Roberta Pedrotti
L’occasione fa il ladro fu l’ultimo allestimento rossiniano di Jean Pierre Ponnelle, uno degli ultimi in assoluto, nonché uno dei più belli e geniali. Sono passati ventitre anni dalla prima pesarese (il regista sarebbe morto solo pochi mesi dopo) e lo spettacolo non mostra una sola ruga, è fresco come e più di una nuova produzione. Merito dell’assunto geniale di base: il sottotitolo è “il cambio della valigia”? E allora che da una valigia tutto sorga magicamente, scene, attrezzeria, perfino i cantanti sotto la direzione del servo Martino, che dello scambio fatidico sarebbe involontario artefice e qui sviluppa il suo ruolo d’inconsapevole deus ex machina talvolta come spettatore onnisciente, talaltra come autentico, cosciente, demiurgo. L’incanto delle scene dipinte, della cantinelle a vista, dei cieli, dei tiri e della graticcia, dei movimenti in quinta, la magia delle luci (complimenti a Marco Filibeck), la delicatezza delle tinte pastello, lo splendore dei costumi evocano una sorta di carillon fiabesco colmo d’ironia, eleganza, gusto per il gioco teatrale nella sua più pura essenza. Spettacolo musicalissimo, come sempre quando si parla di Ponnelle, è ormai un classico che non ci si stancherebbe mai di rivedere e che ritroviamo con infinito piacere sulle tavole del Piermarini, di cui non patisce affatto l’ampiezza rispetto all’intimità del natìo Auditorium Pedrotti. Riprendendolo per l’annuale saggio della sua Accademia, la Scala non solo porta in scena uno degli spettacoli visivamente più riusciti della stagione (insieme con il Barbiere, guarda caso sempre di Ponnelle, e Da una casa di morti di Chéreau) ma soprattutto permette ai giovani interpreti – tutti fra i venticinque e i trent’anni – di inserirsi in un meccanismo perfetto e di contare su un disegno registico infallibile, qui ripreso da Sonja Frisell (che curò anche le memorabili recite pesaresi del 1996). Un sostegno non indifferente, dunque, per voci non prive d’interesse ma che, almeno per ora, non ci paiono trovare in Rossini il loro terreno d’elezione. L’attenzione si focalizza su Pretty Yende, venticinquenne sudafricana nei panni della primadonna Berenice: la voce è di bel colore e lascia trasparire ottime prospettive future soprattutto per la sonorità del registro centrale e la bellezza delle note tenute. Assolve alla coloratura e ascende senza problemi all’acuto quando richiesto, ma non è, o non è ancora, una virtuosa. Assieme alla cura della pronuncia italiana e del fraseggio dovrà sicuramente approfondire ancora la sua organizzazione vocale per valorizzare come merita la maturazione di uno strumento assai promettente e per rendere l’agilità più timbrata e sgranata in ogni passaggio.
Altra voce interessante è quella di Leonardo Cortellazzi, già da qualche anno fra gli elementi più promettenti del vivaio scaligero; non è questo però il suo ruolo, non si tratta di un tenore belcantista e la cabaletta dell’aria “D’ogni più sacro impegno” lo mette in palese difficoltà. È un tenore lirico che privilegia l’aspetto elegiaco del personaggio, trovandosi decisamente più a suo agio nel cantabile. Lo attendiamo con fiducia nell’imminente debutto nella parte più congeniale di Tamino nel Circuito Lombardo: almeno per ora Rossini e il Conte Alberto non sembrano proprio fare per lui, anzi, rischiano di penalizzarlo. Il gruppo dei giovani dell’Accademia è completato da Filippo Fontana (Martino), baritono chiaro assai musicale, con suggestioni tenorili che pongono qualche dubbio sulla sua reale natura vocale, Valeria Tornatore, valida Ernestina, e Jaeheui Kwon, Don Eusebio. Veterano chiamato a guidare sulla scena i ragazzi è Natale De Carolis, negli ultimi tempi assai impegnato proprio sul versante didattico. Purtroppo il baritono non ha potuto offrire al ruolo chiave di Don Parmenione, colui che scambia valigia e identità con il Conte Alberto, molto più dell’esperienza e della dimestichezza con la scena. Il suo personaggio risults elegante ma dimesso, non evidenzia la caratterizzazione brillante e gustosa di quest’essere comune in società, anche a causa di una vocalità appannata, che, per esempio, fatica parecchio nell’aria “Che sorte, che accidente”, conclusa con un certo affanno. Avremmo preferito una vocalità più fresca scelta fra le nuove leve. Altro nome emergente è invece quello di Daniele Rustioni, uno dei direttori della nuova generazione dell’Ottanta – è nato nell’83 – già proiettato a grandi traguardi internazionali, tanto che fra pochi mesi debutterà al Covent Garden con Aida. L’impressione è però interlocutoria, perché, anche in confronto con alcune produzioni dell’ultimo anno, non si percepisce ancora nella sua giovane bacchetta un percorso definito, una personalità spiccata e riconoscibile, una qualità, insomma, già matura e ben formata. Nello specifico questa Occasione ascoltiamo un Rossini piuttosto snervato, privo di brio e teatralità, ma nemmeno di colori lirici suggestivi, mezzetinte o intuizioni di fraseggio. Insomma, l’impressione è quella di un saggio piuttosto timido, in netto contrasto anche con la Norma fin troppo tonitruante (e assai discutibile) dello scorso anno nel teatri lombardi, o con l’Elisir un po’ acerbo ma di ben altra vitalità ascoltato a Bologna. La strada artistica di Rustioni non sembra ancora ben tracciata e, forse, ma speriamo di sbagliarci, il lancio internazionale è un po’ prematuro e rischia di bruciarne le qualità, che comunque non mancano. Diversi vuoti in platea e nei palchi, gallerie decisamente più popolose: in tempo di crisi è anche comprensibile che la gente il lunedì sera non si accalchi per uno spettacolo breve, per quanto godibile, con i ragazzi dell’Accademia e biglietti allo stesso prezzo degli altri titoli in stagione (anche se con un’ampia scelta, dai 12 ai 187 euro). I presenti hanno però festeggiato con calore la produzione, con punte d’entusiasmo al termine per Cortellazzi e Yende.
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