brillare di luce riflessa, anche perché il ruolo è decisamente subalterno a quello dei soprani: non ha quell'identità né vocale né drammatica che ne fa l'eroe romantico delle altre opere donizettiane, non ha arie indimenticabili. Qui a dargli la voce era Shalva Mukeria, che ha, diciamo, condotto la parte come il cavalier servente delle due dame, senza particolare evidenza ma senza neanche infamie. Diciamo che timbricamente e drammaticamente non s’imponeva rispetto al resto. Il perfido Cecil era il baritono Vittorio Prato, voce educata, certamente, ma non sufficientemente incisiva per svettare su dei personaggi così forti come quelli delle due donne e come anche il ruolo richiederebbe. Nel trio Elisabetta-Cecil-Leicester mancava un po' questa rabbia sopra le righe che percorre tutta l'opera, questa brama di sangue tipica del periodo Tudor, dove chiunque fosse scomodo era giustiziato in un batter d'occhio. La brava Diana Milan era Anna Kennedy, la dama di Maria, voce interessante che siamo curiosi di vedere che direzione prenderà.  Alain Guingal ha diretto gli ottimi complessi del Maggio con proprietà, senza particolari guizzi ritmici e interpretativi, ma con pulizia sonora e con attenzione alle esigenze vocali degli interpreti. Abbiamo apprezzato il velluto degli archi e i brillanti fraseggi dei fiati, nonché il coro composto e ben rifinito da Lorenzo Fratini. Ci rendiamo conto che quello al quale abbiamo assistito era un evento storico, perché, anche solo per motivi cronologici, possiamo considerarlo come una delle ultime apparizioni di Mariella Devia, ormai alla fine della carriera pur se in ottima forma vocale. Beninteso, le auguriamo di continuare finché potrà e finché la sua voce reggerà per darci altri momenti fatati. La sua interpretazione resterà, in ogni caso, un punto di riferimento. Abbiamo visto dei microfoni. Speriamo che sia stato registrato ogni suo sospiro a futura memoria.

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