Massimo Crispi
Ghiottoneria per intenditori, l'atteso Macbeth fiorentino del 76° Maggio
Musicale al Teatro della Pergola, nella sua versione originale del 1847, andata
in scena proprio alla Pergola, come ricorda una lapide sul muro esterno del
teatro, avvia verso il finale il martoriato festival 2013. Nella visione di Graham Vick, Macbeth è un re contemporaneo, con bodyguard, agi e
comfort da autentico dittatore di uno stato bananiero: maniere spicce e rudi,
niente di gentile percorre mai la sua mente, l'amore è assolutamente assente,
nessun'altra smania se non per il potere. E questo potere che genera potere
fino a ottundere un minimo di capacità critica, che invece al contrario porterà
la Lady alla pazzia e poi al suicidio per un barlume di coscienza per il male
creato e perseguito, è il protagonista dell'opera. La versione del 1847,
infatti, con dei brani in più e in meno rispetto a quella successiva, promuove
Macbeth come protagonista assoluto e non co-protagonista colla moglie. La
moglie è, sì, certamente importante, incita e suggerisce il marito a compiere
il misfatto, ma il creatore del male è Macbeth, qui con un'aria in più, che si
spinge sempre più oltre fino a tuffarsi in un nichilismo senza precedenti. Le
streghe, quindi, non sono le megere barbute che di solito fanno parte del
corredo dell'opera ma delle volgarissime puttane intacchettate e ipertruccate,
che si muovono tutte insieme come se facessero una danza di gruppo in una festa
di periferia (coreografie di Ron Howell). Così si apre questa versione, con uno
scenario tutto storto e in pendenza, colle pareti del palcoscenico a vista,
dove le puttane vengono illuminate da un'enorme plafoniera di luci al neon,
sempre presente nel corso dell'opera, quasi un cielo incombente sulla testa di
ognuno. Non ci sono calderoni fumanti né rospi venefici, ma siringhe e lacci
emostatici, per mostrare che le visioni sono provocate da droghe artificiali.
Peraltro, essendo puttane, si suppone che siano state retribuite per la loro
prestazione, anche solo per chiacchierare. Si usa così, in genere. Non v'era
traccia di parcella, per di più collettiva, visto che erano parecchie! Vaticini
gratis, olé. Non ci spieghiamo però perché le puttane dovrebbero essere
considerate delle streghe vaticinanti. In fondo chi crederebbe mai a una puttana?
Solo in Italia su ciò che dice Ruby Rubacuori ci si fanno intere trasmissioni
televisive spazzatura, ma un re chiederebbe mai un responso o un vaticinio a un
puttanone come quelle che erano sul palco della Pergola? Solo un mentecatto lo
avrebbe fatto. Io avrei capito meglio se le streghe fossero state delle
presentatrici televisive, le pseudo giornaliste che tutto sanno e che tutto si
permettono di prevedere, se proprio avessimo voluto trascinare nella contemporaneità
l'opera verdiana. Nel cambio di scena è una strega che lascia sul guanciale del
letto della Lady la lettera di Macbeth. Anche postina. Passiamo avanti… Il
vaticinio si compie e Macbeth diventa all'istante sir di Caudore, con grande
eccitazione della Lady, che si riscopre regina tutt'a un tratto. E non le
basta. Vuol diventare la regina di tutti, un po' la regina di cuori di Alice.
