Foto: Rocco Casaluci
Anna Galletti
Nell’ambito di una stagione all’insegna dell’innovazione e della
proposta di linguaggi nuovi, il 17 aprile il Teatro Comunale di Bologna, in
coproduzione con il Théâtre de La Monnaie / De Munt di Bruxelles e il Teatro
Bolshoi di Mosca, ha presentato “Jenůfa”, musica e libretto di Leoš Janáček. Il compositore ceco, vissuto tra
la seconda metà dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento, ha trasposto in
una composizione ritmica e musicale del tutto originale il dramma teatrale di
Gabriela Preissová “La sua figliastra”. Opera dei primi del Novecento, “Jenůfa” riflette
una tradizione e una cultura geograficamente vicine, ma per altri aspetti
lontane, da quelle proprie dei Paesi in cui la musica lirica ha avuto il suo
grande sviluppo e successo, Italia in
primis. Il dramma
si svolge su più piani, tutti soggettivi e al tempo stesso universali,
enfatizzati dall’ambiente claustrofobico del villaggio contadino moravo in cui
la vicenda si svolge. La giovane Jenůfa ama il ricco cugino Števa, il quale
tuttavia, pur essendo a conoscenza della gravidanza di lei, rifiuta di sposarla,
così condannandola ad una vita di solitudine e di emarginazione. Il rifiuto di
Števa trova pretesto nello sfregio inflitto al bel viso di lei da Laca, che la
ama e che non accetta di vederla sposa del fratellastro. La severa matrigna
della ragazza, Kostelnička, convinta che il bambino che nel frattempo è nato
sia la causa della disgrazia di Jenůfa, in preda ad una violenta disperazione
decide di ucciderlo. Da questo azione tremenda prende avvio il finale della
storia, che vede l’inizio della redenzione di Kostelnička, il perdono di Jenůfa
per se stessa e per tutti coloro che, in vari modi, hanno sbagliato nei suoi
confronti, e il coronamento del sogno d’amore di Laca. Protagonista
indiscusso di questo allestimento è il regista lettone Alvis Hermanis, che pare voler riportare in immagini la variegata
composizione musicale di Janáček.
L’allestimento passa, infatti, con grande naturalezza dalla raffinatezza
dello stile liberty usato per le scenografie del primo atto alla brutalità
dell’interno di una casa contadina ceca di inizio Novecento del secondo, dalla ricercatezza
alla trasandatezza dei costumi (di Anna
Watkins, splendidi), dalla ricerca del movimento stilizzato e simbolico dei
personaggi all’energia sprigionata dagli stessi in momenti di incontrollabile emozione.
Il tutto in una circolarità che riconduce il terzo e ultimo atto al primo, a
significare che in fondo, come ha insegnato Giuseppe Tomasi di Lampedusa nel
“Gattopardo”, tutto deve cambiare affinché nulla cambi. Al
successo dell’opera ha contribuito un cast di ottimo livello per questa
difficile “Jenůfa”, cantata in lingua ceca. Una prima menzione speciale non
può, tuttavia, mancare per Ángeles
Blancas Gulin, nel ruolo centrale del dramma, quello di Kostelnička, alla
quale ha dato vita in forma intensa e appassionata, senza temere di giungere a gridarne
la lacerazione interiore. La seconda menzione speciale è, invece, tutta per Juraj Valčua, direttore slovacco con
intensi legami con l’Italia (è direttore dell’Orchestra sinfonica della RAI dal
2009) e con l’Orchestra del Teatro Comunale di Bologna. Valčua ha condotto con
fermezza l’orchestra attraverso la partitura complessa di Janáček, che spazia
dalla canzone popolare a suggestioni wagneriane, regalando momenti di vera
emozione. Andrea Dankova è stata una
perfetta Jenůfa, dapprima ingenua, poi preoccupata, sofferente e finalmente
matura e pronta ad affrontare il destino che la vita le ha riservato. I tenori Ales Briscein (Števa) e Brenden Gunnel (Laca), con parti minori
in questa opera dove le figure femminili sono preminenti, hanno assicurato la
qualità del risultato complessivo con le loro belle voci e la buona
recitazione. Infine, si deve sottolineare la scelta originale del regista di
inserire, nel primo e nel terzo atto, la presenza costante di un corpo di ballo di sole danzatrici. Il
loro scorrere candido e incessante, grazie alle coreografie create da Alla Sigalova e riprese da Anaïs Van Eycken, ha impreziosito la
scena dal punto di vista estetico e arricchito il significato dell’azione come
solo il linguaggio muto della danza può fare.
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