Fotos: Bruce Zinger |
“Orfeo e Euridice”, opera composta nel 1762 da Cristoph Willibald Gluck su libretto di Ranieri de Calzabigi è stata presentata dalla compagnia canadese Opera Atelier uilizzando la versione Berlioz del 1859, ripristinando il balletto finale eliminato da Berlioz nella presentazione al Théatre Lyrique di Parigi. Con grande effetto drammatico, il sipario si apre sulla scena del funerale di Euridice, sposa di Orfeo, la cui morte lo ha immerso nella disperazione. Appare –“deus ex-machina” nel senso letterale del termine allo stile del teatro antico, un palco sospeso da cavi cala il personaggio sul palcoscenico– il dio Amore che conforta Orfeo con un’offerta da parte degli dei dell’Olimpo. La messa in scena di Opera Atelier –unica istituzione in Canadà e forse il tutto il Nordamerica a specializzarsi in opera e balletto barocchi, coprendo la produzione dei secoli XVII, XVIII e XIX– è di alto livello. Fondata esattamente trenta anni fa dai suoi attuali direttori artistici, Marshall Pynkoski e Jeannette Lajeunesse Zingg, Opera Atelier si avvale della collaborazione permanente della Tafelmusik Baroque Orchestra e il suo Coro da Camera (tra le migliori al mondo per la musica di tale periodo), disponendo anche di un proprio corpo di ballo. La direzione di David Fallis (che oltre alla sua attività a Toronto ha curato la produzione musicale di due serie per la BBC, I Tudors e I Borgia) è straordinaria e comunicativa, ottimi i fiati e gli archi. L’orchestrazione di Gluck con la revisione di Berlioz non denuncia i duecento e tanti anni della composizione: la musica non appare datata all’ascoltatore moderno. Una menzione speciale per la sua ottima prestazione merita poi il Coro di Camera Tafelmusik in quest’occasione integrato da 19 elementi.. Appare evidente l’accurata preparazione e l’importanza data alla recitazione e alla mimica scenica, nel rispetto dello stile del teatro barocco. Originariamente scritto per un “castrato” e poi per un tenore-alto, a partire dalla versione di Berlioz il ruolo di Orfeo è stato tradizionalmente coperto da un mezzosoprano o un contralto drammatico, anche se nel secolo XX sono stati vari i tenori che lo hanno interpretato, come Tito Schipa o lo stesso Pavarotti (difficilmente superabile comunque l’interpretazione di Kathleen Ferrier).
Questa volta il ruolo è del mezzosoprano Mireille Lebel, che oltre all’eccellente tessitura della voce mostra anche buone doti di attrice e accenna con grazia ai passi di ballo, muovendosi in modo da risultare un Orfeo convincente. I due soprani che interpretano Euridice (Peggy Kriha Dye) e Amore (Meghan Lindsay), invece, entrambi dotate di buone voci, non risultano particolarmente brave come attrici, soprattutto Euridice esagera con le movenze. I ballerini sono in genere molto bravi e sincronizzati, mentre le ballerine –e pertanto gli ensemble del balletto– non sono all’altezza degli altri elementi dello spettacolo. La costruzione di scena con pannelli mobili che diventano a tratti vere e proprie quinte (Gerard Gauci) è valorizzata dall’eccellente gestione delle luci di Michelle Ramsay, particolarmente interessante nella rappresentazione dell’Ade e dei Campi Elisi. Anacronistico il Tempio di Amore nel balletto finale, ispirato, con un salto di qualche secolo, a un tempio pompeiano piuttosto che a quelli dell’antica Grecia. Sorprendono un paio “cadute di stile”, una al momento della comparsa di Amore, la cui “macchina” ricorda le immagini del sacro cuore più che l’Eros della mitologia greca, e poi nel balletto di chiusura, quando nel girotondo i ballerini inalberano ognuno un cartoncino con sul davanti una lettera della frase “L’AMOUR TRIOMPHE”, e sul rovescio un cuore rosso, con un risultato da spettacolo di cabaret inadeguato ad un’opera lirica di classe.
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