Spinge il marito all'assassinio, col classico pugnale, che poi maneggia pure
lei. Oggi però non lo userebbe più nessuno, un pugnale, e nessuno, soprattutto,
compirebbe un regicidio di mano propria. Assolderebbe una banda di albanesi o
di mediorientali e bon alé: Al Qaeda ha ucciso il re di Scozia! Magari
mostrandolo colle telecamere a tutto il mondo come lo fu l'abbattimento del
WTC. Questi regicidi fatti in casa reggono poco, nella contemporaneità,
soprattutto in uno stato pseudoeuropeo come quello mostrato in scena, è più da
staterello africano o asiatico. Per ricordarci che siamo nell'oggi e che esiste
il rilevamento delle impronte digitali, la Lady cerca di cancellare le sue e
quelle del marito da maniglie, poltrone, muri, collo stesso fazzoletto
insanguinato che però potrebbe lasciare tracce di dna, di profumo, di cipria…
al giorno d'oggi la cosa è assai sofisticata! Insomma la Lady passa per una
dilettante dell'omicidio. Però, nonostante tutto, si riesce a far passare
Malcolm, il figlio di Duncano, per parricida. Sicuramente di impronte del
figliolo nella stanza da letto del padre ce n'erano a bizzeffe. "Il futuro della Scozia" è un megaposter, in puro stile
berlusconiano, dove il faccione sorridente di Macbeth/Silvio accanto a una
famiglia con bambini sorridenti e biondi ammonisce che il futuro lo può
assicurare solamente lui col suo regno. Questo
è lo sfondo di un giardino con piscina recintato da rete e filo spinato (ma
quando mai… un re, oggi, avrebbe un giardino con un muro alto 10 metri e le
torrette d'avvistamento) dove ai congiurati che devono uccidere Banco basta
cambiare la giacca da nera in bianca (perfetti gelatai) per mimetizzarsi. E in
quattro e quattr'otto Banco viene pugnalato e messo sotto il tavolo del buffet,
coperto da un tovaglione che non fa trasparire alcunché, lo ritroveranno
certamente quelli delle pulizie. Il figliolo, invece, sebbene avvertito dal
babbo, che aveva un sentore di mala parata e quindi lo aveva equipaggiato per
un'eventuale lunga fuga con uno zainone in spalla, riesce a fuggire, nonostante
il peso dello zaino e nonostante un sicario agilissimo e svelto lo inseguisse…
nemmeno Speedy Gonzales era rapido come questo infante. Segue una festa
supercafonal con dame e cavalieri abbigliati come di dovere per una cena “elegante”
(ricordiamo che le scene e i costumi sono di Stuart Nunn). Brindisi e visioni
imbarazzanti (che vede solo Macbeth) insaporiscono il party, facendo fare al re
una figuraccia dopo l'altra. Le puttane
ritornano nell'atto successivo, fattissime, sdraiate, in convulsioni, in ciò
che era stato il giardino con fenicotteri rosa (statue in sintetico,
ovviamente, e prato/tappeto ripiegato assai male dove immagino che spostarsi
coi tacchi alti fosse un ostacolo non da poco) dove il piccolo Fleanzio giocava
senza tema alcuna prima di scappare.
Ma non è Macbeth che torna nell'antro
delle streghe, sono loro che vengono invitate a corte, non certamente per una
cena “elegante”. Le avrà pagate, almeno stavolta, per i loro deliri?
Addirittura una trans, con vocione da basso, una superstregona orrenda, si
approfitta della situazione e simula un accoppiamento col re. Mah… Forse è
troppo anche per Macbeth che viene stordito da tutte le visioni dei re che gli
succederanno, seguiti dallo spettro di Banco. Macbeth, in preda a chissà quali
fumi di droga e di disgusto, imbraccia una mitraglietta e decide quindi di
sterminare tutti, puttane comprese, che cercano di fuggire dal suo squilibrio
mentale. Bang Bang. Ultimo atto. L'autostazione di Birna, dove un popolo che ha
ancora addosso l'abito da sera ma una valigia con l'essenziale e dove un
distributore automatico d'acqua e bevande è forse l'unica cosa che funziona,
aspetta un autobus che li porti lontano dalla Scozia insanguinata. Arrivano i
nostri, invece, e liberitutti. Macduff canta la sua aria da eroe e insieme a
Malcolm si avvia alla reggia per far fuori il tiranno. La Lady si aggira sola
per la sua casa, accendendo tutte le luci. In realtà avrebbe dovuto avere una
lanternina, una candela da comò, simbolo peraltro di come poca luce ci sia
nella sua mente e di quanta meno ce ne sia intorno a lei. La notte e il buio,
con tutti gli spettri, le incertezze, i dubbi, i sicari nascosti, gli agguati,
erano i grandi assenti da quest'opera gotica nella versione di Vick. La
lanterna era però quel lumicino che le mostra il male che ha commesso, una
minima presa di coscienza. Particolare simbolico annientato da un'inutile luce
fredda al neon. La signora canta la sua aria e se ne va per prepararsi al
suicidio, che viene annunciato dalla sua dama di compagnia a Macbeth, il quale
per tutta risposta spara alla dama, stendendola sul colpo. Bang, un colpo solo,
centro. Un capriccio. Sparatorie, vecchie storie di rivalità rivangate, un
corpo a corpo tra Macbeth e Macduff e fine di Macbeth e di tutto. La patria
tradita è liberata dalla tirannide. Cinematografico senza cinema. Effetto
manicomio. Questa, in sintesi, la drammaturgia di Graham Vick. Molti altri
particolari ci sarebbero, ma forse è meglio lasciarli nel dimenticatoio.
Stavolta ci è parso che Vick abbia preso un grosso abbaglio. Tutto ciò succede, ne deduciamo, quando non si
conosce a fondo il libretto e, soprattutto, i libretti romantici italiani col
loro linguaggio contortissimo (Piave era uno dei più contorti, insieme a Solera
e Cammarano, per non parlare del successivo Ghislanzoni…) e lontano anni luce
dalla lingua attuale. Il gap linguistico è davvero incolmabile e vedere dei
personaggi vestiti in moderno parlare e agire come dei mentecatti in una lingua
inconsueta e compiendo atti che oggi nessuno compirebbe in quel modo fa
l'effetto manicomio. Probabilmente Vick ha in mente Shakespeare (che è una cosa
assai diversa dalla riduzione di Piave) e la splendida lingua del bardo, pur
cronologicamente assai lontana, è molto meno distante dall'inglese corrente di
quanto non lo sia l'idioma di Piave dall'italiano odierno. Però, si sa, il re
nudo lo vedono tutti ma non lo dice nessuno, applausissimi scrosciantissimi. Musicalmente
la lettura di James Conlon ci ha
offerto un Verdi elegantissimo, senza effetti da balera padana, con delle belle
sonorità in piano e mai delle bande sguaiate. Il lavoro fatto coi cantanti,
rispettando le indicazioni verdiane, cupo, sottovoce, soffocato, è stato preso
alla lettera e gli artisti hanno risposto bene. Primo di tutti eccelleva il
Macbeth di Luca Salsi, dalla voce
assai pregiata, dotata di eleganza timbrica e sempre pertinente nell'accento,
insinuante nei piani, tonante nei forti, cattivo quanto basta per essere
credibile anche in quest'incredibile messa in scena. La Lady, Tatiana
Serjan, ahimé, mostrava buona voce ma diseguale e disordinata, impreparata
per le complesse acrobazie e i salti di registro improvvisi di cui il ruolo è
disseminato. La micidiale cabaletta della versione 1847, "Trionfai! Securi
alfine", ne mostrava i limiti, così come mostrava i suoi limiti di
confidenza cogli italici fonemi nella lettura della lettera del primo atto e
nel canto in generale. A sua discolpa possiamo però dire che non c'è quasi
un'esecuzione che si avvicini alla perfezione di quest'impossibile brano. Ma,
ma, ma! "Una macchia è qui tuttora" è stata eseguita con un'intensità
e accento davvero degni d'encomio. Le consigliamo di aprire meglio gli acuti notevoli
che possiede, lasciando spazio alla tanta voce che ha, e di studiare
maggiormente il rapporto del canto colla parola, almeno quella italiana. Bella
e slanciata figura, la Serjan si mostrava sicura e disinvolta scenicamente. Saimir Pirgu, Macduff prestante e
atletico, ha spalmato la sua generosa voce tenorile sul pubblico della Pergola,
riscuotendo grande successo alla fine della sua aria. Bravo. Antonio Corianò è
stato un discreto Malcolm dal piglio eroico. Marco Spotti era un Banco un po' spento, con qualche intubamento
vocale, non era il basso nobile che forse ci sarebbe voluto. Bene gli altri,
come si dice sempre, e discreto il coro di Lorenzo
Carrieri, "Patria oppressa" assai struggente, e streghe scatenate
nella compagine femminile. In conclusione: operazione riuscita a metà, però,
almeno, si è osato. Anche qui si sarebbe fatta miglior figura, viste le
esigenze di pareggio della Fondazione, a eseguire l'opera in forma oratoriale
per risparmiare, e parecchio! O no?
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